Il Morbo Di Parkinson: Le Fasi Finali

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Il Morbo Di Parkinson: Le Fasi Finali
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Il Morbo

di Parkinson:

Le Fasi Finali

Dr. Juan Moisés de la Serna

Dr. Ángel Moreno Toledo

Dr. Fabián Cremaschi

Traduttore Samuele D`Anella

Tektime Editore

2020

“Il Morbo di Parkinson: Le Fasi Finali”

A cura di: Dr. Juan Moisés de la Serna; Dr. Ángel Moreno Toledo e Dr. Fabián Cremaschi

Traduttore Samuele D`Anella

1ª edizione: gennaio 2021

© Juan Moisés de la Serna, 2021

© Edizioni Tektime, 2021

Tutti i diritti riservati

Distribuito da Tektime

https://www.traduzionelibri.it

Riferimenti:

De la Serna, J.M: Moreno Toledo. A. e Cremaschi, F. (2021). “Il Morbo di Parkinson: Le Fasi Finali. Montefranco, Italia. Tektime Editore.

Avviso Legale

Non è consentita la riproduzione totale o parziale di questo libro, il suo inserimento in qualsiasi piattaforma digitale, né la sua trasmissione in forma elettronica, meccanica, tramite fotocopia, registrazione o altri metodi, senza previa autorizzazione scritta dell’autore.

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Prologo

Il morbo di Parkinson è una malattia neurodegenerativa che implica la perdita progressiva del controllo sui movimenti e intacca direttamente l’indipendenza e la qualità di vita del paziente, dei suoi familiari e di chi se ne prende cura. Quest’opera è il complemento del libro “Il Morbo Di Parkinson In Tempi Di Pandemia” pubblicato nel luglio 2020 e redatto in collaborazione con la dottoressa Mª Esther Gómez Rubio, il dottor Marcos Altable Pérez e il dottor Juan Moisés de la Serna.

Questo volume, a cura del Prof. Dr. Fabián Cremaschi, il dottor Ángel Moreno Toledo e il dottor Juan Moisés de la Serna, si focalizza sulle ultime fasi del morbo di Parkinson, analizzandone gli effetti e i trattamenti disponibili.

Gli Autori:

Prof. Dr. Fabián Cremaschi.

Neurochirurgo con Master in Neuroscienze. Specializzato in Istruzione Universitaria. Diplomato in Didattica della Cultura Digitale. Primario di Neurologia Clinica e Chirurgica del Dipartimento di Neuroscienze presso la facoltà di Scienze Mediche dell’Università Nazionale di Cuyo (Argentina). Coordinatore dell’Unità di Neuromodulazione, NeuroFUESMEN, Mendoza, Argentina.

Reparto di neurochirurgia, Ospedale Santa Isabel de Hungría (Argentina). Presidente della Società Argentina di Neuromodulazione (SANe).

Contatto: fabiancremaschi@gmail.com

Dr. Ángel Moreno Toledo

Psicogerontologo, formatore sociosanitario (corsi, giornate) e scrittore (autore di libri specializzati e di svariati articoli scientifici su riviste indicizzate). Sviluppa la sua carriera professionale così come le tecniche d’insegnamento sia in residenze per anziani che in corsi di formazione di assistenza specializzata ai malati di Alzheimer. Esperto in gestione e coordinamento di centri geriatrici. Dal 2014 è direttore ed editore di Neurama, una Rivista digitale di Psicogerontologia da lui creata (www.neurama.es) che si concentra sulla divulgazione professionale di contenuti specifici riguardanti il comportamento e l’approccio alle malattie neurodegenerative (Alzheimer e altre forme di demenza). Autore di manuali quali: “El cuidado del enfermo de Alzheimer: formación y consejos al cuidador” (2014); “Manejo de comportamientos difíciles en la enfermedad de Alzheimer” (2018) e del nuovo “Intervención y gestión de situaciones críticas en centros gerontológicos” (2020)1

Dal 2013 forma parte del comitato internazionale per la revisione della rivista scientifica “Psicopedia Hoy” (ISSN 2322-8652) ed è stato membro Stakeholder del progetto SIforAGE finanziato dall’Unione Europea, che ha promosso innovazione sociale, abitudini di vita sana e un invecchiamento attivo. (Gruppo di intervento WP6) (2012-2016).

