Read the book: «Quattro Destini»

Font:
Michael Powell
Quattro Destini
Una Tragedia Greca in Tempo di Guerra
Tradotto da Alberto Favaro

Questo è un lavoro di fantasia. Sebbene basato su eventi storici reali e comprenda alcuni personaggi reali, ora morti, la maggior parte dei nomi, dei personaggi e degli avvenimenti sono da considerare come prodotti dell'immaginazione dell'autore o sono stati usati in modo fantasioso. Qualsiasi somiglianza tra personaggi di fantasia e persone reali, vive o morte, è da considerarsi puramente accidentale.

Copyright © 2017, 2018 by Michael Powell. Tutti i diritti riservati

Tradotto da Alberto Favaro (fvaalb1@libero.it)

Revision 1c 29/11/2018 (con mappa)

http://www.foursdestiny.uk

Dramatis Personae

Inghilterra e Francia

Ernest Jenkins – Ufficiale marittimo

Margaret Jenkins – Moglie di Ernest

John Smith – Collega di Ernest Jenkins

Godfrey Jenkins – Figlio di Ernest e Margaret

Lizzie Jenkins – Sorella di Godfrey

Chalky White – Amico di scuola di Godfrey

Smythe – Alunno al King’s

Mr Berman – Insegnante al King’s

Mr Bradley – Insegnante al the ‘Shop’

Duncan Charters – Pescatore, proprietario del ‘Dayspring’

Ralph Bagnold – Fondatore dell’LRDG

David Lloyd-Owen – Vicecomandante dell’LRDG

Jamie Stewart – Sergente dell’LRDG

Colonello d’Ornano – Comandante della Francia Libera

Jake Easonsmith – Comandante dell’LRDG

Germania

Kurt Müller – Soldato

Paula Müller – Moglie di Kurt

Herr Finkelmann – Proprietario ebreo del negozio di riparazione di orologi

Hans Langsdorff – Ufficiale marittimo tedesco, amico di Kurt

Rolf Müller – Figlio di Kurt e Paula Müller

Baldur von Schirach – Leader della gioventù hitleriana

Hans Schiller – Pilota di Me109 e amico di Rolf

Gunther – Fuciliere posteriore di Stuka in Spagna

Hans-Ulrich Rudel – Asso nel pilotaggio degli Stuka

Alfred Scharnowski – Fuciliere posteriore di Rudel

Ernst-Siegfried Steen – Comandante della squadriglia di Stuka

Greta – Cameriera a Neubeuren

Schmidt – Ufficiale SS a Neubeuren

Italia

Giuseppe Malpaiso – Ufficiale della marina italiana e ingegnere

Maria Malpaiso – Moglie di Giuseppe e cugina di Kurt

Marco Malpaiso – Figlio di Giuseppe e Maria

Tenente Gramatika – Amico di Giuseppe e governatore di Lero

Capitano Gotthard – Ufficiale tedesco

Ammiraglio Mascherpa – Governatore italiano di Lero

Grecia

Spiros Raftopoulos – Costruttore

Despina Raftopoulos – Moglie di Spiros

Yiannis Raftopoulos – Figlio di Spiros e Despina

Costas – Capitano della ‘Taxiarchis’

Tassos – Membro dell’equipaggio della ‘Taxiarchis’

Capitano Zarokostas – Primo comandante della ‘Olga’

Manolis – Membro dell'equipaggio della 'Olga'

Comandante Blessas – Comandante della ‘Olga’

Prologo

Rolf Müller era a capo della squadriglia di bombardieri Ju88 della base aerea, controllata dai tedeschi, di Megara situata nella terraferma greca vicino alle isole del Dodecaneso. “Un obiettivo diverso oggi, ragazzi,” disse al suo equipaggio. “Abbiamo finito con Coo, ora ci occuperemo di Lero. É solo una piccola isola, ma è piena di armi e dobbiamo sistemarla.”

