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Novelle umoristiche

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IV

Impazienza, ira e litigi promuovono le piccole sventure; non le grandi, le quali abbattono quanti ne sono colpiti in un pietoso filantropico accordo.

– Che volete farci? – mormorava la signora Clotilde dinanzi al terzo «servizio da caffè» e alla muta desolazione dei fidanzati. – Buon viso a cattiva fortuna, figlioli!

Disse finalmente Gustavo:

– Dimani bisognerà ridere; ingoiare la rabbia; fingere che niente sia; se no, ci metteranno su le ventole!

– Sarà bene avvertirli prima, gl'invitati, perchè si meraviglino meno – disse la Gigia, finalmente.

Non era possibile, infatti, nascondere i due primi servizi, il donatore e la donatrice essendo invitati alla colazione; e non volendosi sottrarre il terzo, quello dei colleghi, che appariva, al confronto, magnifico. Per suprema ironia era magnifico!

Nè il domani mattina alla funzione nuziale, in chiesa prima e dopo al municipio, fu alcuno che al vedere la sposa un po' turbata, un po' troppo smorta, non ne ammirasse la commozione del solenne ufficio che si compieva, il verginale panico per il solenne sacrificio a cui era condotta, il trepido cuore per l'amore che la beava: nessuno ci fu che pensasse a un estraneo disturbo di tanta felicità. La poverina aveva, insistente, la visione d'un collegio di chicchere vigilate da matrone, che erano le caffettiere e le zuccheriere. Quanto allo sposo, avanti di arrivare a casa, rivelò a un testimonio una sola causa di cruccio: l'ingratitudine del conte.

– Nemmeno un biglietto! E son dieci anni che lavoro per lui senza aumento di stipendio!

– Pensate – aggiungeva – che ogni volta che capitava in ufficio era sempre lì a dirmi: «Terpallino… Gustavino…: quando la facciamo la corbelleria?»

– Dov'è adesso? – chiese uno.

– A Firenze col maestro di casa, che mi promise di rinfrescargli la memoria… Ma sì!..

Esclamò uno dei testimoni, che era socialista: – Tutti uguali i nobili! – L'altro, moderato, tacque.

Avanti d'entrare in casa, Terpalli s'arrestò dicendo:

– Ora vedrete i tre «servizi»!

Tanta serenità e disinvoltura indussero tutti a ridere: anche la sposa e la mamma; anche gli invitati che attendevano, e quelli che sopraggiunsero; toltane, s'intende, la vecchia amica signora Tecla, a cui il suo servizio sembrava il più brutto dei tre, e s'arrovellava a valutare gli altri due.

– Che caso! – Oh che caso!

– Sono casi però che fanno rabbia – disse lo zio materno.

– Son brutti scherzi del destino! – esclamò un secondo. – Una cosa che non si crederebbe! – borbottava un terzo; di guisa che l'ilarità diveniva compianto sincero nell'attesa della colazione.

– A tavola! a tavola! – chiamò la mamma.

– Chi manca?

Mancava lo zio di Gustavo. Ma lindo, nitido, sorridente, senza peli, con una impressione di maschera benevola su la faccia tonda, eccolo, lo zio Tarabusi.

– Fortunato!.. felice!.. Stieno comodi – rispondeva alle presentazioni, dopo aver baciata su la fronte la sposa, la «cara figliola» – Oh caro: oh! carissimo! – diceva a quelli che conosceva. – Tanto, tanto piacere! – ripeteva alle nuove conoscenze… Finchè diede una sbirciatina alla tavola dei regali. – To'! quante chicchere! Pare un reggimento di fanteria…

– Eh, zio: che ne dice? – Raccontavano la storia.

– Oh bella! bellissima!.. Ma se io avessi potuto prevedere… Oh senti – aggiunse con quella sua bocca melliflua, traendo a sè lo sposo. Quindi a bassa voce: – Sai? debbo partire…: alle dieci e trenta per Modena…

– Come?

Più piano:

– Eh!.. Bella figura m'hai fatta fare!..

– Ma… zio…

– Dovevi avvertirmi…; tuo dovere… I confronti sono odiosi.

– Creda…

– Dovevi avvertirmi!

Ogni preghiera fu inutile. Tornò mellifluo tra gli altri.

