Il Morbo Di Parkinson: Le Fasi Finali

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Parkinson avanzato: le conseguenze dei sintomi non motori a livello psicologico ed emotivo

Dr. Angel Moreno Toledo

La progressione della malattia di Parkinson, associata alla gravità dei suoi sintomi motori e non motori, promuove livelli significativi di dipendenza insieme al peggioramento della qualità della vita. Gli effetti della disabilità colpiscono sia la persona affetta da Parkinson avanzato che il suo ambiente circostante, includendo la figura del caregiver familiare principale.

Lo stadio avanzato del Parkinson, classificato come stadio 4-5 della scala Hoehn e Yahr, costituisce un periodo caratterizzato da diversi problemi di salute, una mobilità molto limitata che richiede assistenza per qualsiasi spostamento e marcate problematiche a livello motorio e cognitivo. La tolleranza alla Levodopa (L-Dopa) sviluppata dall’organismo nel corso del tempo, ne diminuisce l’efficacia. I sintomi motori e non motori sono particolarmente evidenti nei soggetti colpiti.

L’incidenza (progressiva) dei disturbi della memoria - deterioramento cognitivo e handicap mentali - insieme ai comuni disturbi neuropsichiatrici - psicosi, depressione, demenza, insonnia - oltre ad altre condizioni mediche, segna in modo significativo lo stadio finale della malattia.

Tra le complicazioni più angoscianti del Parkinson avanzato vi sono i disturbi cognitivi e psichiatrici.

Nel valutare l’origine dei sintomi avversi è fondamentale capire se sono dovuti agli effetti collaterali del trattamento farmacologico o alla logica conseguenza della progressione della malattia.

Le complicazioni non motorie provocano un sovraccarico lavorativo ed emotivo sul caregiver e la diminuzione della qualità della vita del paziente stesso. Ecco perché, dal punto di vista terapeutico, dovrebbe essere data maggiore importanza alle complicazioni non motorie. La loro incidenza è piuttosto elevata (almeno il 50% dei pazienti li manifesta), così come il significativo deterioramento al quale sono esposti e una crescente diminuzione degli effetti farmacologici.

Compaiono episodi notevoli di psicosi e rischio di cadute. Tendono ad apparire in ritardo nelle persone colpite, spesso a causa di un processo di demenza sottostante o a causa del consumo di farmaci prescritti per il Parkinson. L’incidenza di psicosi e demenza accresce notevolmente la necessità di un ricovero in istituto così come il rischio di mortalità.

Il peggioramento globale causato dall’avanzamento dei principali sintomi motori e dalla presenza di depressione endogena (quella causata da un’alterazione o da un cambiamento strutturale delle aree cerebrali responsabili del controllo dell’umore e dei movimenti), aggrava la malattia nelle sue ultime fasi di coinvolgimento.

I sintomi depressivi riferiti dai pazienti durante tutto il processo cronico della malattia, ai quali solitamente viene attribuita minore rilevanza rispetto all’intera sintomatologia motoria paradigmatica, provocano anche invalidità, perdita degli abituali meccanismi di gestione delle attività quotidiane e sfociano nell’inevitabile peggioramento della qualità della vita.

La perdita di abilità, gli eventi stressanti della vita, la particolare situazione familiare, le comorbidità psichiatriche, l’avvento dello stadio avanzato della malattia, nonché la gravità sintomatica, sono alla base di un meccanismo complesso che genera disturbi dell’umore comuni nel morbo di Parkinson, documentati e segnalati nella stragrande maggioranza dei casi (35-90%). Per questo motivo l’ansia e la depressione vengono spesso trattate mediante prescrizione di antidepressivi. C’è ancora molta strada da fare a livello terapeutico per trovare un maggior numero di trattamenti qualitativamente validi per trattare i disturbi emotivi.

Questa depressione di origine chimica è più resistente e accompagna il paziente durante l’intero percorso della malattia. I disturbi dell’umore influiscono in modo eterogeneo su ciascun individuo e hanno un impatto non indifferente sulla vita quotidiana, tant’è che ormai si considerano una condizione tipica del Parkinson. Si tratta di una depressione di lunga durata che causa un marcato pessimismo verso il futuro, apatia, poca motivazione e perdita della gioia. Questa condizione può provocare inoltre alterazioni dell’appetito, perdita o aumento di peso e sentimenti di inutilità, disperazione e solitudine.