I bimotori volarono attraverso l'Egeo, passando sopra le zone già sotto al controllo tedesco. Un ulteriore gruppo di isole, disposte da nord a sud, si materializzò nella foschia della linea dell'orizzonte a est, brillando alla luce del sole. Sotto di loro, il mare, gentilmente increspato dai leggeri venti che soffiavano in quel periodo dell'anno, era calmo e tranquillo.

“Eccola!” disse Rolf, indicando un'isola che sembrava come se fosse stata schiacciata tra le dita di un gigante per creare due baie profonde su ogni lato, con delle strette penisole tra di loro. Scendendo a un'altitudine inferiore, condusse l'avvicinamento alla baia posta a sud ovest, sfiorando alte colline accidentate fino a quando, al di sotto, comparve una profonda insenatura. “Siamo fortunati!” gridò quando individuò due navi da guerra all'ancora, “Due obiettivi in vista.”

Portò il suo aereo sopra la baia e lo inclinò per una rapida discesa, puntando a una delle navi. Mentre lo faceva, vide degli sbuffi di fumo provenire dalle armi dell'altra imbarcazione. Il suo obiettivo non stava ancora rispondendo e, avvicinandosi, vide gli uomini che correvano verso le loro postazioni, come formiche in preda al panico. “Troppo tardi, amici miei” pensò amaramente.

I caccia torpedinieri erano la nave greca “Olga”, di supporto alla flotta britannica nel Mediterraneo, e la nave inglese, “Intrepid”. I mitraglieri inglesi erano già alle loro postazioni quando comparvero gli aeroplani tedeschi e si resero conto che erano sotto attacco prima che i Greci avessero avuto neppure il tempo di reagire.

Sulla Olga un ufficiale britannico, Godfrey Jenkins, stava parlando con un marinaio greco, discutendo I piani per trasportare alcuni dei suoi commilitoni, appartenenti al Long Range Desert Group, dalla loro base ad Haifa per rinforzare le difese sull'isola. Il marinaio, Yiannis Raftopoulos, era nato sull'isola e la conosceva bene anche se era stato lontano per alcuni anni.

Yiannis alzò gli occhi allarmato quando risuonò la sirena della nave. “Bombardieri” urlò, “tutti ai posti di combattimento!” Corse verso la sua postazione antiaerea, lasciando Godfrey osservare con orrore il primo aereo che si abbassava verso la nave.

In alto, sulla collina a nord della baia, presso una postazione antiaerea italiana, era seduto un gruppo di soldati disillusi. Il loro mondo era stato rivoltato un paio di settimane prima quando il loro governo aveva firmato un accordo per cambiare parte e allearsi con i loro nemici precedenti contro i nazisti tedeschi.

Uno di loro, Marco Malpaiso, era nato sull'isola. La sera precedente, aveva ritrovato il suo amico d'infanzia, Yiannis, che non vedeva da molti anni. Stava proprio pensando a quell'episodio quando risuonò l'allarme e si rese conto che l'isola era sotto attacco.

Una forte esplosione fu seguita da un'enorme nuvola di fumo nero oleoso che si innalzò sopra la cresta davanti a lui, accompagnata dal rumore degli spari frenetici provenienti dalle navi nella baia. Comparve un grande aereo bimotore, che volava incredibilmente basso poco al di sopra del terreno che si innalzava, con un motore balbettante e del fumo che usciva da un'ala. Marco, unico tra I suoi compagni indolenti, cercò di puntare la sua arma verso l'aereo colpito mentre passava sopra di loro, sparando con la sua mitragliatrice e perdendo quota mentre si dirigeva con difficoltà verso la baia successiva.

