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Brani inediti dei Promessi Sposi. Opere di Alessando Manzoni vol. 2 parte 2

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B) SECONDA MINUTA

Tra il primo concetto d'una impresa terribile e l'adempimento (ha detto un barbaro167 che non era privo d'ingegno) l'intervallo è un sogno pieno di fantasmi e di paure. Lucia era da molte ore nell'angosce di questo sogno: e Agnese, la stessa Agnese, l'autrice del consiglio, stava sopra pensiero, e trovava a stento parole per rincorare la figlia. Ma al momento del destarsi, al momento in cui si vuol por mano all'azione, l'animo si trova tutto trasformato. Al terrore e al coraggio, che vi battagliavano, succede un altro terrore, un altro coraggio: l'impresa si affaccia alla mente come una nuova apparizione: ciò che più si apprendeva da prima sembra talvolta divenuto in un punto agevole: talvolta s'ingrandisce l'ostacolo che appena si era avvertito, l'immaginazione sì arretra spaventata, le membra negano il loro uficio, e il cuore manca alle promesse che aveva fatte con più sicurezza168.

 

Al bussare sommesso di Fermo, Lucia fu presa da tanto terrore, che risolvette in quel momento dì soffrire ogni cosa, di esser sempre divisa da lui, piuttosto che eseguire la risoluzione presa; ma quando Fermo sì fu mostrato, ed ebbe detto: son qui, andiamo; quando tutti si mostrarono pronti ad avviarsi senza esitazione, come a cosa stabilita, irrevocabile, Lucia non ebbe spazio nè cuore d'intromettere difficoltà; e, come strascinata, prese tremando un braccio della madre, un braccio del promesso sposo, e s'avviò, senza far motto, colla brigata avventuriera.

Zitti, zitti, nelle tenebre, a passo misurato uscirono dalla porta e presero la strada fuori del paese. La più dritta e corta era di attraversarlo per divenire all'altro capo, dov'era la casa di don Abbondio: ma scelsero la più lunga onde camminare inosservati. Per una giravolta di stradicciuole al di fuori, giunsero in breve presso alla meta, e quivi si divisero. I due promessi rimasero nascosti dietro l'angolo della casa, Agnese con essi, ma dinanzi, per accorrere in tempo ad incontrare Perpetua e ad impadronirsene: Tonio col disutilaccio di Gervaso, che non sapeva far nulla da sè, e senza il quale non si poteva far nulla, si affacciarono bravamente alla porta e toccarono il martello.

– Chi è, a quest'ora? gridò una voce alla finestra, che si aperse in quel momento: era la voce di Perpetua. Malati non ce n'è, ch'io sappia: è forse accaduta qualche disgrazia?

– Son io, rispose Tonio, con mio fratello, che abbiamo bisogno di parlare col signor curato.

– È ora da cristiani questa? rispose agramente Perpetua: che discrezione! tornate domani.

– Sentite: tornerò, o non tornerò: ho riscossi non so che danari, e veniva a saldare quel debituccio che sapete: aveva qui venticinque belle berlinghe nuove: ma se non si può, pazienza: questi so come spenderli, e tornerò quando ne abbia riscossi degli altri.

– Aspettate, aspettate: vado e torno: ma perchè venire a quest'ora?

– Se l'ora potete cangiarla, io non m'oppongo: per me son qui; e se non mi volete, me ne vado.

– No, no: aspettate un momento; torno con la risposta.

Così dicendo richiuse la finestra: a questo punto Agnese si spiccò dai promessi, e detto sotto voce a Lucia: coraggio; è un momento; gli è come far cavare un dente, venne a porsi lungo la fronte della casa, poco lontano dalla porta, aspettando che tornasse Perpetua, per giungerle addosso169.

– Carneade! chi era costui? ruminava tra sè don Abbondio, seduto sul suo seggiolone nella stanza da letto, con un libricciuolo aperto dinanzi, quando Perpetua entrò a portargli l'imbasciata. Carneade! questo nome mi par bene di averlo inteso o letto; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli: ma chi diavolo era costui? Tanto il pover uomo era lontano dal pensare alla burrasca che gli si addensava sul capo! Bisogna sapere che don Abbondio si dilettava di leggere qualche linea ogni giorno, e un curato suo vicino, che aveva un po' di libreria, gli prestava un libro dopo l'altro, il primo che gli veniva alle mani. Quello su cui meditava in quel momento don Abbondio, convalescente della febbre dello spavento, anzi più guarito (quanto alla febbre) che non volesse lasciar credere, era un panegirico in onore di san Carlo, detto con molta enfasi, e udito con molta ammirazione, nel duomo di Milano, due anni prima. Il santo vi era. paragonato, per l'amore dello studio, ad Archimede; e fin qui don Abbondio non trovava inciampo; perchè Archimede ne ha fatte di così belle170, ha fatto dir tanto di sè, che per saperne qualche cosa, non fa mestieri una erudizione molto vasta. Ma dopo Archimede, l'oratore chiamava a paragone anche Carneade: e quivi il lettore era rimasto arrenato. Perpetua annunziò la visita di Tonio.