Dr. Juan Moisés de la Serna

Psicologo, con Master in Neuroscienze e Biologia Comportamentale, specialista in Ipnosi Clinica. Direttore dei corsi post-laurea presso l’Università Tecnologica TECH e presso l’Università Europea Miguel de Cervantes; docente post-laurea e direttore del T.F.M. presso l’Università Internazionale di La Rioja e l’Università Internazionale di Valencia.

Ringraziamenti:

Ringrazio tutte le persone che hanno condiviso le loro conoscenze specialistiche sul morbo di Parkinson, in particolare il Dr. Alejandro Vázquez, Medico Neurochirurgo. Ringrazio inoltre il Reparto di Neurochirurgia dell’Ospedale Santa Isabel de Hungría, Mendoza, Argentina; ed anche il Dr. Renzo Fausti; Dr. Enzo Duca; Dr. Martín Glantz e il Dr. Víctor Núñez. Per finire ringrazio gli Studenti di Medicina del Dipartimento di Neurologia Clinica e Chirurgica della facoltà di Scienze Mediche dell’Università Nazionale di Cuyo (Argentina).

Sommario

Prologo

Definizione di Parkinson avanzato

L’assistenza al paziente affetto da Parkinson avanzato: il ruolo del caregiver

Bibliografia

Parkinson avanzato: le conseguenze dei sintomi non motori a livello psicologico ed emotivo

Mancanze mnemoniche e peggioramento della memoria: il deterioramento cognitivo

I caregivers e la gestione della malattia

Come affrontare la fase acuta

Lutto anticipatorio: caratteristiche e gestione

Bibliografia

Trattamento del Parkinson Avanzato

Trattamento Farmacologico

Trattamento psicoterapeutico

Riabilitazione motoria

Riabilitazione cognitiva

Gli effetti del COVID-19 sul Parkinson Avanzato

Bibliografia

Trattamento Chirurgico del Morbo di Parkinson: Passato, Presente e Futuro

Introduzione al trattamento chirurgico

È adatto a tutti i pazienti? Per chi è indicato?

- Chi deve coordinarlo?

- Quanto è risolutivo? È rischioso?

- Rapporto tra costi ed efficacia

- È nuovo? È sperimentale?

- Neurochirurgia funzionale e Neuromodulazione: origini e sviluppo

Quanti tipi di intervento esistono?

Come avviene l’operazione?

La fase post-operatoria

Qual è il futuro della Neuromodulazione?

Conclusione

Bibliografia

Definizione di Parkinson avanzato

Dr. Juan Moses de la Serna

Quando si parla di morbo di Parkinson, lo si fa basandosi sulla Classificazione Internazionale delle Malattie versione ICD-11 elaborata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS-WHO) o sul Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali elaborato dall’Associazione Psichiatrica Americana versione DSM-5. Entrambi sono manuali diagnostici, all’interno dei quali è specificato quali sono i sintomi legati ad ogni disturbo o malattia per facilitarne, appunto, la diagnosi.

 

Le informazioni specifiche sul morbo di Parkinson, si trovano nell’ ICD-11, sezione Parkinsonismo, che appartiene alla sottocategoria Disordini del Movimento, che a sua volta risponde alla categoria Patologie del Sistema Nervoso.

Nello stesso ICD-11 si stabilisce una distinzione tra i vari casi di Parkinson: quelli trasmessi per via genetica e non, e in base ai sintomi della malattia stabilisce tre livelli della stessa: lieve, moderata o grave.

Per quanto riguarda il DSM-V, la malattia si trova nella categoria dei disturbi neurocognitivi.

Nonostante - una volta confermata la diagnosi - la preoccupazione principale del paziente riguardi la progressione graduale dei sintomi legati ai movimenti muscolari quali tremolio e irrigidimento, è presente un altro genere di sintomo poco conosciuto e tuttavia inabilitante nelle fasi avanzate della malattia: la bradicinesia, che induce il rallentamento dei movimenti motori. Diventa particolarmente evidente quando si cammina ma nelle fasi avanzate della malattia include altresì instabilità, problemi di deglutizione e stitichezza. Quali sono i fattori che influiscono negativamente sul paziente affetto da Parkinson?

L’Università di Cambridge, in collaborazione con l’Università di Newcastle e l’Università di Griffith, ha cercato di rispondere a questa domanda effettuando un’investigazione su 226 pazienti ai quali era stato recentemente diagnosticato il morbo di Parkinson. Altri 99 soggetti non affetti dalla malattia hanno partecipato in qualità di gruppo di controllo.

