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Agide

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SCENA TERZA
AGESISTRATA, ANFARE

ANFAR. Dal fresco esiglio inacerbito ei parla: ma, non ha Sparta l'ira sua. – Dovresti, tu cui son cari Agide e Sparta, il figlio piegare ai tempi alquanto, e indurlo…

AGESIS. A farsi vile, non io, né voi, né Sparta indurlo mai non potremmo. Che del re lo sdegno non sia sdegno di Sparta, assai mel dice l'immenso stuolo di Spartani in folla presso all'asilo d'Agide ogni giorno adunati, che il chiamano con fere libere grida ad alta voce padre, cittadin re, liberator secondo, nuovo Licurgo. Assai pur alta e vera esser de' in lui la sua virtú, poich'osa laudarla ancor con suo periglio Sparta; poiché, piú del terror dell'armi vostre, può in Sparta ancor la maraviglia d'essa.

ANFAR. Si affolla e grida il popolo; ma nulla opra ei perciò: né i ribellanti modi altro faran, che inacerbir piú sempre contra il tuo figlio i buoni. Assai tu puoi, d'Agide madre, entro a spartani petti, e sovr'Agide piú: quelli (a me il credi) al cessar dai tumulti, e questo or traggi, per poco almeno, all'adattarsi ai tempi. Se il ben di tutti e il ben del figlio brami, fra víolenze e rabide contese, mal si ritrova, il sai. Se in ciò tu nieghi caldamente adoprarti, e Sparta, ed io, e Leonida, a dritto allor nemici crederem voi di Sparta; allor parranno, a certa prova, i vostri ampj tesori malignamente accomunati in prezzo, non di uguaglianza, di comun servaggio. Dell'alte imprese, ottima o trista, pende dall'evento la fama. All'opre vostre generose, magnanime (se il sono) macchia non rechi il rio sospetto altrui, che giustamente voi pentiti accusa del tanto dono; e del volerne infame traffico far, vi accusa. Io tutto appieno, qual cittadin, qual eforo, ti espongo; non qual nemico: a voi l'oprar poi spetta.

SCENA QUARTA
AGESISTRATA

– Tempo acquistar voglion costoro; e tempo dar lor non vuolsi. Ah! di costui la finta dolcezza, e di Leonida la rabbia repressa a stento, indizj a me (pur troppo!) son del destino e d'Agide, e di Sparta. Tutto si tenti or per salvarli; e s'anco irati i Numi della patria vonno sol placarsi col sangue, Agide, ed io, per la patria morremo; a lei siam nati. – Pur che risorga dal mio sangue Sparta.

ATTO SECONDO

SCENA PRIMA
AGIDE

Pietosi Numi, a cui finora piacque dal furor di Leonida sottrarre l'innocenza mia nota, omai non posso piú rimaner nel vostro tempio. Asilo volli appo voi, perché la patria inferma piú víolenze, e piú tumulti, e stragi a soffrir non avesse: or v'ha chi ardisce a' miei delitti ascriverlo, al terrore di giusta pena? ecco, l'asilo io lascio. – Oh Sparta, oh Sparta!.. esser fatal dei sempre ai veri tuoi liberatori? Ah! data fosse a me pur la sorte, che al tuo primo padre eccelso toccò! piú che il perenne bando, a se stesso da Licurgo imposto, morte non degna anco scerrei, se al mio cader vedessi almen rinascer teco il vigor prisco di tue sacre leggi!.. Ma, chi sí ratto a questa volta?.. Oh cielo! Chi mai veggio? Agiziade? La figlia di Leonida? oimè!.. la mia giá dolce moglie, che pur mi abbandonò pel padre?

SCENA SECONDA
AGIDE, AGIZIADE

AGIZ. Che veggo! Agide mio, fuor dell'asilo tu stai? ratta a trovarviti veniva…

AGIDE Qual che ver me tu fossi, amata sempre consorte mia, perché i tuoi passi or volgi verso un misero sposo?..

AGIZ. Agide;… appena… parlare io posso;… io riedo a te con l'aspra mutata sorte: il tuo stato infelice staccarmi sol potea dal padre. Il core io strappar mi sentia, nel dí che i nostri figli, e te, sposo, abbandonar dovea, per non lasciar nel misero suo esiglio irne solo il mio padre: né piú vista tu mai mi avresti in Sparta, or tel confesso, se ai crudi strali di fortuna avversa ei rimanea pur segno. In alto ei torna, tu nel periglio stai: chi, chi potrebbe tormi or da te? teco ritorno io tutta: e te scongiuro, per l'amor mio vero; (pel tuo, non so s'io l'abbia ancor) pe' figli che tanto amavi, e per la patria tua, (amor che tu tanto altamente intendi) io ti scongiuro, almen per ora, a porre tue nuove leggi in tregua. Amor di pace, dei beni il primo, a ciò t'induca: il freno ripigliar con Leonida ti piaccia della cittá, qual per l'addietro ell'era…