Insieme alla depressione si presenta l’apatia che essendo anch’essa un meccanismo chimico legato alla diminuzione dei livelli di dopamina nel cervello, provoca nel paziente affaticamento e disinteresse o indifferenza verso qualsiasi attività.

Questo deficit di dopamina presente in entrambi i fenomeni mentali, si unisce progressivamente all’impatto causato dalle conseguenze fisiche della malattia.

Oltre alla sfera emotiva, ci sono altri sintomi non motori, ma altrettanto preoccupanti, che continuano a degenerare durante le fasi avanzate della malattia. Disturbi del sonno, disfunzioni autonomiche e il dolore causato dalle disfunzioni cognitive conferiscono un progressivo deterioramento che intacca la qualità della vita e aumenta notevolmente il livello di dipendenza e disabilità.

 

Questi sintomi sono fondamentali per determinare la gravità della situazione. Allo stesso modo, a livello psicologico ed emotivo, appaiono come i fattori responsabili di sensi di colpa e conseguenti pensieri suicidi. È fondamentale curare i sintomi depressivi sin dagli esordi della malattia avvalendosi di psicoterapia e trattamenti farmacologici, in modo che il paziente possa ottenere un miglioramento della qualità della vita ed una migliore assistenza durante il decorso della malattia.

Un altro sintomo non motorio incidente nelle fasi più severe della malattia è il dolore cronico. Tuttavia, è un sintomo alquanto difficile da chiarire, individuare ed affrontare. È disabilitante e interferisce in modo significativo con la gestione delle emozioni oltre ad influire in modo decisivo sul benessere psicologico. Tende a svilupparsi e peggiorare nel tempo, esasperato da complicazioni motorie, sintomi di disturbi emotivi ed altre patologie concomitanti.

I disturbi muscoloscheletrici sono generalmente frequenti tra le patologie manifestate dai malati di Parkinson. Purtroppo è un problema molto comune (40-75% dei casi) ed è, nella maggior parte dei casi, consequenziale alla malattia.

Le ripercussioni causate da questo tipo di problemi fisici sono sempre più determinanti quanto più avanza la malattia (provocando disfunzioni e disturbi muscolari vari). Nelle fasi finali del Parkinson, il dolore (di diverso tipo e natura) si presenta come un sintomo comune ed eterogeneo, che oltre ad essere grave è anche resistente al trattamento. Stando così le cose, costituisce un fattore che facilita lo sviluppo di patologie quali depressione e ansia, provocate dal disagio e dai disturbi impliciti del dolore cronico. È logico concludere che la gravità dei sintomi avrà ripercussioni su altri sintomi motori osservati, tra i quali insonnia, affaticamento, depressione e sonnolenza diurna.

La presenza di dolore può costituire la causa principale o secondaria dello sviluppo di ansia e sintomi depressivi nel paziente che ne soffre.

I disturbi del sonno sono patologie generalizzate che colpiscono tutti i pazienti che si trovano negli stadi avanzati della malattia. I più comuni sono: sonnambulismo, incubi accompagnati da colpi e grida, sonno frammentato, disturbo comportamentale in sonno REM, disturbi del ritmo sonno-veglia e sonnolenza diurna costante.

Mancanze mnemoniche e peggioramento della memoria: il deterioramento cognitivo

La demenza si manifesta sotto forma di perdita graduale delle funzioni mentali insieme a problemi di memoria, concentrazione, pensiero ed elaborazione. Ne è stata riscontrata la presenza anche in altre condizioni patologiche come l’Alzheimer, i corpi di Lewy e la demenza frontotemporale e vascolare, oltre che nel morbo di Parkinson.

Il deterioramento cognitivo inizia in modo graduale, progressivo, insidioso - si instaura gradualmente e mina lo svolgimento delle attività quotidiane nelle persone colpite – e molto spesso ne notano i sintomi sia le persone più vicine al paziente che il paziente stesso. Con la progressione graduale del Parkinson, il paziente può incontrare serie difficoltà di concentrazione, scorrevolezza e memoria. È piuttosto comune che la demenza si manifesti agli inizi della malattia; in questi casi potrebbe trattarsi di una condizione di demenza intermedia, comunemente chiamata deterioramento cognitivo lieve (MCI).