– A quest'ora? disse anch'egli don Abbondio, com'era naturale.

– Che vuoi ella? non hanno discrezione: ma se non lo piglia al volo…

– Se non lo piglio ora, sa il cielo quando lo potrò pigliare. Fatelo venire. Ehi! ehi! siete poi ben sicura che sia egli, Tonio?

– Diavolo! rispose Perpetua, e scese, aperse la porta, e disse: dove siete?

Tonio si mostrò; e in quel momento si mostrò pure Agnese, come se passasse di quivi, e salutò Perpetua per nome, fermandosi sui due piedi.

– Buona sera, Agnese, disse Perpetua: donde si viene a quest'ora?

– Vengo dalla filanda, e se sapeste… mi sono indugiata appunto in grazia vostra.

– Oh perchè? domandò Perpetua: e, rivolta ai due fratelli: entrate, disse, che vengo anch'io.

– Perchè, ripigliò Agnese, una donna di quelle che non sanno le cose, e voglion parlare… credereste? si ostinava a dire che voi non vi siete sposata con Beppo Suolavecchia, nè con Anselmo Lunghigna171, perchè non vi hanno voluta. Io sosteneva che voi gli avete rifiutati, l'uno e l'altro…

– Sicuro. Oh la bugiarda! la bugiardona! chi è costei?

– Ve lo dirò; ma non potete credere quanto mi sia spiaciuto di non saper bene tutta la storia, per confonder colei.

È una bugiarderia, disse Perpetua, la più infame! Quanto a Beppo, tutti sanno, e hanno potuto vedere… Ehi, Tonio! socchiudete la porta, e salite pure, ch'io vengo.

Tonio rispose di dentro che sì; e Perpetua proseguì la sua narrazione appassionata. In faccia alla porta di don Abbondio si apriva tra due casipole una stradetta, la quale non correva diritta più che la lunghezza di quelle, e volgeva, dietro ad una di esse, nei campi. Agnese vi s'avviò, come se volesse trarsi alquanto in disparte per parlare più liberamente: e veggendo poi che la narratrice le veniva dietro smemorata, voltò il canto, non senza un gran palpito, e Perpetua dietro. Agnese allora tossì forte. Era il segno: Fermo lo intese, fece animo a Lucia con una stretta di braccio, ed entrambi, in punta di piedi, voltarono anch'essi il lor canto, strisciaron quatti quatti rasente il muro, vennero alla porta, l'aprirono dilicatamente; uno e due, cheti e chinati, furono nell'andito, dove trovarono i due fratelli ad aspettare. Fermo abbassò pian piano il saliscendo nel monachetto: e tutti quattro su per le scale, non facendo pur romore per due. Giunti sul pianerottolo, i due fratelli si fecero in faccia alla porta della stanza che era di fianco alla scala; gli sposi si strinsero alla parete.

– Deo gratias, disse Tonio, a voce spiegata.

– Tonio, eh? Entrate, rispose la voce dì dentro. Il chiamato schiuse le imposte appena quanto era necessario per passare egli, e il fratel dietro. La riga di luce che uscì d'improvviso per quella apertura, e scorse a traverso il pavimento oscuro del pianerottolo, fece trepidare Lucia, come s'ella fosse scoverta. Entrati i fratelli, Tonio si richiuse dietro le imposte: gli sposi rimasero immobili nelle tenebre con le orecchie tese, tenendo il fiato: il romore più forte era il battito del cuore di Lucia.

Don Abbondio stava, come abbiam detto, sur una vecchia seggiola, ravvolto in una vecchia zimarra, imbacuccato in un vecchio berretto a foggia di camauro, che gli faceva cornice intorno alla faccia. Due folte ciocche che scappavano fuor del berretto, due folti sopraccigli, due folti mustacchi, un folto pizzo pel lungo del mento, tutti canuti e sparsi su quella faccia brunazza e rugosa, parevano cespugli nevicosi sporgenti da un dirupo.

– Ah! ah! fu il suo saluto, mentre si cavava gli occhiali e li riponeva nel libricciuolo.

– Dirà il signor curato che son venuto tardi: disse Tonio, inchinandosi, come pure fece, ma più goffamente Gervaso.

– Sicuro che è tardi. Sono ammalato, vedete.

– Oh! me ne spiace.

– L'avrete inteso dire: sono ammalato; e non so quando potrò lasciarmi vedere… Ma perchè vi siete tirato dietro quel… quel figliuolo?

– Così per compagnia, signor curato.

– Basta, vediamo.

– Sono venticinque berlinghe nuove, di quelle col sant'Ambrogio a cavallo, disse Tonio, cavandosi un gruppetto di tasca.