AGIDE Donna, d'amare il padre tuo, chi puote biasmarten mai? conoscerlo, nol puoi; l'arte tua non è questa: ottima ognora, e costumata, e pia, tu raro esemplo fra' guasti tempi di verace antico e filíale e conjugale amore, altro non sai, magnanima, che farti fida compagna a chi piú avverso ha il fato. Se mai cara mi fosti, oggi il vederti a me tornar, quando me lascian tutti. certo piú assai mi ti fa cara. Io meno dal tuo gran cor non mi aspettai; null'altro temea, fuorch'ebro di sua lieta sorte Leonida, non forse or ti vietasse il ritornarne a me.

AGIZ. Tu ben temesti. Tre giorni or son, ch'ei vincitore in Sparta riposto ha il piè; tre giorni or son, ch'io seco pugno per te. Né, per negar ch'ei fesse a me l'assenso, era io perciò men ferma di ritrovarti ad ogni costo. Ei stesso, cangiato al fine, or dianzi a te mi volle messo inviar di pace: ei, per mia bocca, piena or te l'offre; e supplica, e scongiura, che tu, lasciato omai l'asilo, in opra vogli con lui porre ogni mezzo, ond'abbia Sparta una volta e intera pace e salda.

AGIDE Ei mi t'invia? sperare a me non lascia nulla di lieto il suo cangiar sí ratto. Ma, che dich'io? sperar, se in se non spera, Agide può? ch'altro a temer mi resta, quando è piú sempre la mia patria serva? quando è piú sempre dal poter suo prisco, dalle giá tante sue virtú lontana? – Io spontaneo (tu il vedi) avea l'asilo abbandonato giá: ragion tutt'altra le astute brame or prevenir mi fea di Leonida… Ah! sí: fia questo un giorno grande a Sparta, ed a me; funesto forse per te, se m'ami… O fida mia consorte, dubitar non ne posso… Ma, se fede presti al mio schietto dir, tu d'altro padre degna, deh! invan non lo irritar; ten prego. Serbati ai figli nostri; ad essi scudo contro alla rabbia sii del padre fero: gli alti pensieri, ond'io ti posi a parte, e che sí ben sentivi, aggiunti agli alti innati tuoi, che dell'amor di figlia son la essenza sublime, in lor trasfondi sí, ch'ei crescano a Sparta e al padre a un tempo. Non assetato di vendetta io moro, ma di virtú Spartana; ancor che tarda, purch'ella un dí dai figli miei rinasca, ne sará paga l'ombra mia…

AGIZ. Mi squarci il core… Oimè!.. perché di morte…?

AGIDE O donna; Spartana sei, d'Agide moglie; il pianto raffrena. Il sangue mio giovar può a Sparta; non il mio pianto a te. Rasciuga il ciglio; non mi sforzare a lagrimar…

AGIZ. So tutte del tuo sublime, umano, ottimo core l'atre tempeste; i generosi tuoi retti disegni entro alla mente io porto forte scolpiti; e se, a compirgli appieno, del mio padre la intera alta rovina d'uopo non era, ad eseguirli presta me prima avevi, e del mio sangue a costo… Oh quante volte il padre, sí diverso da te, m'increbbe! oh quante volte io piansi d'essergli figlia! ed io pur l'era; e il sono, ahi lassa!.. e fra voi due stommi infelice: e fra voi debbo esser di pace io 'l mezzo, o perir deggio.

AGIDE Esser di Sparta figlia, e di Spartani madre esser dovresti, se in altri tempi e d'altro sangue nata tu fossi in Sparta. Il non spartano padre non io però voglio a delitto apporti. L'indole tua ben nata, ottima, ed alta, ma non diretta, udia di padre e sposo sol ricordar, non della patria, i nomi: qual fia stupor, se tu piú figlia e sposa, che cittadina, sei? Ma, qual sei, t'amo; né al tuo pensar niente spartano io volli forza usar niuna, che il mio esemplo, mai. Pel nostro amor quindi ti prego, e, s'uopo fia, tel comando; oggi a mostrar ti appresta, che madre sei piú ancor che sposa o figlia. – Ma, qual si appressa orribile tumulto? Qual folla è questa? oh! quali grida? Oh cielo! La madre? e in armi immenso stuol di plebe segue i suoi passi?