– Dicevo qui, a Gustavo, che non posso trattenermi… Mi scusino… Debbo partire… per Modena: alle dieci e trenta. Mi scuseranno tutti questi signori…

– Rimanga, zio!

– Resti, signor Tarabusi!

– Diavolo!.. signor Tarabusi!

… – Non posso, davvero… Sposina, i miei auguri!

– Due confetti, zio…

– Grazie…

– Il caffè, zio? Un goccio di caffè, almeno…? Offrire il caffè a lui (in quale delle chicchere?) sarebbe stato un grave insulto, se lo zio non avesse compatito il nipote come uno che avendo preso moglie aveva perduta la testa, e se Gustavo non si fosse corretto subito:

– Un cognac, almeno…?

– Bevo di rado cognac… Grazie… Un'altra volta, caro. Addio! riverisco! addio! Stiano bene… tutti! – E con un nuovo inchino e un: – Evviva gli sposi! – quel Tarabusi se ne andò.

… La colazione nondimeno procedè benissimo. Vini e liquori dissiparono ogni ombra dall'anima della sposa, rapirono allo sposo il ricordo dello zio e dell'ingrato conte; avvivaron giocondità e malizia nelle giovani donne; suggerirono motti agli uomini, e bei racconti. Quando, d'improvviso, squillò il campanello. Chi mai?

Alla Gigia era sobbalzato il cuore. E Gustavo correva alla porta gridando:

– Il conte! – Un telegramma forse?.. o il regalo?.. – Il conte!.. – Il conte… senza dubbio!

– Oooh!.. – fecero tutti, vòlti al facchino dell'agenzia che veniva a deporre una cassetta.

– Viva il conte! – Su la cassetta era scritto fragile; la sposa vi teneva lo sguardo smorto.

– Presto! un martello, un coltello! – Con una lama da interporre alle assicelle del coperchio Gustavo tornò dalla cucina; mentre il testimone socialista gridava:

– Il primo aristocratico galantuomo che conosco!

– Oh ce ne sono! – ribatteva il testimone moderato. – E di cuore!

– Se vuol bene a Gustavo, Gustavo se lo merita: ecco tutto! – osservava un altro.

– Non dico; ma…

– Viva il conte! Viva il conte!

Crac fece l'assicella allo sforzo di Gustavo. Allora tutti tacquero, ansiosi, nell'attesa che la cassa fosse aperta interamente. Ma perchè la cugina aveva scambiato uno sguardo d'intelligenza col socialista, quasi a un vicendevole ridevole dubbio? Perchè lo zio paterno tabaccava adagio, quasi a togliersi d'imbarazzo? Perchè il testimonio moderato fumava in fretta guatando alle donne; e la mamma e l'amica Tecla tenevan gli occhi su la sposa come temessero d'uno svenimento? Quale idea uscita di mente alla sposa o dalla cassetta, e venuta in mente a tutti, accresceva l'ansia e dipingeva nel viso di chi più avrebbe dovuto esser felice il terrore d'un malefizio, e accendeva negli occhi degli altri una perfida speranza di lunghe risa? Gravava un destino assurdo o tremendo su quella cassa, su quelle anime?..

Lo sposo – crac – con l'angustia di quando, ancora in preda a un sogno funesto, si ricorre, nel destarsi, alla vita, sollevò del tutto il coperchio…

Dall'Eldorado

I

Raccogliendo e riprendendo con la sinistra la scarsa barba, dalla tavola a cui sedeva Polla guardava a quanto poteva scorgere del temporale. Passavano di furia i nuvoloni neri: uno ne dilacerò un fulmine. E cominciava a piovere; nè ancora cessava il vento che faceva sbattere le imposte, da Polla lasciate sbattere.

«Oh portasse via la bufera anche la casa! Una tempesta enorme rovesciasse Roma e tutte le città d'Europa! Un ciclone rovinasse, magari, il mondo!»