– Vediamo, replicò don Abbondio: e le prese, si rimesse gli occhiali, le volse, le rivolse, le noverò, le trovò irreprensibili.

– Ora, signor curato, mi darà la collana della mia povera Tecla.

– È giusto, rispose don Abbondio; e andò ad un armadio, e cacciata una chiave, guardandosi intorno come per tener lontani gli spettatori, aperse una parte d'imposta, riempì l'apertura colla persona, introdusse la testa per guardare e un braccio per ritirare il pegno; lo ritirò, chiuse l'armadio, svolse il cartoccino, disse: va bene? lo ripiegò e lo consegnò a Tonio.

 

– Ora, disse questi, si contenti di farmi una riga di quitanza.

– Anche questa! disse don Abbondio. Le sanno tutte: ih! come è divenuto sospettoso il mondo! Non vi fidate di me?

– Che dic'ella, signor curato? s'io mi fido! ma, dalla vita alla morte…

– Bene, bene.

Così brontolando tirò a sè un cassettino del tavolo; ne tolse carta, penna e calamaio; e si pose a scrivere, ripetendo a viva voce le parole a misura che gli uscivano dalla penna. Frattanto Tonio, e ad un suo cenno Gervaso, si posero in piedi dinanzi al tavolo in modo di togliere allo scrittore la vista della porta; e come per ozio andavano soffregando coi piedi il pavimento, per dar segno a quei dì fuori che entrassero, e per isconfondere nello stesso tempo il romore delle loro pedate. Don Abbondio, attuffato nella sua scrittura, non badava ad altro. Al fruscio dei quattro piedi, Fermo strinse la mano a Lucia per darle coraggio, e pian piano entrarono, Lucia più morta che viva; e si appostarono dietro i due fratelli. Frattanto don Abbondio, finito di scrivere, rilesse attentamente, senza sollevar gli occhi dalla carta; la piegò, dicendo: sarete contento ora? e togliendosi con una mano gli occhiali dal naso, sporse con l'altra il foglio a Tonio, levando la faccia. Tonio, stendendo la destra a prenderlo, si ritirò da una parte; Gervaso, ad un cenno, dall'altra: ed ecco, come al dividersi d'una scena, apparire nel mezzo Fermo e Lucia. Don Abbondio intravvide, vide, si spaventò, si stupì, s'infuriò, pensò, prese una risoluzione: tutto questo nel tempo che Fermo mise a proferire le parole: signor curato, in presenza di questi testimonii, questa è mia moglie. Le sue labbra non erano ancora tornate in riposo, che don Abbondio aveva già lasciata cadere la quitanza, afferrata colla manca e sollevata la lucerna, ghermito con la destra il tappeto, che copriva la tavola, e tiratolo a sè con furia, gittando a terra libro, carta, calamaio e polverino; e balzando tra la seggiola e la tavola, s'era avvicinato a Lucia. La poveretta con quella sua voce soave, e allora tutta tremante, aveva appena potuto proferire: e questo… che don Abbondio le aveva gittato scortesemente il tappeto sulla testa e sul volto, per impedirle di pronunziare intera la formola. E per tenerle meglio quel drappo ravvolto intorno alla bocca, lasciò cadere la lucerna: gridando intanto a testa, come un toro ferito: Perpetua, Perpetua, tradimento, aiuto! Il lucignolo, morente sul pavimento, mandava una luce languida e saltellante sopra Lucia, la quale, affatto smarrita, non tentava pure di svilupparsi, e stava come una statua sbozzata in creta, sovra la quale l'artefice ha gittato un umido panno. Cessata ogni luce, don Abbondio lasciò la poveretta, e andò cercando a tentone la porta d'una stanza vicina, la trovò, v'entrò, si chiuse dentro, gridando tuttavia: Perpetua, tradimento, aiuto, fuori di questa casa, fuori di questa casa. Nell'altra stanza tutto era confusione: Fermo, cercando di cogliere il curato, e remigando colle mani, come se facesse a gatta cieca, era giunto alla porta, e bussava, gridando: apra, apra, non faccia schiammazzo. Lucia chiamava Fermo con voce fioca, e diceva supplicando: andiamo, andiamo, per amor di Dio. Tonio, carpone, andava scopando colle mani il pavimento, per adunghiare la sua quitanza. Gervaso spiritato gridava, e trasaltava, cercando la porta della scala, per uscire a salvamento.

In mezzo a questo serra serra, non possiamo lasciare di arrestarci un momento a fare una riflessione. Fermo, il quale strepitava di notte in casa altrui, che vi s'era tramesso di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l'apparenza d'un oppressore: eppure, alla fine del fatto, egli era l'oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente ai fatti suoi, parrebbe la vittima: eppure egli era in realtà l'ingiusto. Così va sovente il mondo… Voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo.