Capitolo 1

Lero 1912

Il sole luccicava sul blu del mare Egeo mentre l'incrociatore italiano San Marco navigava lungo la costa orientale dell'isola di Calimno nel Dodecaneso, superando lo stretto passaggio tra di essa e l’isola di Lero, in una luminosa mattina del maggio 1912. Un giovane guardiamarina, Giuseppe Malpaiso, da poco assegnato a quella grande imbarcazione, guardava dal ponte mentre la nave superava due isolette ed entrava nell'ampia baia di Agia Marina. Sulla riva, vide un gruppo di case neoclassiche dall'aspetto ricco, che correvano lungo la costa e riempivano una valle poco profonda che percorreva l'isola. Al di sopra c'era una ripida collina dove una fila di torri rotonde, da ognuna delle quali partiva una serie di vele di tela, stava al di sotto di un maestoso castello veneziano.

“Mio Dio, guardate lì!” disse Giuseppe, “che posto fantastico!”

La nave da guerra entrò nella baia e si diresse verso gli edifici appena al di là dell'ingresso. Il capitano si rivolse a Giuseppe e ai suoi compagni.

“Preparate le scialuppe. Ogni ufficiale sarà accompagnato da un gruppo di marinai. Non appena getteremo l'ancora voglio che le barche partano.”

Uno degli ufficiali chiese, “Ci aspettiamo dei problemi?”

“Sinceramente spero di no. Ci è stato detto che qui c'è solo una piccola unità amministrativa, ma possono esserci dei soldati. Stiamo occupando tutte le Sporadi del Sud e apparentemente non ci sono state grosse difficoltà se non a Rodi. I Turchi hanno abbandonato senza opporre resistenza. A meno che non incontriamo problemi, voglio che li trattiate come ospiti non benvenuti e li incoraggiate ad andarsene!”

L'incrociatore gettò l'ancora nella baia. Giuseppe e i suoi compagni erano pronti e in attesa e quando le scialuppe furono messe in acqua vi salirono velocemente. I marinai afferrarono i remi e remarono rapidamente verso la banchina.

Giuseppe, che non era mai stato in missione in precedenza, sentì stringersi lo stomaco per il nervosismo quando abbandonarono la sicurezza della nave. Anche se teoricamente era al comando del tender, sapeva che i marinai ai remi stavano in realtà prendendo gli ordini dall'esperto nostromo seduto al suo fianco. Quando si avvicinarono alla costa vide un piccolo gruppo di uomini assembrato sul molo. Gli uomini seduti sulla barca presero le armi nel caso di un possibile scontro a fuoco.

“Tranquilli, ragazzi, state calmi. Non voglio nessun errore. Non sparate a meno che non ve lo ordini” Gramatika, il loro comandante, gridò da un'altra barca.

Quando la barca di Giuseppe arrivò sulla banchina, la prima della piccola flotta a raggiungere terra, i marinai misero i remi nella barca e lui saltò giù di lato insieme a un agile marinaio che prese abilmente la cima da ormeggio. I soldati scesero disordinatamente, le armi in pugno quando un piccolo uomo dalla pelle scura, che indossava un vecchio e piuttosto malridotto costume turco uscì da un gruppetto con le braccia alzate. “Non vi creeremo problemi – sappiamo di essere in un numero inferiore” disse in inglese – una lingua che Giuseppe aveva studiato a scuola. “Per cortesia venite con me nella casa dell'Amministratore.”

Le altre barche stavano attraccando e facendo sbarcare le guarnigioni di soldati che si stavano allineando sulla riva. C'erano solo cinque turchi, un gruppo raffazzonato, vestiti con vivaci ma rovinati costumi ottomani. Dietro di loro c'era un gruppo più numeroso di greci che stavano salutando i marinai italiani e stavano sventolando la bandiera nazionale greca. “Sembrano in uno stato pietoso,” disse uno dei soldati italiani. “Dove sono i loro soldati?”

“Non sottovalutate i turchi,” disse il comandante vicino a lui, richiamando l'attenzione dei suoi uomini. “Possono sembrare in rovina ma sanno anche essere dei guerrieri molto fieri come abbiamo scoperto in Africa del Nord. Mostriamo loro come sono dei veri soldati.”