Non che Polla – il quale amava tutti gli uomini come fratelli e pel quale i borghesi sfruttatori e capitalisti erano non uomini ma belve – si arrovellasse così, in un desiderio di distruzione, per malanimo o per teoria socialista o per lotta di classe: no, no; solo risentiva lui stesso di quel turbamento elettrico e meteorico e, per di più, gli sommoveva pensieri neri come le nuvole, che si aggrappavano nel cielo di contro, un appetito ahi quel dì insaziabile! All'ora infatti in cui i borghesi andavano a desinare, egli restava alla tavola deserta, perchè già pioveva e non aveva ombrello e perchè non aveva un soldo in tasca e non sapeva qual trattore potesse più accoglierlo a credito. Fino a quando?.. Ah che appetito! In verità, quel giorno sarebbero appena bastate al suo desiderio una porzione di spaghetti, una di lesso, una di vitello, una di fragole e una bottiglia di barolo, il vino che prediligeva.

Frattanto, di sottovento, la pioggia entrava nella camera con tal impeto e abbondanza che il buon Polla finalmente si alzò per chiudere i vetri. Ed ecco sembrargli che una nuvola più densa, opaca, precipitasse, abbattuta da una ventata, giù, alla volta della sua finestra… Una nuvola? Arrivava con la velocità d'una palla da cannone e non era una nuvola: un corpo strano, solido, straordinario: un enorme animale!.. Oh! Nell'attimo, Polla fece appena in tempo a scampare alla parete, che già piombava nella camera: vi cadde con un tonfo profondo su l'impiantito… Che cosa? Chi?..

Un condor spaventevole, un pipistrello pauroso? Era un misterioso involto, che, come cosa morta, non si moveva più affatto. Riavendosi però dal primo spavento, invece d'invocare soccorso, il socialista tacque, avanzò; retrocedette. Non era un condor, non era un'aquila, non era un pipistrello! Avviluppata nell'ali che s'erano raccolte al cessare del volo, l'insolita bestia non dava a conoscersi che per le estremità inferiori. Ebbene, Polla si avanzò di nuovo e ruppe in un'esclamazione di meraviglia alla vista di sì fatti piedi e di cosifatte gambe. Quell'animale era un uomo o, alla peggio, una donna volante! Una creatura umana, immota, svenuta o morta al suolo della sua stanza!

Con che cuore egli la volse supina e ne udì battere il cuore (era un uomo)! Con che cuore si sforzò a trascinare e adagiar il miracoloso viaggiatore nei suo lettuccio, dopo averlo spogliato delle fine e seriche ali e della giubba cui stavano connesse! Un uomo non calvo! I capelli lunghi e aurei diffusi su la bianca fronte e la lunga e gentile barba non scemavano giovinezza all'aspetto venerabile; e tutta la persona incuteva tal rispetto di beltà che, non potendo paragonarlo a un angelo, in cui non credeva, il positivista Polla lo paragonò a Adone, se pure Adone aveva la barba. N'esercitava frattanto il sangue al cuore con massaggio; ne spruzzava d'acqua il volto; finchè sospirarono entrambi: l'uomo che ricuperava vita e coscienza, e l'uomo che aveva salvato un fratello, quantunque volante.

 

Polla disse subito:

– Good day!

No. Era biondo, ma non inglese.

– Guten abend! – Non tedesco.

– Bonjour, monsieur! – Non francese.

– Buenas dies, caballero! – Non spagnolo.

Ricordandosi infine di essere italiano, Polla fece, cortesemente:

– Ben arrivato!

D'un soave sorriso, avvivando gli occhi da prima incerti quali d'uno che davvero sia cascato dalle nuvole, lo straniero mormorò qualche melodiosa incomprensibile parola; poi contorse la bocca a pronunciare una parola di lingua evidentemente non sua; di lingua internazionale.

– Volapuk?..

– Volapuk! – gridò Polla, che dai comizi aveva presa l'abitudine di parlare a voce alta. – Oh, oh! Al vostro paese si studia il volapuk? Non ha attecchito da noi! Non importa. A poco a poco, fratello, c'intenderemo lo stesso! E, ditemi…

Ma o per quel chiasso dell'eloquente socialista, o per il dolore della caduta, o per lo sfinimento di cui era prova il pallido viso, l'infelice forestiero sarebbe svenuto ancora, quando con uno sforzo supremo non avesse rialzato il capo, e stringendo all'estremità le dita della destra, non avesse portata due volte la mano alla bocca mentre lo sguardo aiutava l'espressione del gesto.

– Avete fame? – comprese e chiese Polla. – Poveretto! Anch'io ho fame! Ma io non posso offrirvi che un bicchier d'acqua!