L'assediato, veggendo che il nemico non isgomberava, aperse una finestra che dava in sul sagrato, e si diede a gridare: aiuto! Batteva la più bella luna del mondo: e l'ombra della chiesa e del campanile si disegnava bruna e distinta172 sul piano verde e liscio del sagrato. Per quell'ombra veniva tranquillamente, con un gran mazzo di chiavi pendente alla mano, il sagrista, il quale, dopo suonata l'avemaria, era rimasto a governare non so che arredi dell'altare. A quel gridìo levò egli la testa.

– Lorenzo173! gridò don Abbondio: accorrete: gente in casa: aiuto! aiuto!

Lorenzo, quantunque sbigottito, non perdette la testa; trovò in su l'istante ch'egli poteva dar più aiuto che non gliene fosse domandato, senza cacciarsi egli nel tafferuglio, quale ch'e' fosse. Corse indietro alla porta della chiesa; tolse nel mazzo la grossissima chiave, entrò, andò difilato al campanile, prese la corda della campana maggiore e suonò a martello174.

X.
Le correzioni all'«Addio ai monti»

A) PRIMA STESURA

I viaggiatori silenziosi, volgendosi addietro, guardavano [il paese] le montagne e il paese, che la luna illuminava. Si distinguevano i villaggi, i campanili, le capanne: il castelletto di Don Rodrigo colla vecchia sua torre [sovrastava fra le capanne e le signoreggiava] alto sulle capanne pareva un [superbo] feroce ritto nelle tenebre che [medita il delitto] in mezzo ad una folla di coricati nel sonno [stesse] vegliasse meditando un delitto. Lucia [scorreva coll'occhi] lo vide, e rabbrividì; scerse coll'occhio verso il sito della sua umile casa, vide un pezzo di muro bianco che usciva da una macchia verde scura, riconobbe la [ca] sua casetta, e il fico che ombreggiava la stessa: e seduta com'era sul fondo della barca, poggiò il gomito sulla sponda, chinò su quello la fronte come per dormire; e pianse segretamente.

Addio, monti [ritti negli abissi dell'acque] [appoggiati negli abissi delle acque ed elevati verso il cielo;] posati sugli abissi dell'acque ed elevati al cielo; cime ineguali, conosciute a colui [che vi guardò colle prime sue occhiate] che fissò sopra di voi i primi suoi sguardi, e che visse fra voi, come egli distingue all'aspetto [gli uomini coi] l'uno dall'altro i suoi famigliari, [valli segrete] valloni segreti, ville sparse e biancheggianti sul pendìo come branco disperso di pecore pascenti, addio! Quanto [spiacevole] è [doloroso il lascia] tristo il lasciarvi a chi vi conosce dall'infanzia! quanto è nojoso l'aspetto della pianura [che fastidisce l'occhio e lo conduce per lontani spazj dov'egli non trova che] dove [quello] [lo spazio che si percorre somiglia a q] il sito a cui si aggiunse è simile a quello che si è lasciato addietro, dove l'occhio [fastidito] cerca invano [negli] nel lungo spazio, dove riposarsi e [guardare] contemplare, e si [abbassa] ritira fastidito come dal fondo d'un quadro su cui l'artefice non abbia ancor figurata alcuna immagine della creazione. Che importa che nei [deserti] piani deserti surgano città superbe ed affollate? il montanaro che le passeggia [non può stupirsi degli edificj] avvezzo alle alture di Dio, non sente il diletto della maraviglia nel mirare edificj che il cittadino chiama [alti] elevati perchè gli ha fatti egli ponendo a fatica pietra sopra pietra. Le vie che [si lodano] hanno vanto di ampiezza, gli sembrano valli [anguste] troppo anguste; [ed [egli] egli sa] l'afa immobile lo opprime, ed egli che nella vita operosa del monte non [aveva] [pensava alla sanità che allor quando] aveva forse provato altro malore che la fatica, divenuto [sospettoso] timido e delicato come il cittadino, [parla] si lagna del clima e della temperie, e dice che morrà se non torna ai suoi monti. Egli che sorto col sole non riposava che al mezzo giorno, e [alla sera] al cessare delle fatiche diurne, [ora] passa le ore intere nell'ozio malinconico ripensando alle sue montagne.