Tramite alcune scale di valutazione standardizzate sono stati valutati diversi fattori. Per le capacità cognitive ci si è basati sul Mini-Mental State Examination e il Montreal Cognitive Assessment; per misurare la qualità della vita dei partecipanti, il Parkinsons Disease Questionnaire-39; per individuare eventuali sintomi riconducibili alla depressione, il Geriatric Depression Score-15; infine il Cognitive Drug Research e il Cambridge Neuropsychological Test Automated Battery per analizzare sintomi clinici e neuropsichiatrici.

Comparando i risultati tra i soggetti del gruppo di controllo e i pazienti alle prese con le fasi iniziali del Parkinson, si è visto come questi ultimi, oltre ad affrontare le difficoltà tipiche della malattia, debbano convivere con una serie di ulteriori disturbi.

Inoltre, i dati inerenti alla qualità della vita dei pazienti affetti da Parkinson risultano essere sotto la media, mentre si può osservare una maggiore predisposizione a disturbi legati alla depressione.

Sebbene fino ad ora si siano discussi gli effetti della malattia di Parkinson concentrando l’attenzione sui tipici tremori e difficoltà nel camminare o nel parlare, va notato che questi sintomi si manifestano solitamente nelle prime fasi della malattia; tuttavia, con la graduale progressione di quest’ultima, il paziente ha bisogno di cure sempre più mirate e specialistiche fino al punto di dipendere completamente da esse.

Quando il morbo di Parkinson entra in uno stadio avanzato, è rapidamente riconoscibile dai caratteristici tremori, anche se bisogna puntualizzare che non sempre i tremori che una persona può sperimentare sono riconducibili al morbo di Parkinson.

Quello dei tremori, non è l’unico sintomo che si avverte durante la malattia. Altri sintomi tangibili sono insonnia, perdita dell’olfatto, difficoltà nei movimenti più quotidiani, come camminare, cambiamenti comportamentali nel parlare o scrivere, irrigidimento delle espressioni facciali.

Con il progredire della malattia, questi sintomi saranno sempre più facilmente rilevabili e il loro peggioramento influirà direttamente sulla qualità della vita del paziente, giacché diventerà sempre più dipendente dagli altri e richiederà cure quasi costanti.

Molti cambiamenti saranno visibili; altri, di natura psicologica, come sbalzi d’umore tendenti alla depressione, non saranno così evidenti. Inoltre, nelle fasi finali della malattia, potrebbe verificarsi quella che è definita “Demenza del morbo di Parkinson”, uno stato in cui peggiora l’affidabilità della memoria, del ragionamento, del linguaggio e dell’approccio sociale in generale. Va de se che tutto ciò non fa che peggiorare la qualità della vita del paziente; in ogni caso, prima di diagnosticare la demenza di Parkinson, devono essere escluse le alterazioni cognitive causate da un eventuale trattamento farmacologico anti-Parkinson in corso.

Una delle maggiori preoccupazioni degli esperti è quella di sapere come avverrà la progressione della malattia di Parkinson, che, trattandosi di una malattia neurodegenerativa, sarà aggravata dal semplice passare del tempo. A questo proposito, sono state sviluppate diverse scale di classificazione per sapere in quale fase si trova il paziente.

Sebbene il Parkinson presenti sintomi evidenti, come i tremori, se si volesse stabilire in che fase della malattia si trovino i pazienti, occorrerebbe fare un’attenta valutazione.

Alcuni professionisti a volte mettono in dubbio la necessità di valutare gli aspetti emotivi o il livello di autonomia del paziente, considerandoli solamente una conseguenza in più della malattia. Perciò la domanda nasce spontanea: quanto sono affidabili le valutazioni sul morbo di Parkinson?

Uno studio condotto congiuntamente da vari centri di ricerca in Argentina, Colombia, Cile, Cuba, Ecuador, Spagna, Inghilterra e Messico ha cercato di dare la risposta.

Lo studio ha incluso 384 adulti di età compresa tra i 22 e 91 anni di cui il 44,5% donne, ai quali era stato diagnosticato il morbo di Parkinson senza ulteriori psicopatologie associate.