Giuseppe fu orgoglioso dei suoi compatrioti quando si misero in riga con le loro armi moderne e si posero sull'attenti pronti a marciare – o a combattere. Il piccolo gruppo di turchi, però, si fece da parte per farli passare, e seguirono il primo uomo verso il piccolo ufficio sul molo.

“Combattiamo contro di loro dall'anno scorso in Libia,” disse Giuseppe “Mi chiedo come diavolo siano riusciti a bloccarci.”

“Sono stato uno dei primi a sbarcare a Tripoli” disse il soldato. “Non sembravano per nulla pronti a lottare e prendemmo subito il controllo. Proprio quando pensavamo che sarebbero caduti, arrivò un gruppo di arabi – la cavalleria. Dio, avevano dei cavalli meravigliosi! Ma sono anche estremamente sanguinari, glielo assicuro. Non fanno prigionieri e son sicuro che non vorrebbe vedere cosa fanno a chi cerca di arrendersi, “l’uomo tremò al ricordo. “Comunque, quasi ci batterono. Ci assediarono. Cominciammo con 20000 uomini ma ne rimasero solo circa 1000 quando riuscimmo a venirne fuori.

“Per nostra fortuna, noi” disse indicando la San Marco, “la Marina, siamo troppo forti per loro. Non hanno nessuna nave moderna per combatterci.”

Gramatika, accompagnato da un piccolo gruppo di soldati, seguì l'ufficiale turco all'interno dell'edificio per incontrare l'amministratore dell'isola. Dopo pochi minuti, uscì accompagnato da un turco dall'aria trasandata che parlò al suo piccolo triste gruppo. Il comandante italiano aspettò fino a quando ebbe finito. Poi si rivolse alla folla, le sue parole furono tradotte in greco da un interprete che era venuto a riva con loro dalla San Marco.

“Rivendichiamo quest'isola in nome del governo italiano. L'amministrazione turca se ne andrà. Dovranno essere trattati con rispetto e dovranno ricevere tutta l'assistenza necessaria per la loro partenza. Istituiremo subito una nuova amministrazione e l'ordine sarà mantenuto.”

I greci, sentendo questo, acclamarono gli italiani e fischiarono gli ottomani abbattuti mentre scendevano verso una barca che li stava aspettando per portarli verso la terraferma turca poco più a est.

Gramatika ritornò nell'edificio e chiamò all'interno gli ufficiali. “C'è un sacco di lavoro da fare qui e voglio che rispettiate la gente del posto che stiamo liberando dagli Ottomani. Lasceremo qui un gruppo per prendersi in carico l'amministrazione e mantenere la pace. La nostra priorità, una volta che ci saremo assicurati che gli ottomani se ne siano andati, sarà quella di mantenere l'ordine. Nel frattempo, voglio che troviate degli alloggi per gli uomini.”

Giuseppe tornò fuori con Gramatika e l'interprete. La sua piccola compagnia era ancora allineata e in attesa di ordini. L'interprete tornò alla nave per riferire al loro capitano. “Qualcuno qui parla greco?” chiese Gramatika ai suoi uomini. Nessuno si fece avanti.

“Come troveremo degli alloggi se non siamo in grado di parlare alle persone?” chiese al suo amico.

Proprio allora, un vecchio greco si fece avanti. “Mi scusi signore” disse in inglese.

Giuseppe si girò, “sì?”

“Lei parla inglese,” l'uomo sembrò sollevato. “Sono un insegnante. I miei amici vogliono sapere cosa sta succedendo qui.”

“Come ho spiegato, stiamo liberando queste isole dai Turchi.”

“Ma non abbiamo bisogno di essere liberati,” disse l'uomo. Sembrava confuso e indicò i turchi che se ne stavano andando. “Ci hanno lasciati per conto nostro e non si sono mai immischiati con noi. Non erano abbastanza.”