Ma questi sono piccioli dolori175. L'uomo sa tormentar l'uomo [nell'animo] nel cuore; e amareggiargli il pensiero di modo che anche la memoria dei [tempi] momenti [lieti già pa] passati lietamente [gli porta un rancore] [senza] [non misto di compiacenza] [invece è tutta dolorosa. Addio, casa natale] affacciandosi ad esso perde ogni bellezza, e porta un rancore non temperato da alcuna compiacenza; è tutta dolorosa: reca all'afflitto una certa maraviglia che abbia potuto altre volte godere, e non desidera più quelle contentezze delle quali non gli par più capace la sua mente trasformata176. Addio, casa natale, casa dei primi passi, dei primi giuochi, delle prime speranze; casa [dalla] nella quale sedendo con un pensiero s'imparò a distinguere [dalle orme degli] [fra i passi degli uomini] dal romore delle orme comuni il romore d'un'orma desiderata con un misterioso timore. Addio, addio casa altrui, nella quale la fantasia [commossa, e] intenta, e sicura vedeva [il soggiorno] [si era fabbricato il] un soggiorno di [compagna] sposa, e di compagna. Addio, Chiesa dove nella prima [inf] puerizia si stette in silenzio e [colla gravità] con adulta gravità, dove si [cantò] cantarono colle compagne le lodi del Signore, dove ognuno esponeva tacitamente le sue preghiere a Colui che tutte le intende e le può tutte esaudire; Chiesa, dove era preparato un rito, dove l'approvazione e la benedizione di Dio doveva aggiungere all'ebbrezza della gioja il gaudio tranquillo e solenne della santità. Addio! Il serpente nel suo viaggio [tortuoso e] torto e insidioso, si posta talvolta vicino all'abitazione dell'uomo, e vi pone il suo nido, vi conduce la sua famiglia, [e l'uomo che] riempie il suolo e se ne impadronisce; [ne scaccia l'uomo il quale] perchè l'uomo il quale ad ogni passo incontra il [rettile] velenoso vicino pronto ad avventarglisi, che è obbligato di guardarsi e di non dar passo senza sospetto, che trema pei suoi figli [abbandona la sua abitazione, maledice il serpente sente] sente venirsi in odio la sua dimora, maledice [il vicino nuovo] il rettile usurpatore, e parte. E l'uomo pure caccia talvolta l'uomo [dalla] sulla terra come se [fosse una] gli fosse destinato per preda: [fino a quel giorno in cui] allora il debole non può che fuggire dalla faccia del potente oltraggioso: [fino a quel giorno in cui] [un giorno poi] ma i passi affannosi del debole sono contati, e un giorno ne sarà chiesta ragione.

La barca giunta alla riva, urtando sull'arena [tra] scosse Lucia, la quale [si alzò asciugand] dopo avere asciugate in segreto le lagrime, si alzò come dal sonno.

B) SECONDA STESURA

I passeggieri silenziosi, volgendosi addietro, guardavano le montagne e il paese rischiarato dalla luna, e svariato qua e là di grandi ombre. Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il castellotto di don Rodrigo colla vecchia sua torre, elevato sulle casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un feroce che ritto nelle tenebre sopra una folla di giacenti addormentati, vegliasse meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; discese coll'occhio a traverso la china fino al suo paesello: [affisò l'estremità] guardò fiso all'estremità, scerse la sua casetta, scerse la chioma folta del fico che usciva [dal] di sopra il muro: e seduta com'era sul fondo della barca, appoggiò il gomito sulla sponda, chinò su quello la fronte come per dormire; e pianse segretamente.

Addio, montagne sorgenti dalle acque ed [elevate a] erette al cielo; cime ineguali, conosciute a chi è nato fra voi, e distinte nella sua mente non meno che lo sieno gli aspetti dei suoi più famigliari; valloni segreti, ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti, addio! Quanto è tristo il passo dell'indigena che si allontana da voi! [Quegli] A quello stesso che volontariamente vi volge le spalle, [che va a procacciarsi fortuna,] [sente ad un tratto] [vede nella] [vede e corre a] [e] dirizzato a procacciarsi fortuna, si disabbelliscono in quel momento i sogni della ricchezza, e nulla gli sembra [più] desiderabile se non il soggiornare tra voi. Il suo occhio si ritrae fastidito [dal vuoto uniforme aspetto della pianura [dalla u…] e affaticato] e stanco dalla uniforme ampiezza della pianura; [dinanzi agli edificii delle città affollate [egli pensa] egli entra] l'aere gli simiglia gravoso e senza vita: egli entra mesto e disattento nelle città tumultuose; e dinanzi agli edificii ammirati dallo straniero, egli pensa [con diletto affannoso] con amore affannoso [ai suoi monti] al camperello [che egli sdel vicino su cui egli ha posti gli occhi prima di partire] a cui egli ha posto [add] gli occhi addosso da gran tempo, ch'egli si compererà tornando a casa dovizioso, e [pel quale solo si] per amore [del quale] di cui egli si affatica ad acquistare, e sopporta il tedio di viver lontano da' suoi monti.