Tutti loro sono stati sottoposti a quattro test per determinare il livello di gravità della malattia di Parkinson: l’Hoehn e Yahr Scale; il Clinical Impression of Severity Index for Parkinsons Disease; il Clinical Global Impression-Severity e il Patient Global Impression-Severity; per la valutazione del livello di indipendenza sono stati usati il Schwab and England Scale ed il Barthel Index; per valutare lo stato d’animo dominante nel paziente è stato usato l’Hospital Anxiety and Depression Scale; per la valutazione dei livelli generici di salute clinica ed economica si è ricorso al E.Q-5D.-3L; e per valutare la presenza di sintomi riconducibili al Parkinson è stato usato il Parkinsons Disease Questionnaire-39.

Le analisi dei dati rilasciati dai test, hanno riportato le seguenti relazioni: 0.60 tra i risultati dei test della Hoehn e Yahr Scale e il Patient Global Impression-Severity; 0.91 tra il Clinical Global Impression-Severity, il Patient Global Impression-Severity ed il Clinical Impression of Severity Index for Parkinsons Disease che sono correlati alla presenza di sintomi di depressione e ansietà.

Tutti i test hanno rilasciato dati attendibili, di conseguenza non si può scegliere un unico test su tutti ed escludere gli altri poiché ognuno valuta diversi aspetti dell’evoluzione e della gravità del morbo di Parkinson.

I risultati mostrano chiaramente come le attuali procedure standardizzate siano corrette e la valutazione della gravità dei sintomi deve essere accompagnata anche dalla valutazione delle esperienze emotive e del grado di indipendenza percepito dal paziente.

Tra le varie scale di classificazione e test disponibili precedentemente citati, la più utilizzata è solitamente la Hoehn Stage Scale e la Yahr Scale (scala di Hoehn e Yahr), mediante le quali i pazienti possono essere classificati in cinque fasi in base ai loro sintomi, ognuna più grave dell’ anteriore, in modo tale che nel primo stadio siano mostrati sintomi lievi come tremori alle mani o cambiamenti posturali o dell’andatura; mentre nel quinto ed ultimo stadio il paziente subisce con la massima gravità i sintomi del morbo di Parkinson: totale invalidità, impossibilità di stare in piedi o poter camminare, dipendendo completamente da un’altra persona per ogni cosa.

Pertanto, utilizzando la scala di Hoehn e Yahr, si può classificare la gravità dei sintomi del morbo di Parkinson nelle seguenti fasi o stadi:

- Stadio 0: assenza di sintomi visibili della patologia.

- Stadio 1: lieve tremore monolaterale degli arti superiori.

- Stadio 2: tremore bilaterale che il paziente “compensa” modificando postura e andamento.

- Stadio 3: rallentamento psico-motorio, problemi di deambulazione ed equilibrio.

- Stadio 4: inabilità muscolare, il paziente ha bisogno di aiuto per riuscire a stare in piedi.

Infine, nello Stadio 5, il più grave, l’inabilità del paziente è tale da non essere in grado di stare in piedi.

Bisogna tenere presente che il passaggio da una fase all’altra non è costituito solamente dall’ aggravarsi dei sintomi esistenti, ma anche dalla comparsa di sintomi nuovi che non si erano precedentemente manifestati, i quali condurranno il paziente alla perdita dell’indipendenza e al deterioramento del tenore di vita.

Il morbo di Parkinson è una malattia neurodegenerativa. Ciò significa che i suoi effetti sul paziente peggioreranno progressivamente con il passare del tempo, progredendo dai primi sintomi della fase I, mostrando lievi tremori in una sola parte del corpo, trascinando un po’ i piedi, cominciando a mostrare i primi sintomi di rigidità.

Nella fase II la persona inizia a piegarsi in avanti, con disturbi dell’equilibrio e difficoltà nei movimenti (bradicinesia).

Nelle fasi III e IV i sintomi peggiorano e il paziente ha gravi difficoltà di equilibrio e deambulazione.

Fino ad arrivare alla fase V, quando il paziente dipende in tutto e per tutto da un’altra persona e costretto a passare la maggior parte del tempo seduto o a letto a causa del tremore costante.

L’assistenza al paziente affetto da Parkinson avanzato: il ruolo del caregiver

Quando si parla di assistenza al paziente ci si riferisce all’azione che svolge quella persona (in genere un familiare di riferimento) che si fa carico di ogni vicissitudine del paziente. Quando l’assistenza è svolta in chiave professionale, si parla di assistente familiare o badante; quando avviene a titolo non professionale o gratuito si parla di caregiver o caregiver familiare2.