Quasi indovinasse le condizioni economiche dell'ospite, l'altro affrettava un segno della mano verso l'involucro rimasto sul pavimento. E Polla ubbidì. Presso al punto ove ai fianchi dell'arnese (fosse corpetto o giubba) eran fisse le ali, egli avvertì subito due bisacce; nè esitò a introdurvi la mano, quantunque il forestiero già accennasse di tastar più in basso. Ma… e là cosa c'era? Sentiva un peso non lieve, come di ciottoli, e per accertarsi se era o no la zavorra, introdusse la destra. Questa volta Polla, che non credeva in Dio, che credeva solo nel «fattore economico», esclamò:

– Dio! Non sono pezzi di vetro! Non sono sassi! – Che cosa erano? Che cosa erano?

Erano diamanti, smeraldi, oro! E non un sogno! Ma realtà! Un miracolo! Diamanti! smeraldo! rubini! oro! Fu tale la meraviglia di Polla che attese a lungo prima d'accorgersi come l'infelice girasse e chiudesse gli occhi, e sveniva. Presto, più giù, ove disperatamente il misero aveva volto il cenno, l'ospite trovò un grazioso vasetto piccolo piccolo, che quasi si aperse da sè effondendo un cordiale profumo… Conteneva roba così buona che ne bastò un pizzico a ristorare d'un tratto dal profondo del cuore, il forestiero estenuato. Il quale poscia offerse il vaso all'amico; sorrise d'un suo dolce e luminoso sorriso; e per riposare reclinò il capo e chiuse gli occhi, non più alla morte, ma al sonno.

Polla aveva fame: aveva sotto gli occhi, sotto il naso, presente alla gola l'«estratto» ch'effondeva quel profumo saporito, ineffabile; eppure non lo toccò, sdegnò ristorarsi anche lui, per tornare all'involucro volatile. Nè riusciva a persuadersi che non sognava; la zavorra era tutta quanta di gemme preziose! E se poteva ingannarsi intorno alla qualità e al prezzo d'alcune delle pietre, su altre non s'ingannava certo. Convinto, alla fine, le depose tutte in terra, in un mucchio, e stette a contemplarle. C'era proprio da impazzire; tanto più che la fatica della contemplazione accresceva la debolezza del digiuno… E non si risolveva ancora ad approfittar dell'«estratto»! Solo quando si sentì venir meno, allora prese un pizzico di polvere dal vasetto, e parendogli néttare o ambrosia ne prese un secondo, eppoi un terzo, eppoi un quarto, eppoi un quinto; finchè n'ebbe nausea; che quella roba era troppo sostanziosa e focosa. Ma sublime! ma incomparabilmente migliore d'ogni nostro più squisito cibo! Inoltre, a ingoiarla, seguiva un fervore nel sangue, come per un eccitante liquore, e una gran fretta e lucidità di idee e una gran letizia nell'animo.

– «Il tuo è mio!» – cantava Polla tornando alle gemme per raccoglierle e metterne nella sua tasca più d'una. Ma, e se il forestiero non le teneva in conto di ciottoli ed era un borghese? Ebbene, in tal caso, éccogli restituita la sua zavorra! Lui, Polla, non prendeva che uno smeraldo per far moneta, per esercitare secondo conveniva gli uffici dell'ospitalità e provvedere da pranzo non a sè, che non aveva più fame e solo aveva sete di un po' di barolo ma all'ospite, che tra poco si sveglierebbe e avrebbe fame e sete. In ogni caso, lo strano uomo dalla strana visita contraeva obbligo di gratitudine, di amicizia, di compenso al disturbo… Lui, Polla, si prendeva dunque uno smeraldo. Una cosa da niente in confronto al resto! Un ciottolino da non ringraziarne nemmeno la Provvidenza, quand'anche un socialista marxista e inscritto al partito avesse potuto ammettere la Provvidenza.

Dopo di che Polla sarebbe uscito di casa, allegro come mai in vita sua, se al limitare non l'avessero trattenuto queste domande: Lo smeraldo non era troppo grosso e non susciterebbe ingiusti sospetti nel gioielliere? Qualcuno non aveva forse visto entrar là l'uomo volante? Aveva questi un foglio di via? Non ne sapevan nulla le guardie di pubblica sicurezza?