Ma chi [mai] non aveva mai spinto al di là di quelli pure un desiderio, nè una vaghezza aerea, chi aveva composti e intrecciati con l'immagine di quelli tutti i disegni dell'avvenire, d'un avvenire sospirato segretamente, e che [pareva] si credeva certo e imminente, e ne è sbalzato [lungi] da una forza perversa! [lungi] e strappato in una volta [dalle] alle costumanze più care [e alle più care speranze] e turbato nelle più care speranze! [e parte senza sapere fra qua] s'avvia in cerca di stranieri che non ha mai desiderato di conoscere, e [senza] non può colla immaginazione [precorrere al] trascorrere per uno spazio misurato all'assenza, al momento stabilito del ritorno! Addio, casa natale, dove sedendo con un pensiero [nascosto] segreto s'imparò a distinguere dal romore delle orme comuni il romore d'un'orma desiderata con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa guardata tante volte alla sfuggita passando e non senza rossore, nella quale la [fantasia] mente [vedeva] si compiaceva di figurarsi un tranquillo e perpetuo soggiorno di sposa. Addio, chiesa, dove [era] si cantarono tante volte le lodi del Signore, dove era promesso [un], preparato un rito, dove il sospiro segreto [dell'animo] del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l'amore chiamarsi santo; addio!

Di tal genere, se non tali affatto, erano i pensieri di Lucia, e poco dissimili i pensieri degli altri due pellegrini, mentre [il battello] la barca gli andava avvicinando alla destra riva dell'Adda177.