Sebbene ogni caregiver abbia le sue ragioni che lo spingono a dedicarsi all’assistenza, queste ragioni sono oggetto di analisi da parte dei ricercatori, i quali cercano di spiegare i motivi per cui una persona dovrebbe decidere di occuparsi dell’assistenza informale di un parente, specie nei casi più gravi come quelli dei pazienti affetti da demenza.

Si deve considerare il fatto che le malattie neurodegenerative sono generalmente irreversibili; le funzioni cognitive, muscolari e scheletriche andranno progressivamente perse, e tanto pazienti giovani quanto anziani sono esposti a questa possibilità.

A volte gli altri membri della famiglia potrebbero confondere i sintomi della malattia con un processo di invecchiamento “naturale” e quindi associare la perdita delle funzioni corporali e delle capacità mentali con l’inevitabile processo di degenerazione che ha inizio una volta superata l’età adulta.

Ci sono vari fattori che possono portare alla demenza, ad esempio la presenza di una patologia preesistente come la malattia di Huntington, la sclerosi multipla, il Parkinson, lesioni alla testa, tumori cerebrali o il consumo eccessivo di bevande alcoliche.

A prescindere dalle cause, trattandosi di un processo degenerativo e irreversibile, è naturale che i membri della famiglia comincino a ragionare su come prendersi cura del paziente, che sia con l’aiuto di un badante professionista o mediante l’assistenza a gestione familiare, cioè di una o più persone che a turno si prendono cura del paziente, essendo disposti a sacrificare il “proprio io”, rinunciando a gran parte delle loro attività sociali e, naturalmente, al lavoro a tempo pieno, per dedicarsi ad un’assistenza “intensiva” del paziente affetto da demenza.

Fin qui, sembra di capire che la scelta tra un’assistenza professionale o familiare sia più che altro una questione economica, in cui la famiglia dopo aver “fatto bene i conti” decide se può permettersi di sostenere le spese che richiede l’assistenza professionale, sia essa svolta in un centro specializzato, o da personale esterno qualificato che si prenda cura del paziente.

Tuttavia, uno studio condotto congiuntamente dal Texas A&M Health Science Center e dalla Washington State University (USA), al quale hanno preso parte 270 parenti di un database di 1.770 pazienti di età pari o superiore a 70 anni affetti da demenza, ha dimostrato che le persone sposate tendono a prendersi cura dei propri partner indipendentemente dalla mera questione economica.

 

Per quanto riguarda le statistiche demografiche, coloro i quali si avvalgono maggiormente di un caregiver professionale risultano essere gli ispanici e i “bianchi”.

Un risultato sorprendente è che le questioni economiche hanno meno peso del previsto; non influiscono infatti in modo risolutivo sulla decisione finale tra cura professionale o familiare, giacché entrano in gioco altri fattori come l’altruismo del familiare che si occuperà dell’assistenza al paziente affetto da demenza.

Tutto quanto sopra non fa che confermare l’aumento dell’assistenza informale da parte dei membri della famiglia, specialmente quando esiste un legame affettivo tra paziente e caregiver, così come quando il caregiver dimostra una spiccata predisposizione all’ altruismo.

Ciò nonostante, ci si chiede se questa tendenza all’assistenza “fai da te” dei familiari affetti da demenza, così tipica della nostra cultura, sia adeguata e soprattutto efficace rispetto all’assistenza professionale.

Ora, indipendentemente dai motivi che spingono una persona a prendersi cura di un familiare, è necessario che questa riceva una formazione di base affinché possa prendersi cura del proprio familiare in modo efficace, senza nulla da invidiare alle prestazioni garantite da un caregiver professionista.

Oltre a questi corsi di addestramento per caregivers familiari, si consiglia di far svolgere una formazione specifica anche ai familiari del caregiver su come prepararsi a sostenere proprio quest’ultimo. È stato infatti osservato come l’assistenza prolungata comporti una diminuzione della salute mentale ed emotiva del caregiver stesso, nonché un certo grado di isolamento sociale; tutto ciò finirà col compromettere la qualità delle cure fornite al paziente.

Come è stato commentato più volte, ad occuparsi dell’assistenza ai pazienti affetti da Parkinson avanzato ci sono caregivers familiari, ai quali non manca certo la buona volontà, bensì la preparazione tecnica su come curare il paziente, il che può generare in loro un elevato livello di ansia.