Giuseppe era confuso. “Ma governavano l'isola, no? Li stiamo sostituendo e vi stiamo liberando.”

“Ma liberarci da cosa? Non siamo prigionieri!”

“Mi dispiace, non sono veramente in grado di spiegare, sono solo un marinaio. Cercherò di far venire una dei nostri ufficiali a parlare con voi. Nel frattempo, mi è stato chiesto di trovare delle sistemazioni per i miei uomini. Può aiutarmi?”

“Sistemazioni?”

“Alloggi – stanze per loro dove soggiornare.”

“Intende hotel? In realtà non abbiamo nulla del genere qui.” Guardò in basso e pensò per un attimo, poi alzò lo sguardo, “I turchi avevano delle case. Se se ne sono andati, potreste mettere lì i vostri uomini. Ma non credo ci siano abbastanza stanze per tutti voi.”

“Allora dovremo ospitare alcuni uomini nelle case private.”

“Pagherete un affitto?”

“Non so. Non credo.”

L'uomo sembrò infastidito. “Affermate di venire a liberarci, ma mi sembra che siate peggio dei Turchi.” Si girò verso il gruppo di greci che erano in attesa dietro di lui e disse velocemente qualcosa in greco. Girandosi di nuovo disse, “vi porteremo dal sindaco. Dovrete spiegargli tutto.”

Gramatika ordinò a Giuseppe di andare col vecchio, che condusse l'italiano in un altro ufficio dove un funzionario rubicondo, lo presentò al sindaco dell'isola, che, seduto dietro una grande scrivania, stava sudando copiosamente. “Ναι [Sì]?” disse.

Seguì una discussione, con il sindaco che cominciò chiaramente ad agitarsi quando il vecchio spiegò quello che gli aveva detto Giuseppe. L'uomo si girò verso l'italiano, “Come le ho detto. Non avevamo bisogno di essere liberati e non abbiamo stanze a meno che non siate pronti a pagare.”

Giuseppe era stupefatto. “Capisco. Dovrò parlarne con il mio comandante. Grazie.” Si girò, lasciò l'edificio, e ritornò a riferire quello che gli era stato detto.

“Non vogliono essere liberati?” Gramatika era sconcertato. “Beh, non sta a loro decidere quello che vogliono,” proseguì in modo poco razionale, “li libereremo comunque. Spiegaglielo e di' loro di procurarci degli alloggi. Se non vogliono collaborare, dovremo obbligarli a farlo.”

Giuseppe tornò nell'ufficio del sindaco. Il vecchio era ancora seduto su una sedia davanti alla scrivania, sulla quale c'era un vassoio rotondo di ottone sormontato da un treppiede con un grande anello in cima. Sul vassoio c'erano due piccole tazze vuote. Il sindaco salutò Giuseppe, indicandogli una sedia libera su cui si sedette l'italiano. “Kaffee?” chiese e, ricevendo un cenno d'assenso, urlò qualcosa a qualcuno presente nell'ufficio adiacente. Una segretaria entrò, sollevò il vassoio per l'anello e lo portò fuori dalla stanza. Non venne detto nulla fino a quando la donna ritornò portando il vassoio su cui ora stavano tre tazze del forte caffè dolce amato dai Greci e dai Turchi. Tutti presero una tazza. Giuseppe, abituato al forte espresso italiano, ne bevette una lunga sorsata, e rimase sorpreso dalla dolcezza del caffè e dal ritrovarsi la bocca piena dei residui presenti sul fondo della tazza. Li inghiottì, non volendo mostrare il suo disagio.

Il sindaco disse qualcosa e il vecchio tradusse, “Quindi?”

Giuseppe ripeté quello che gli era stato detto. I Greci dovevano trovare degli alloggi per gli italiani e non sarebbero stati pagati. L'isola era sotto il controllo italiano e il comandante italiano prometteva che le cose sarebbero andate per il meglio per i greci, ma si aspettava la loro cooperazione.