167Prima scrisse: «(ha detto un barbaro che di tanto in tanto esce in qualche bella scappata d'ingegno, ma che nel complesso non può non accontentar noi gente «di gusto raffinato, avvezza a composizioni così continuamente ragionevoli, così rigorosamente sensate)». Nel testo definitivo è rimasto: «Tra il primo pensiero d'una impresa terribile, e l'esecuzione di essa, (ha detto un barbaro che non era privo d'ingegno) l'intervallo è un sogno, pieno di fantasmi e di paure». Il barbaro è Shakespeare, il quale espresse questo pensiero nell'atto secondo del suo Julius Caesar. Il reverendo Carlo Seven, che prese a tradurre in inglese i Promessi Sposi appena vennero alla luce, arrivato a questo passo, dette in furore e scrisse al Manzoni una lettera stizzosissima, chiedendogli conto e spiegazione di un tal giudizio. N'ebbe la seguente risposta, che ha la data del 25 gennaio 1828. «Pregiatissimo Signore, Si ricorda Ella di quel personaggio della commedia, il quale, strapazzato e battuto dalla sua sposa, per sospetto geloso, si rallegra tutto di quegli sdegni, benedice quelle percosse, che gli sono testimonianze d'amore? Ora, pensi che tale, a un di presso, è il mio sentimento, nel veder Lei così in collera contro di me, per difendere il mio Shakespeare: giacchè, quantunque io non sappia un iota d'inglese, e quindi non conosca il gran poeta che per via di traduzioni, pure ne son sì caldo ammiratore, che quasi quasi ci patisco se altri pretende esserlo più di me. E un tempo ch'io me la pigliava più calda che non adesso per la poesia e pei poeti, non le so dire quanta rabbia mi facessero quelle così rabbiose e così inconsiderate sentenze di Voltaire e de' suoi discepoli sulle cose di Shakespeare. E forse più ancor delle ingiurie mi spiaceva quel modo strano di lodarlo dicendo che, in mezzo a una serie di stravaganze, egli esce di tempo in tempo in mirabili scappate di genio: come se la voce del genio, che in quei luoghi leva, per dir così, un grido, non fosse quella stessa che parla altrove; come se la stessa potenza, che ivi fa di sè una mostra straordinaria, non si mostrasse, con meno scoppio, ma con maravigliosa continuità, nella pittura di tante e tanto varie passioni, nel linguaggio di tanti caratteri e di tante situazioni, così umano e così poetico, così inaspettato e così naturale; linguaggio cui non trova se non la natura nei casi reali, e la poesia nelle sue più alte e profonde inspirazioni; come se la stessa potenza non apparisse nella scelta, nella condotta, nella progressione degli avvenimenti e degli affetti, nell'ordine, così negletto in apparenza e così seguito in effetto, che uno non sa se debba attribuirlo a un mirabile istinto, o ad un mirabile artificio: o piuttosto v'è straordinariamente dell'uno e dell'altro, etc. etc. E appunto contro quel sentimento di Voltaire (sul quale, del resto, è stato detto da altri, prima di me, meglio ch'io non saprei mai dire) io me la son voluta prendere con quella mia frase ironica; la quale, intesa da Lei in senso proprio, non maraviglia che l'abbia così scandalizzata. Ma, poichè Ella l'ha intesa così, mi domanderà certamente come io abbia creduto che Ella l'avesse a intendere altrimenti. Le dirò che mi son fidato, prima di tutto, nelle parole stesse; le quali, se Ella vi pon mente, son tanto strane, a pigliarle sul serio, che m'è sembrato che avvisassero per sè di doverle pigliare pel verso opposto. Quelli che han voluto metter più basso Shakespeare, lo hanno detto un genio rozzo, indisciplinato, ma tutt'altro che volgare: la mia proposizione, intesa secondo la lettera, verrebbe a dirlo un ingegno barbaro e mediocre. E un giudizio, così lontano da tutti i giudizi, riuscirebbe ancor più strano e inintelligibile nella circostanza in cui è messo fuori, a proposito cioè d'un luogo famoso, d'un passo che, anche da quelli che non apprezzano lo scrittore, è conosciuto e citato come uno dei più nobili di tutta la poesia. Oltracciò, io mi son fidato nella supposizione che i miei lettori (dei quali, com'Ella dee aver veduto, io pronosticava al mio libro un numero ben minore di quello che gli ha dato la sorte) conoscessero la mia ammirazione per Shakespeare, e da questa conoscenza fossero guidati a interpretare (se ve n'era bisogno) le mie parole. Ma come l'avevano a conoscere? mi domanderà Ella di nuovo. Per un mezzo che mi viene a punto per fare una mia vendetta, una vendetta proprio di quelle atroci, alla moda di noi altri italiani, per castigarla, s'Ella mi permette, dell'aver pensato così male di me. E il suo castigo sarà di leggere una mia lettera, in francese, intorno alle unità drammatiche, lunga di molte buone pagine e pubblicata già da qualche anno. Ma io veggo ch'Ella domanda misericordia, e non voglio esser crudele: ridurrò dunque la pena allo stretto necessario; e, per uscir di scherzo, la pregherò di guardare nell'edizione, fatta costì [a Pisa] da codesto sig. Capurro, di varie mie corbellerie, i luoghi di quella lettera dove è parlato di Shakespeare. E sono, alla pag. 409, un piccolo confronto tra il concetto generale dell'Otello e quello della Zaira di Voltaire. Poi, alla pag. 414, dove, confessando che non mi gusta la mescolanza del serio e del giocoso nei drammi di Shakespeare, Ella vedrà s'io rinnego l'uomo, e se dibatto punto della mia ammirazione per esso. Alla 421, dove, per la parte mia, Shakespeare non è quasi altro che nominato, ma vedrà come e in che compagnia: quivi poi son riferite osservazioni d'un mio amico, le quali Ella leggerà sicuramente con piacere. Finalmente, s'io ho ben frugato per tutto, alla pag. 429, dove comincia un transunto del Riccardo II; un transunto magro e atto forse a dimostrare che chi l'ha steso abbia poco veduto in Shakespeare; ma non certamente che vi abbia poco guardato. Ciò non di meno, l'effetto che la mia frase ha prodotto in Lei così contrario al mio intento, mi dà giusto sospetto di non essermi spiegato così chiaro come avrei dovuto, e mi fa temere che un effetto simile non sia prodotto nel più degli altri lettori ch'io avrò da Lei: sicchè, non solo io consento (come Ella gentilmente mi propone); ma la prego ch'Ella voglia prevenire ogni simile interpretazione in quel modo che le parrà migliore. Le rendo nuove grazie dell'onore che Ella mi fa coll'occuparsi della mia favola-storia; e sento lietamente la speranza che Ella mi da di potere presto aver