Le conseguenze del deterioramento cognitivo iniziano molto presto ad intaccare la vita del paziente, attaccando distinte aree del cervello riguardanti l’elaborazione e la memoria. In particolare, è stato osservato un declino eterogeneo che implica il deterioramento della memoria di lavoro, memoria implicita e procedurale, significative limitazioni nel riconoscimento degli oggetti e deficit di concentrazione.

La valutazione neuropsicologica ha una carenza di criteri diagnostici uniformi per quanto riguarda il Parkinson, quindi i test diagnostici devono mettere in conto la valutazione multidominio. In questo modo, la performance del paziente viene registrata in termini di linguaggio, memoria verbale (nel ricordo libero o free recall), livello di attenzione, riconoscimento facciale, ragionamento astratto e abilità visuo-spaziali. Pertanto, per determinare in modo affidabile una diagnosi, è altresì consigliabile organizzare un esame dei biomarcatori (marcatore genetico, Neuroimaging e b. del CSF) che vadano a complementare i risultati dei test neuropsicologici.

I pazienti affetti da morbo di Parkinson hanno riportato una peculiarità del deterioramento cognitivo associata ad un tipo di demenza che provoca un declino più veloce delle funzioni motorie, oltre ad un aumento di mortalità. Un’altra caratteristica interessante è che la demenza si sviluppa circa dieci anni dopo la diagnosi della malattia. Circa il dei malati sviluppa qualche tipo di deterioramento cognitivo sotto forma di difficoltà del ragionamento, del linguaggio, della memoria e della percezione. Questi effetti possono essere più incisivi e fluttuanti in quei pazienti già affetti da bradicinesia e paralisi gravi.

Un’altra conseguenza causata dal deterioramento cognitivo è il deficit di reiterazione elaborativa. Si è infatti notato che, rispetto ai soggetti dei gruppi di controllo, le persone affette da Parkinson sono generalmente più lente ad elaborare certi esercizi standardizzati. La spiegazione a questa limitazione può risiedere nella riduzione della capacità di immagazzinamento e nell’incapacità di ignorare le più piccole distrazioni. Allo stesso modo, il deterioramento della memoria e dei ricordi ha una stretta relazione con le funzioni di riconoscimento e la velocità di elaborazione delle informazioni. Questo invecchiamento cognitivo è anche dovuto alla perdita dei neuroni dopaminergici e al deterioramento generale della sostanza bianca. In ogni caso, tra i trattamenti riservati alla cura del deterioramento cognitivo, assumono particolare rilevanza sia i benefici ottenuti da un trattamento non farmacologico, come la stimolazione cognitiva, che quelli di un trattamento a base di farmaci come la terapia sostitutiva della dopamina.

La natura del deterioramento cognitivo caratteristico del Parkinson può portare a instabilità, riduzione della concentrazione, allucinazioni e deliri, rallentamento cognitivo, difficoltà nei CSF e disturbi del sonno. È importante notare che la demenza osservata nel Parkinson differisce in modo significativo dal deterioramento provocato dalla demenza di Alzheimer. Nel Parkinson il deterioramento delle funzioni della memoria è meno grave di quello dell’Alzheimer, di fatto, non impedisce il corretto svolgimento delle attività della vita quotidiana.

Si è riscontrato che il deterioramento cognitivo e la demenza possono avere conseguenze negative sulla qualità della vita dei caregivers e dei pazienti.

Per le persone che soffrono di Parkinson da decenni e quindi si trovano nelle fasi avanzate della malattia, è quasi inevitabile soffrire di demenza; le indagini dimostrano che circa l’80% dei malati ne soffre.

È una situazione di deterioramento inevitabile e graduale che compromette la capacità dell’individuo di vivere in modo indipendente. La natura insidiosa della demenza colpisce il paziente in ambito comportamentale e funzionale, costituendo una seria sfida sia per sée stesso che per la famiglia.