Allo stesso modo, doversi prendere cura di un paziente affetto da una malattia neurodegenerativa, come il Parkinson, e vedere il peggioramento graduale dei sintomi, non farà che peggiorare questo stato di ansia; senza considerare il fatto che spesso il paziente è un familiare con il quale esiste un legame affettivo e che dispiace vedere il quelle condizioni. Che impatto ha dunque il Parkinson sul caregiver familiare?

A questa domanda ha cercato di rispondere una ricerca condotta dall’Institute of Neuroscience dell’Università di Newcastle insieme al Centre for Clinical Brain Sciences dell’Università di Edimburgo (Inghilterra) e alla Menzies School of Medicine and Institute of Health Queensland della Griffth University (Australia).

Hanno partecipato allo studio sessantasei caregivers familiari, di cui l‘81% donne, di età superiore ai 32 anni, che si occupavano di pazienti affetti da Parkinson.

Dopo la diagnosi di Parkinson sono state effettuate tre misurazioni (ai 18 e 36 mesi), seguendo i criteri della Queens Square Brain Bank.

I caregivers sono stati valutati in base all’Hospital Anxiety and Depression Scale per individuare eventuali sintomi depressivi; per valutare altre sintomatologie neuropsichiatriche è stato usato il Neuropsychiatric Inventory e l’NPI Carer Distress; infine, si è valutato il livello di qualità dei caregiver attraverso la Scale of Quality of Life of Care-Givers.

Per quanto riguarda i pazienti, sono state effettuati test specifici mediante le seguenti scale di valutazione: la Movement Disorder Society e la United Parkinsons Disease Rating Scale per determinare la gravità dei sintomi del morbo di Parkinson; la Geriatric Depression Scale per la presenza di sintomi depressivi; il Parkinsons Disease Questionnaire per la qualità della vita; il Mini-Mental State Examination e il Montreal Cognitive Assessment per le abilità cognitive e visuo-spaziali; la Cognitive Drug Research Battery per i livelli di attenzione e il Cambridge Neuropsychological Test Automated Battery per valutare memoria ed esecutivo centrale.

Si è inoltre effettuato il profilo socio-demografico dei partecipanti: età, sesso, livello di istruzione e sia dei, le ore settimanali dedicate alla cura del paziente nel caso dei caregivers.

I risultati basati sul Cognitive Drug Research Battery rivelano che la qualità della vita dei caregivers che assistono malati di Parkinson è significativamente più bassa rispetto a quella dei caregivers che assistono pazienti della stessa età affetti da un lieve deterioramento cognitivo o senza nessun problema neurologico in particolare. Il deficit di attenzione è un fattore particolarmente indicativo del peggioramento della qualità della vita dei caregivers, rispetto ad altre variabili valutate.

Tra le limitazioni presentate dallo studio effettuato vi sono il basso numero di partecipanti e la mancata esecuzione di un’analisi per determinare eventuali alterazioni in base al genere e alle variabili valutate.

In ogni caso, come affermato dagli autori dello studio, e sulla stessa linea di quanto sottolineato finora, i caregivers dei malati di Parkinson dovrebbero essere tutelati sia mediante corsi di formazione che con terapie specifiche così da aiutarli ad affrontare un incarico non certo facile.

In questo modo, l’assistenza sarà di beneficio per il paziente e non intaccherà la qualità della vita del caregiver.

Le associazioni di sostegno ai caregivers, inoltre, lavorano anche sull’atteggiamento del resto dei familiari del caregiver affinché quest’ultimo non si senta pervaso dal senso di colpa, cosa che andrebbe a generare ulteriori tensioni in famiglia.

Il senso di colpa “autoimposto”, costantemente alimentato dai parenti, può spingere il caregiver a rinunciare al suo tempo libero, e se ad un certo punto ne disporrà, si sentirà male per questo. Per questa ragione, gli studi più recenti stanno dando grande importanza alla qualità piuttosto che alla quantità delle cure date ad un paziente con una malattia neurodegenerativa, il quale subirà il graduale deterioramento delle proprie capacità cognitive e fisiche.

Si consiglia dunque ai caregivers di mantenere un regolare programma di attività fisica che includa camminata ed esercizi all’aperto; in altre parole, non bisogna perdere di vista la salute dei caregivers, bensì permettere loro di avere i propri momenti di relax, di praticare un hobby o di uscire con i loro amici. Tutto ciò non produrrà alcun effetto negativo sul paziente, al contrario, avrà un effetto rigenerante sul caregiver che tornerà al lavoro con maggiore forza d’animo.