quello di conoscerla personalmente e di esprimerle a viva voce la mia riconoscenza e i sentimenti dell'alta stima, coi quali mi pregio di rassegnarmele Dev.mo obb.mo servitore Alessandro Manzoni». Carlo Seven stampò la lettera a pp. XI-XVII della Preface che sta in fronte al vol I. della sua traduzione, accompagnandola con queste parole: «This passage» (l'accenno al barbaro che non era privo d'ingegno) «contains a sentiment from Shakespeare; and i was struck, as every one who reads it must be, with the parenthetical remark; in which the author styles the King of Bards a barbarian not entirely destitute of talent, Indignant, as a loyal subject should be at the aspersions of a rebel, I dared to fling the gauntlet at his feet; and in a letter to M. Manzoni (to which I was encouraged by a previous communication), I charged him zealously if feebly, with his crime. In the reply, which I am permitted to annex at foot, he condescends to rebut the charge; and extend a friendly hand, where I looked for a hostile glaive. He alleges, as will be seen, that the passage is ironical – but I will not spoil the defence by garbling it. Let the Reader consider it with attention; and while attracted by the beauty of the Autor's style – the force and warmth of his panegyric on Shakespeare: while admiring the ingenious mode by which he deprecates our English prejudices – let him recommend to this highly gifted individual, henceforward to be less frugal of a note of admiration! And let him add, in the language of one among the consummate masters of Irony that England has had to boast «To statesmen when we give a wipe, We print it in Italic type». Cfr. The betrothed lovers; | a | milanese tale of the XVIIth. century: | translated | from the italian | of | Alessandro Manzoni. | In three volumes. | Vol. I | Pisa: | Niccolo Capurro, Lung'Arno | 1828; pp. VIII-X.
168Segue cancellato: «Un matrimonio clandestino era per Lucia Zarella quello che l'uccisione d'un dittatore per Marco Bruto». (Ed.)
169Segue cancellato: «Perpetua era salita a portar l'ambasciata a don Abbondio, il quale, convalescente della febbre dello spavento, anzi più guarito (quanto alla febbre) che non volesse lasciar credere, stava sul suo seggiolone, con un libricciuolo aperto dinanzi. Il pover'uomo, tanto era lontano dal pensare alla burrasca che gli si addensava sul capo! andava cercando nella sua memoria chi fosse stato Carneade. Bisogna sapere che don Abbondio si». Il Manzoni nel correggere la copia per la Censura troncò qui il capitolo, e di quello che segue ne formò il principio del capitolo VIII. (Ed.)
170A proposito dell'accenno a Carneade il prof. Nino Tamassia [Due note manzoniane; in Giornale storico della letteratura italiana; XXI, 182] scrive: «chiedere perchè il Manzoni tirò fuori il nome di quel letteratone del tempo antico, sembrerebbe forse una stranezza bell'e buona: e pure non è così. Accostiamo alle parole messe in bocca di don Abbondio queste altre di un dialogo di Agostino [Contra Academicos, cap. III, n.º 7; in Opera, ed. Venet. 1833, I, p. 305]: Tum Licentius: Carneades, inguit, tibi sapiens non videtur? Ego, ait, Graecus non sum, nescio Carneades iste qui fuerit. Non coincide la domanda di don Abbondio: Carneade! Chi era costui? con la frase di Agostino: nescio Carneades iste qui fuerit? Il Manzoni aveva studiato il gran dottore africano, e ne fa fede la lettera sua al Poujoulat… nella quale, da par suo, cerca di determinare dove precisamente sorgesse il celebre Cassiacum, ove Agostino si era ritirato con la madre, il figlio e gli altri amici, per prepararsi al battesimo. E notisi che il dialogo contra Academicos è opera nata dalla conversazione di Agostino e de' compagni, durante il tranquillo soggiorno di Cassiaco. Non parrà dunque più strana, dopo queste considerazioni, l'ipotesi che il Manzoni, scrivendo i Promessi Sposi, ricordasse il nescio Carneades iste qui fuerit, e lo facesse dire al povero don Abbondio, come saggio della non troppo ampia cultura del clero d'allora». Proprio dopo le parole della seconda minuta, che ho stampate: «perchè Archimede ne ha fatte di così belle», il Manzoni scrisse, ma cancellò: «che non occorre esser molto erudito per saperne qualche cosa. Ceda Carneade, proseguiva poi il panegirico. Carneade! ruminava tra sè il lettore: chi era costui? mi par bene… Perpetua entrò ed espose la domanda di Tonio». È evidente: la fonte alla quale attinse il Manzoni, non si deve cercare nel passo di S. Agostino, ma nel «panegirico in onore di S. Carlo, detto con molta enfasi, e udito con molta ammirazione, nel duomo di Milano, due anni prima». Il Lucchini [Comentario dei Promessi Sposi, ovvero la rivelazione di tutti i personaggi anonimi, Lecco, 1904; pp. 129-130] afferma recisamente: «Il libro sul quale meditava in quel momento don Abbondio… era un panegirico in onore di S. Carlo… Quel panegirico… avea per titolo La Fenice, e il suo autore fu Lucio Giuseppe Avogadro della Congregazione di Somasca e professore di teologia a S. Maria Segreta in Milano, ove era prevosto». La Fenice, oratione in lode di S. Carlo Borromeo… di Don Lutio Gioseppe Avogadro, fu recitata alli 4 di Novembre 1652; venne stampata «in Milano» appunto nel MDCLII, e non c'è rammentato nemmen per sogno Carneade! Si tratta invece d'un altro panegirico, recitato nel 1626. Bisogna frugare per le Biblioteche di Milano e scovarlo. L'ho tentato, ma per ora senza frutto. Coraggio e avanti; la fortuna arrida al nuovo Colombo! (Ed.)
171Prima aveva scritto: «Beppo Calcarello» e «Anselmo Stacchi». (Ed.)
172Le parole: «bruna e distinta» furono aggiunte dopo, in margine. (Ed.)
173Nella copia per la Censura e nella stampa lo ribattezzò Ambrogio. (Ed.)
174È un brano del capitolo VII del tomo I della seconda minuta. (Ed.)
175Fin qui il brano è tolto dal foglio che il Manzoni numerò prima 90, poi 92, e che nella nuova numerazione a matita è il 68-69. Questo foglio appartiene al tomo primo della prima minuta. Il brano che segue è tolto dal foglio 91, numerato recentemente 66-67. (Ed.)
176Il Manzoni notò in margine: «Dolore speciale: la contemplazione della perversità d'una mente simile alla nostra: idea predominante in chi è afflitto dal suo simile». (Ed.)
177Si legge in margine del foglio già ricordato, che il Manzoni numerò prima 90, poi 92. (Ed.)

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