Quando questo fu spiegato al sindaco, l'uomo emise un sospiro esasperato. “Molto bene, non possiamo combattervi e neppure vogliamo farlo,” tradusse il vecchio. “Troveremo delle stanze per i vostri uomini e speriamo che ci rispetterete e che ci permetterete di proseguire come facevamo prima che ci ‘liberaste’.” L'ultima parola fu detta con un tono sarcastico.

Fu accordato non senza difficoltà che gli italiani che sarebbero rimasti sull'isola sarebbero stati messi inizialmente in case private vuote. Giuseppe, sollevato che fosse passata la freddezza iniziale, accettò l'offerta di un'altra tazza di caffè – assicurandosi questa volta di bere solo la piccola parte liquida in cima – e poi, dopo gli amichevoli saluti, lasciò l'ufficio e ritornò dai suoi uomini.

Gramatika aveva ordinato agli uomini di sciogliere le righe e di rilassarsi. Erano seduti all'esterno di un piccolo bar, riparato dal sole da canne di bambù sorrette da una struttura di legno. Sembravano molto a loro agio e Gramatika invitò Giuseppe a sedersi a un tavolino vicino a lui. “Come è andata?”

“Bene,” disse Giuseppe. “Sono d'accordo nel trovarci delle sistemazioni ora che si sono calmati. Anche se non sono particolarmente felici che abbiamo cacciato i turchi.”

“No, l'avevo capito. Il nostro interprete è tornato pochi minuti fa e ci ha spiegato che gli è stato detto che la nostra forza di ‘liberazione’ è più come una forza di occupazione. Birra?”

Prese il silenzio di Giuseppe come un assenso e chiamò la cameriera, “due birre”. Lei sollevò due dita e guardò in modo interrogativo, rientrando nel bar e ritornando con due birre quando lui annuì. Lui le porse una moneta che lei guardò sospettosamente e poi disse qualcosa in greco.

“Sono soldi italiani,” disse, “Lira, capisce?”

Lei scosse la testa, disse qualcos'altro e mise il denaro sul tavolo. In quel momento, arrivò il vecchio e Giuseppe lo chiamò. “Può spiegare alla ragazza che questi sono soldi italiani e che qui sono validi?”

L'uomo si rivolse alla ragazza in greco. Lei guardò le monete, le prese e girandole lesse le iscrizioni. Il vecchio tradusse la sua risposta, “Non so cosa siano questi. Ora li prendo ma, se mi avete imbrogliata, mi lamenterò con il sindaco.”

“E noi non vogliamo che accada, giusto?” disse Gramatika. Le porse altre monete. “Dovrebbero essere sufficienti.”

Lei le guardò di nuovo con sospetto, poi, scuotendo la testa, ritornò nel retro del bar e le depositò con attenzione in cassa.

“Questo è un'altra cosa che dovremmo sistemare – il denaro,” disse Gramatika con un sospiro.

Dopo aver aiutato gli uomini a sistemarsi nei loro alloggi, Giuseppe fu sollevato quando gli fu ordinato di ritornare sulla nave per fare rapporto al Capitano.

“Allora, Malpaiso, cosa faremo con lei ora? Ci servono degli ufficiali a terra per rendere questo posto una base per la nostra flotta. Questo significa che ci servono dei buoni ingegneri. Sarebbe una ottima opportunità per lei” disse il Capitano. “Vuole restare qui o continuare con noi?”

“Sono onorato per avermi considerato, signore, ma preferirei restare con la nave – ho ancora molto da imparare.”

Dopo aver lasciato Gramatika e un gruppo di soldati sull'isola, la San Marco si allontanò per unirsi al resto della flotta italiana. Tutte le isole del Dodecaneso erano state prese senza molti problemi, e la bandiera italiana sventolava su tutte le città principali delle isole.