Per analizzare i fattori che possono determinarne l’incidenza, è necessario evidenziare che la probabilità di contrarla aumenta in funzione dell’età (dai cinquant’anni di età); allo stesso modo può essere causata dall’accumulo di depositi anomali a livello cerebrale (Lewy o placche), cambiamenti nella chimica e nella struttura del cervello, eventi avversi (cadute, scarsa risposta al trattamento, diagnosi tardiva) o dall’effetto negativo di allucinazioni, deliri e altri sintomi non motori.

La reazione del caregiver di fronte al deterioramento cognitivo del familiare malato è caratterizzata da stress, ansia, depressione e spesso trasandatezza.

Il deterioramento cognitivo rappresenta una seria minaccia per il benessere generale, così come aumenta lo stress percepito e l’insoddisfazione a causa dell’aumento delle attività da realizzare. I caregivers affermano che assistere un paziente affetto da perdita cognitiva è più difficile che assisterne uno con sole limitazioni fisiche. Ed è così che si parla di lutto anticipatorio, un fenomeno che si manifesta quando si comincia a guardare la persona cara con occhi diversi; il ricordo precedente alla malattia svanisce per lasciare il posto alla visione di una persona compromessa e limitata la cui personalità è sbiadita ed è stata sostituita da disabilità e fragilità. In poche parole, l’immagine attuale della persona cara è diversa da quella precedente. Il deterioramento cognitivo ha eclissato quelle che erano la sua identità sociale e la sua personalità di un tempo.

I caregivers e la gestione della malattia

Con il progredire della malattia, le caratteristiche dell’assistenza e dei bisogni del paziente diventano sempre più complesse. La presenza costante del caregiver diventa necessaria, praticamente d’obbligo, nelle fasi finali. Ecco perché, è necessario concentrarsi interamente sulla gestione della malattia, con il caregiver che svolge un ruolo di primo piano in questo processo finale.

Le cure palliative sono la migliore opzione per assicurare al paziente un certo benessere. Questo è il motivo per cui diventa necessario modificare i precedenti metodi di assistenza in modo da aumentare le attenzioni e il comfort al paziente. L’assistenza fissa acquisisce maggiore importanza con la progressione del deterioramento; nelle fasi finali della malattia diventa una necessità da garantire h24. Tra i compiti che il caregiver familiare deve svolgere in questa fase, ci sono: somministrazione di farmaci (controllo, dosaggio, verifica delle assunzioni, puntualità, riscontro), assistenza alla mobilità dentro casa, uso di strumenti tecnici e dispositivi di assistenza nei processi di alimentazione, igiene personale e abbigliamento, facilitare il processo comunicativo e decisionale del paziente (ascoltare credenze e preferenze personali, stimolare la conversazione e il linguaggio non verbale), assumere il controllo della gestione finanziaria (movimenti bancari, investimenti, pratiche, fatturato, assicurazione, nonché la gestione dei pagamenti regolari) ed ottenere il consenso medico su trattamenti e questioni istituzionali (specificazione di alcune procedure, decisioni future e dichiarazione previa dei diritti del paziente).

I servizi di riabilitazione, consulenza e sostegno familiare sono intesi come un focus ideale attorno al quale progettare una strategia assistenziale. Per quanto riguarda l’approccio ai molteplici problemi citati, la depressione costituisce uno dei disturbi più importanti a cui porre rimedio nella fase grave. Il caregiver familiare diventa una figura fondamentale, un ponte tra medico e paziente per svelare la natura della depressione. Alla depressione si aggiunge spesso l’ansia (66% dei casi), spesso causante di irritabilità e periodi di improduttività.

Il principale responsabile dell’attenzione al paziente dovrà affrontare numerosi problemi medici durante questa fase avanzata (tra cui malnutrizione, disfagia, discinesia, deliri e allucinazioni, ipotensione ortostatica e rischio di cadute, disturbi urinari e disidratazione).

Nella fase terminale della malattia, ci si dovrebbe concentrare sulle cure palliative, un approccio globale e olistico, che combina l’intervento medico con il sostegno familiare con l’obbiettivo di preservare la dignità, l’emotività e la spiritualità del paziente. Al tempo stesso, aumenta l’efficacia del lavoro svolto dal caregiver e ne alleggerisce il carico di lavoro. È importante che oltre a garantire una buona qualità della vita, si continui a preservare l’autonomia e il potere decisionale del paziente.