Per tutta risposta, tornò indietro, sollevò giubba e ali; osservò meglio il piccolo e semplice congegno di molle riposte tra seta e fodera e provò di adattarsi quell'abito. Ma dopo inutili tentativi s'avvide che il congegno era guasto; forse irreparabilmente guasto! Gli bisognava restare a terra, restar a Roma. Rassegnandosi, Polla sostituì al grosso smeraldo un men grosso rubino, e dimenticandosi, non di mettere questo in tasca, ma quello nel mucchio, con uno sguardo pieno di gratitudine stette a considerare il forestiero che dormiva dolcemente, senza russare; ad ammirare quell'uomo la cui bellezza assumeva a' suoi occhi un'imagine bella come nessun'altra mai.

Caro amico! Si rassomigliavano senza dubbio, lor due, quantunque Polla avesse il naso un po' troppo aquilino, e l'altro l'avesse perfettamente fidiaco; Polla avesse barba scarsa, dura e rossiccia, e l'altro una barba aurea, fine e copiosa; Polla fosse calvo e l'altro capelluto; Polla vestisse nè con garbo nè con grazia, e l'altro indossasse sandali, calzoni e maglia di un'ignota materia che aderiva alle membra e le proteggeva senza impacciarle. Ma a Polla sembrava di vedere se stesso elevato a una razza superiore, o sè stesso trasferito in un secolo di perfezionamento futuro; e lieto anche di questo, uscì e discese. Si era già accertato che aveva ben chiuso l'uscio a chiave.

II

Anche l'ambrosia può far male. Polla, di ritorno a casa con una sporta gravida di vettovaglie e con una bottiglia di barolo vecchio, fu costretto a sedersi sul primo gradino della scala per riacquistar lena e rimettersi in equilibrio. Alla testa gli si era diffuso lo spirito di quello squisito estratto, mentre lo stomaco, contraendosi, stentava e soffriva a digerirne la parte soverchia, e l'intestino già cominciava a dolersi di ricevere sostanza sconosciuta e così calorosa. Però, consapevole dell'ebbrezza, Polla non dubitava di non ragionare; anzi credeva di ragionare benissimo, e ora guardando alla bottiglia, ora premendo col braccio il petto e il portafogli, vedeva naturale quella sua avventura quasi inverosimile; gli pareva la cosa più semplice del mondo che un uomo volante fosse stato portato da una corrente aerea fino a Roma e spinto proprio dentro la sua finestra; giudicava agevole ottenere in dono dall'ospite metà almeno delle pietre; pensava che dopo ciò non gli sarebbe più necessario fare il socialista e che se non gli riuscisse d'arrivare, per una via o per l'altra, al paese di quel signore, potrebbe vivere allegramente, conservatore o borghese, anche in Europa. E i compagni? e la promessa fede? e l'aiuto al partito? e la teoria di Marx? e l'evoluzione pacifica? e tutti i problemi economici e sociali? Sciocchezze! Adesso un problema solo aveva da risolvere: in che modo salirebbe fin lassù alla sua stanza, al quarto piano, ahi, con la testa in giro e le viscere commosse.

Nondimeno, e dopo molte pause, vi giunsero sane e salve la sporta e la bottiglia; e lui, senz'altro male che dolori forti come morsi. Ma allorchè intoppava la chiave Polla udì ridere dentro la camera. Aperto che ebbe, lo straniero gli venne incontro con viso di giocondità cordiale e con graziosi inchini.

– Ridete? – gemette Polla abbandonandosi su d'una seggiola. – Io invece sono rovinato! Accidenti…! Mai più estratti! mai più peptoni! – Quindi premendosi con le mani: – Oh che male allo stomaco! – aggiungeva. – Oh che male alla pancia!

– Stomaco?.. Pancia?.. – ripetè l'altro, che non essendo tanto afflitto dalle doglie dell'amico quanto studioso d'apprenderne e ritenerne il linguaggio, indovinava dagli atti il significato di quelle parole.

– Se provassi – continuava Polla – se provassi a mandar giù un po' d'acqua, o un sorso di barolo?..

– Barolo? – ripetè lo straniero. E sorridendo alla forma della bottiglia la sollevava e la sturava lui stesso.

Come ebbe bevuto, a sentirsi meglio, il socialista disse:

– Bevetene anche voi! Bevete: è mio e vostro. Sorseggiando un mezzo bicchiere lo straniero ebbe una grande voluttà; sicchè, con un sospiro, portò una mano al cuore per troppa dolcezza, quale un uomo che non avesse mai gustato vino.