Navigarono a nord verso i Dardanelli, lo stretto che portava dalla parte nordorientale del Mar Egeo verso la capitale turca, Istanbul. Lì supportarono un attacco piuttosto blando dei caccia torpedinieri italiani contro le posizioni turche prima di staccarsi e di ritornare al porto italiano di Brindisi.

Per Giuseppe, le ultime settimane della guerra non furono per nulla eccitanti e si ritrovò a domandarsi se sarebbe stato meglio se fosse rimasto a Lero con il suo amico Gramatika.

****

Dopo il termine della guerra italo-turca, Giuseppe si iscrisse all'Università per studiare ingegneria e passò la maggior parte degli anni della prima guerra mondiale a studiare a Pisa, vicino alla base navale di La Spezia. Non era più in Marina ma mantenne i contatti con alcuni dei suoi colleghi della San Marco.

L'università di Pisa era nota per i suoi corsi di lingua. A causa della sua esperienza nel mar Egeo, Giuseppe aveva cominciato a interessarsi alla cultura greca e decise di frequentare anche un corso di greco, oltre ai suoi corsi principali Questo significava studiare il greco antico ma il suo tutor parlava greco e insistette affinché i suoi studenti imparassero a conversare nella versione moderna della lingua.

Il suo alloggio nella parte più povera di Pisa, dava su una strada trafficata, e, mentre studiava, osservava le persone che andavano e venivano dalla fermata dell'autobus. Una ragazza in particolare lo colpì- I suoi capelli biondi e la sua figura slanciata la faceva spiccare rispetto alle comuni ragazze italiane dai capelli scuri. Ogni giorno la vedeva andare alla fermata, aspettare l'autobus e, di sera, cominciò ad aspettare che tornasse. Era alta e magra e camminava con una certa grazia.

Una sera, quando la ragazza scese dall'autobus, Giuseppe vide un gruppo di giovani andare verso di lei. La finestra era aperta e sentì loro dirle “ciao, cara, come sta?” Lei li ignorò e continuò a camminare, ma loro le si misero davanti. Quando cercò di superarli, le bloccarono la strada e uno di loro le prese il braccio, “su ragazza, cosa c'è che non va?”

Lei non rispose, cercando di liberarsi dalla stretta, ma il giovane non la lasciò andare. “Lasciatemi in pace.”

“No, non faccia così. Vogliamo solo parlare, tutto qui” disse il suo tormentatore. Un altro giovane sogghignò.

“Lasciatemi andare” disse lei cercando di sfuggire alla presa.

“Ma se ci siamo appena conosciuti” disse lui spingendola contro un edificio. Gli altri la circondarono mentre lui cercava di baciarla. Lei ora stava lottando, cercando con tutte le sue forze di liberarsi del muro di giovani.

Giuseppe non poteva permettere che questo succedesse. Uscì di corsa dal suo appartamento, scese le scale e arrivò in strada. “Ehi, lasciatela stare!” urlò.

“Non rompere il cazzo” disse uno di loro. “Questa è la nostra ragazza, non è vero, cara?”

La ragazza stava ancora lottando per liberarsi quando Giuseppe camminò verso di loro “lasciatela andare” disse.

“Altrimenti, sgorbietto? Non rompere il cazzo.”

Erano tutti girati dalla sua parte e la ragazza riuscì a liberarsi e a fuggire. Corse via, senza guardarsi indietro.

“Guarda cosa hai fatto, piccola merda” disse uno di quelli che la stavano tenendo. “Non potevi pensare agli affari tuoi, eh? Perché vuoi difendere una puttana tedesca?” Spinse Giuseppe e lo colpì con forza sul petto. “Stavo solo scaldandola” disse. Giuseppe cercò di indietreggiare quando gli altri cominciarono a spingerlo. Uno dopo l'altro cominciarono a colpirlo, sempre più forte, obbligandolo contro il muro.

“Smettetela” disse disperatamente.

“O altrimenti? Cosa farai?”