SCENA TERZA
AGIDE, AGESISTRATA, AGIZIADE, POPOLO

AGESIS. Figlio, e che? giá fuori stai dell'asilo? in chi t'affidi? in questa rea figlia di Leonida? Ben io piú certo asilo, ecco, ti adduco; ognora costor fien presti…

AGIDE O madre, Agide meglio tu conoscer dovresti: o in me mi affido, o in nulla omai. Questa, che figlia appelli di Leonida, è moglie, è amante, è parte del figliuol tuo. – Spartani, ove pur tali vi siate voi, che minacciosi in armi tumultuar quí di mia fama a danno veggio; Spartani, or parla Agide a voi. – Io, contro a Sparta, in mio favor, non voglio armi nessune; asil nessuno io cerco; null'uomo io temo. A dimostrar la mia piena innocenza, io basto: a vincitrice farla davver della malizia altrui, coll'arme no, ma con piú fermi sensi, potuto avreste un di voi stessi darmi giusto un soccorso: ma fia tardo, e vano, e reo (ch'è il peggio) ogni presente ajuto.

AGESIS. E inerme esporti alla maligna rabbia d'un Leonida vuoi? d'efori compri agl'iniqui raggiri? Ah! no, nol soffro; né il soffriran questi Spartani veri, che quí son presti a dar la vita or tutti pel loro re.

POPOLO Per Agide, noi tutti presti a morir veniamo.

AGIDE Agide e Sparta fur giá sola una cosa; or ben distinti gli ha in due la sorte; or, che a far salva Sparta, forse è mestier ch'Agide pera. Il sangue sparger non vuolsi mai; vie men, qualora rigenerar virtú non puote il sangue. Per me morir, voi nol potreste omai, senza uccider molti altri: e in un le vostre e le altrui vite in Sparta, al par son tutte della patria, non vostre. Havvi, nol niego, de' traviati cittadini molti: ma, per ritrargli al dritto, alto un esemplo memorabile appresto. A lor far forza potrò con esso; e vie piú sempre voi farò con esso di fortezza amanti.

 
AGIZ. Misera me! tremar mi fai. Che dunque
disegni?..
 
 
AGESIS. Donna; or per chi tremi? parla;
pel marito, o pel padre?
 

AGIDE Ah! tu non sai, madre, qual rechi a me dolor, l'udirti trafigger la mia sposa! Ella, piú cara che mai nol fosse, appunto a me si è fatta, per la sua vera filíal pietade. Madre, consorte, popolo, mi udite. – Ho fermo in core di convincer oggi anco i maligni, e gli invidi, e i piú rei, ch'io della patria sono amator vero. Ai cittadini, io cittadino e padre, io cittadino e re, null'altro apparvi; se non m'inganno io pur: ma in altri forse da pria destai, con víolenze, io stesso, dubbio alcuno di me: fu quindi ascritto, non a saviezza, a coscienza rea, e a vil timor di meritata pena, questo mio scelto asilo. Agide n'ebbe di volgar re la insopportabil taccia? Qual sia 'l mio core, oggi il vedranno. Oh dolce periglio a me, quel che affrontar m'è d'uopo, per ischiarir qual bene io far tentassi, e l'empia invidia di chi il ben non brama! Per la pubblica causa io re mostrarmi seppi, ed osai; per la privata mia, oso anch'esser privato: e, non ch'io creda convincer ora i tanti iniqui; in core essi giá il son pur troppo; ma coprirli, di Sparta tutta alla presenza, io deggio di vergogna e d'infamia. Essi vorranno accusar me, lo spero: io piú coll'opre, che non co' detti, a discolparmi imprendo: soltanto a Sparta i miei disegni esporre vo' schiettamente pria, soggiacer poscia…

 

POPOLO Tu soggiacer? no, mai non fia. Noi tutti farem prestarti da quei vili orecchio…

AGIDE Non voi, deh! no: sol per mia bocca il vero fará prestarmi orecchio. E, se a voi cale punto il mio onor; se presso a voi mai nulla io meritai; se nulla in me, se nulla nella memoria almen dell'opre mie sperate poi, pregovi, esorto, impongo di depor l'armi, e meco sottoporvi, quai che sien essi, agli efori. Il tiranno di Persia, allor che apertamente insorti entro il suo regno a se nemici ei trova, col dispotico brando a lor favella: ma il re di Sparta, a lor di se dá conto; e alla calunnia egli da pria ragioni oppon; se invano, imperturbabil alma vi oppon di re. – Duolmi, e dorrammi ognora, che lo stesso Leonida che assale or me cosí, dalla cittade vostra espulso andava, e inascoltato. Ei forse mal di se dato avria ragion; né il volle pure tentar; ma glien doveva io 'l mezzo ampio prestare. Agesiláo la forza volle adoprarvi; io mi v'opposi indarno: non tutti il sanno: Agesiláo vien quindi meco indistinto. Io da quel dí, ma tardi, vedea, ch'egli era uno Spartan mentito: ma mi stringeano il tempo, e l'alta brama d'oprare il bene, a cui l'ostacol tolto di Leonida fero, il campo apriva. Quindi l'esiglio suo, giusto, ma inflitto in modo ingiusto, a pro di Sparta usai.

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