Quando le condizioni del paziente e dei sintomi (motori e non motori) si aggravano e l’assistenza fai da te non è più in grado di gestire la gravità della situazione, potrebbe essere arrivato il momento di considerare assistenza istituzionalizzata.

Nel cominciare un percorso di assistenza a un paziente, ci si aspetta un lavoro fatto di cure, relazioni interpersonali, complicazioni, valutazioni, stress fisico, psicologico ed emotivo, il quale avrà un impatto diretto sul caregiver principale. Logicamente, più aumenta la durata dell’assistenza, più aumenta il logoramento da essa provocato. Se a questo si aggiungessero i problemi crescenti del paziente ed uno stato di disabilità sempre più marcato di quest’ultimo, il caregiver potrebbe iniziare a manifestare i sintomi del burnout, i quali influiranno sulla sua salute fisica, i suoi rapporti interpersonali e il suo umore.

 

Nelle dinamiche dell’assistenza, una serie di fattori come il sesso, l’età, il luogo di residenza, la gravità e lo stadio di progressione della malattia, nonché la soddisfazione percepita per il lavoro di caregiver, esercitano una forte influenza. La scarsa auto-sufficienza del paziente e l’aiuto di cui ha bisogno per lo sviluppo delle attività della vita quotidiana (ADL), contribuiscono ad aumentare i livelli di stress e, con esso, valutare in chiave negativa il lavoro svolto.

Considerando l’importanza del ruolo che ricopre, è importante per il caregiver familiare essere aiutato e sostenuto dalle comunità o dai gruppi di sostegno specializzati forniti da determinate associazioni. Si raccomanda dunque ai caregivers, nonché ai familiari coinvolti nell’assistenza, di partecipare a riunioni di gruppo organizzate regolarmente dagli enti di supporto specializzati per il Parkinson. In questi potranno trarre beneficio dalla complicità, l’esperienza, l’energia e gli insegnamenti forniti da professionisti e altri operatori sanitari esperti.

Tra gli argomenti su cui lavorare ci sarebbero l’identificazione e la gestione delle emozioni, l’apprendimento monografico della reazione a determinate situazioni, la gestione e l’accettazione del supporto esterno, raccomandazioni e consigli da applicare in circostanze specifiche, imparare a bilanciare il tempo da dedicare al lavoro e al riposo, stabilire relazioni con altre persone nella stessa situazione e trarre lezioni e suggerimenti preziosi da applicare a questa fase finale della malattia. La gestione del dolore e il sostegno reciproco saranno senza dubbio elementi fondamentali per affrontare il vuoto generato dalla sensazione di perdita.

Altri problemi analoghi che richiedono un’attenzione e un monitoraggio speciali includono: perdita di peso, fluttuazioni motorie, soffocamento, ipotensione, cadute, demenza e allucinazioni, nonché ulcere da pressione.

Durante le ultime fasi, il caregiver ha dunque bisogno di linee guida gestionali. Una volta sollevato dalla tensione psicologica e dal dolore emotivo, il caregiver saprà comunicare meglio sia con il proprio ambiente immediato che nella sfera professionale, oltre a saper coordinare i vari servizi e ricercare supporto quando la situazione lo richiede.

L’esperienza del caregiver è un altro fattore determinante per affrontare la percezione del sovraccarico di lavoro. L’età e la salute emotiva, così come il supporto familiare (informale) e istituzionale (professionale), costituiscono un’altra serie di fattori cruciali nella crescita dell’esperienza assistenziale.

L’ultimo stadio della malattia provoca profonde ripercussioni nel caregiver. La gravità del deterioramento nel paziente e l’assistenza sempre più minuziosa, contribuiscono ad intaccare la sua stabilità mentale. Il caregiver principale non dovrebbe perciò trascurare i propri bisogni o interrompere la propria vita sociale. È fondamentale prestare attenzione alle proprie esigenze fisiche e mentali, così come cercare momenti di riposo e relax, recuperare le energie e staccare momentaneamente la spina dalle ardue responsabilità che l’assistenza comporta.