– Mangiate qualche cosa… – Polla esortava, meglio che a parole, a cenni. – Tanto, io… per ora almeno… ahi!.. non posso farvi compagnia.

Da qual paese veniva quel signore così intelligente che subito coglieva il significato dei cenni e delle parole e con meravigliosa facilità fonetica ripeteva le parole udite? Era un uomo così straniero che al veder le fragole e le ciliege fuori della sporta, rimase come resterebbe uno di noi a scorgere fragole e ciliege grosse più che cocomeri!

Non si descrivono neppure le espressioni delle labbra, degli occhi e dell'armonico eloquio con cui accertava che mai, mai avrebbe pensato di trovar sì buone quelle fragole così piccole. Anche, non gli spiacque il roastbeef; benchè da prima quasi gli repugnasse e benchè non ne mangiasse più di mezza fetta. Ma le ciliege a dirittura lo deliziarono, lo fecero ingordo al punto da ingoiarne il nocciolo.

Polla, che ora stava peggio, gli raccomandava di mangiare senza complimenti, di mangiar tutto e mormorava:

– Si direbbe che costui non è avvezzo che agli estratti e ai peptoni chimici.

Infatti ogni incitamento divenne inutile, perchè l'altro diede a conoscere che non solo era sazio, ma che aveva mangiato troppo. Sempre cortese, dopo, dimandò:

– Stomaco?.. Pancia?..

– Ahi! – rispose Polla, a cui l'ebbrezza soltanto era cessata, non il male.

Per passare il tempo e arricchire la sua cultura l'uomo volante cominciò allora a toccare questa o quella cosa, rallegrato o stupito dalla forma di esse e dai nomi che ai suoi atti di richiesta gli diceva Polla.

– Catino… Già… per lavarsi; e quella, sì, la brocchetta dell'acqua… Sedia! si chiama sedia!.. Il letto, appunto, da dormire! Questo?.. Comò!; da tenervi i vestiti… chi ne avesse!

A che l'altro, con prontezza di lingua e di memoria, riepilogando:

– Catino per lavarsi; brocchetta dell'acqua; sedia; letto da dormire; comò da tenervi i vestiti chi ne avesse.

Era proprio un brav'uomo, oltre che bello; e da qualunque parte fosse giunto, per l'ingegno che aveva non poteva essere che un socialista. Pertanto, in un momento di tregua, l'ospite declinò il suo nome.

– Io ho nome Polla, e voi?

– Nome… Polla? – Non aveva compreso.

– Mi chiamo così! – Poscia, a spiegarsi meglio, finse che uno lo chiamasse «Polla!», e finse di rispondere: «Eh?»

– Io ho nome Edon! – esclamò l'altro avendo compreso bene.

– Fortunatissimo, caro Edon, di offrirvi la mia ospitalità e i miei servigi! – Polla disse, mentre gli prendeva e gli stringeva la mano; senza prevedere che dopo questo atto l'altro correrebbe al catino a lavarsi. Certamente in quel paese non usavano salutarsi in tal modo contrario all'igiene.

… Ripreso l'esercizio di nomenclatura e di lingua vi s'intrattenevano da quasi un'ora, quando Edon, non avendo peranche finito di ridere a veder Polla che accendeva una candela, s'abbandonò sul letto e in puro italiano lamentò:

– Oh che male allo stomaco! Oh che male alla pancia!

Era vero. Come aveva imaginato Polla, egli non era uso che ai cibi chimicamente ridotti, e aveva fatta un'indigestione grave di quel poco cibo nostrano.

 

Entrambi giacquero perciò fraternamente addolorati, eppur lieti di cominciare a intendersi e di poter chiacchierare? con le interruzioni di gastrici ohi ed ahi! Nè è meraviglia se già prima d'addormentarsi Polla ebbe appreso come Edon veniva da un luogo ove tutti gli abitanti volavano, e come era stato rapito dal vento. E poichè i giornali avevano preannunciato un ciclone in viaggio dall'Atlantico, giustamente il socialista pensò che l'amico proveniva da una qualche terra d'America; la quale, abbondando di ciottoli ch'erano smeraldi, rubini, diamanti e pezzi d'oro, doveva essere l'Eldorado.