Queste misure preventive sono fondamentali per evitare il burnout del caregiver. La persona designata per la cura a lungo termine del malato di Parkinson giunge alle tappe finali dopo un lungo percorso durante il quale ha acquisito l’esperienza, la conoscenza e le competenze necessarie per affrontare la fase terminale della malattia nella quale saltano tutti i precedenti schemi assistenziali per lasciare spazio ad un approccio completamente nuovo all’assistenza. In questo caso, l’assistenza diventa personalizzata e flessibile, orientata soprattutto al controllo dei sintomi, alla gestione della malattia e alla concessione dei desideri e delle linee guida fissate in passato con il paziente. Pensare di ricorrere ad un aiuto sia interno che esterno alla famiglia, risulta particolarmente utile adesso come nelle fasi iniziali. È anche importante considerare la partecipazione a Gruppi di Aiuto Mutuo (o self-help) ed a programmi educativi rivolti ai caregivers con l’obiettivo di accrescere le loro capacità e conoscenze su ciascuna delle caratteristiche della malattia e che saranno un punto di riferimento in cui trovare tutte le informazioni necessarie per risolvere eventuali problemi o dubbi.

Un caregiver più informato svolgerà meglio i suoi obblighi, riducendo al minimo il sovraccarico di lavoro e favorendo sia la propria salute che la propria vita sociale. Percepire l’assistenza come un obbligo provoca spesso uno stato di ansia, stress, abbandono, sovraccarico e disinteresse. Anche i disturbi dell’umore e le scarse prestazioni nelle attività della vita quotidiana (ADL) sono conseguenze visibili di questo fattore. Altre componenti quali l’elevata pressione percepita nel corso dell’assistenza, gli anni trascorsi in servizio, il livello di esperienza e il livello educativo del caregiver, possono portare quest’ultimo a condizioni di dipendenza e disabilità elevata (disturbi cognitivi e comportamentali).

Il grado di sfinimento del caregiver può essere classificato tramite la popolare scala Zarit. Questa scala misura la percezione del burnout del caregiver informale nei suoi aspetti multidimensionali: emotivi, sociali, fisici, finanziari ed emotivi. Lo stato della persona colpita è significativo per indagare ancora di più sulla sindrome da burnout. I problemi motori e psicologici, così come i disturbi del sonno e dell’umore, sono fattori importanti per misurare la percezione del sovraccarico di lavoro.

Diventa dunque fondamentale identificare queste fonti di stress per curare la salute mentale del caregiver principale, in modo che questi si senta debitamente assistito durante l’intero processo di assistenza. Questi sono gli aspetti determinano la gravità del burnout nel percorso assistenziale. Spesso, i caregiver che affrontano l’ultima fase dell’assistenza, percepiscono un elevato tasso di pressione accompagnata da vari disturbi somatici ed emotivi, tensione psicologica e mancanza di supporto.

Un ruolo fondamentale è ricoperto dai caregiver supplementari, i quali forniscono una maggiore qualità e sostenibilità del lavoro svolto, oltre a favorire un’atmosfera positiva e la sensazione di maggior supporto nell’assistenza al paziente. La corretta gestione del fattore emotivo rappresenta un passo decisivo nell’affrontare la fase finale dell’assistenza. L’angoscia, la depressione, la disperazione, la paura, l’attitudine negativa e il costante senso di perdita, influiscono in modo decisivo sia sulla qualità dell’assistenza che sulla salute fisica e mentale del caregiver.

La paura e il rifiuto sono emozioni comuni ad ogni essere umano, e che ogni caregiver sperimenta in queste circostanze. Accettare, affrontare e curare adeguatamente queste emozioni aiuterà il caregiver a superare i disturbi dell’umore e a manifestare aspettative ed azioni sane durante questa fase.

Dopo anni di assistenza costante al paziente, il caregiver principale potrebbe sviluppare la convinzione di essere l’unico ad avere potere decisionale su ciò che è giusto o meno per il paziente. Questa convinzione lo porta a sviluppare un eccesso di zelo, a rifiutare sistematicamente ogni proposta di aiuto esterno e, di conseguenza, a soffrire di stress e sovraccarico psicologico ed emotivo.

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