Colpì con forza Giuseppe sul mento e la sua testa andò a sbattere contro la parete alle sue spalle, lasciandolo sotto shock. Cercò di parare i colpi che seguirono, tendo alti i gomiti sui lati e i pugni davanti al suo volto per difendersi. Poteva vedere le persone venire verso di loro e, vedendo quello che stava succedendo, andare dall'altra parte della strada per evitare di essere coinvolti. Fu colpito con forza allo stomaco e si piegò, cadendo sulle ginocchia. Continuarono senza sosta a picchiarlo e calciarlo mentre era a terra. Finalmente uno di loro disse “andiamo, lasciamo perdere il piccolo bastardo” e, con un ultimo calcio, se ne andarono, ridendo, a cercare un'altra vittima.

Giuseppe rimase lì. Il sangue gli scendeva dal naso ed era piegato per il dolore. Quando cercò di muoversi, tutto il suo corpo protestò. Riuscì a mettersi sulle ginocchia. Le persone girarono al largo, pensando fosse ubriaco o peggio.

Tuttavia, una persona non andò dall'altra parte. “Sta bene?” disse una voce femminile. Si accucciò vicino a lui. “Riesce ad alzarsi? Ecco, lasci che la aiuti. Vive qui vicino?”

Lui indicò la porta aperta del suo condominio. “OK, andiamoci. Su, la aiuterò.”

Riuscì a farcela mentre lei lo aiutava a superare incespicando i gradini verso il suo appartamento, dove lei lo condusse attraverso la porta ancora aperta e lo aiutò a sedersi sul divano. Lui si distese e si lasciò andare. Il tocco di un panno freddo sulla sua fronte lo svegliò e si lamentò quando ritornò tutto il dolore. “Ssh” disse una voce. “Cerchi di stare fermo.”

Non era in grado di aprire completamente gli occhi, la pelle attorno era gonfia dove i mascalzoni lo avevano colpito. Anche quando si sforzò di aprirli, trovò difficile vedere e le lacrime cominciarono a scorrere lungo le sue guance. Alla fine, vide un volto davanti a lui e dei capelli chiari sopra di esso. La sua bocca era ammaccata e le sue labbra tagliate perciò riuscì a malapena a biascicare “Cosa? Come?”

“Mi dispiace, spero non la disturbi, l'ho aiutata a salire – ha lasciato la porta aperta. Ricorda?”

Stava ritornando in sé e si rese conto che il volto apparteneva alla ragazza bionda. “É tornata?” riuscì a dire.

“Mi sono nascosta dietro l'angolo fino a quando quei farabutti non se ne sono andati. Lo sa, è stato molto stupido affrontare quei tizi ma grazie comunque. Non so veramente come sarei stata in grado di fuggire da loro senza il suo aiuto. Spero non le dispiaccia che io sia entrata in questo modo.”

Riconobbe il suo accento come straniero – poi si ricordò che il giovinastro aveva parlato di una “puttana tedesca”. “É tedesca?”

Lei sembrò quasi vergognarsi. “Sì, è un problema?”

“No, certo che no.”

“Ma noi siamo ancora il nemico, no – gli Unni?” disse alzandosi e preparandosi ad andarsene.

“No, per favore – no. Lei non è mia nemica. La guerra è comunque finita, per favore non se ne vada.”

Lei si girò, raccogliendo il telo macchiato di sangue con cui gli aveva pulito il volto. Andò verso il piccolo lavello in cucina e lo risciacquò con l'acqua fredda. Lui cercò di alzarsi e si lamentò per l''improvviso ritorno del dolore allo stomaco e alla testa. Provò a toccarsi con attenzione il volto e le sue dita tornarono appiccicose per il sangue. “Stia fermo, ha un brutto taglio sopra l'occhio,” disse lei.

Sussultò quando lei gli risciacquò con attenzione il volto e levò il sangue. “Credo che dovrà riposare per uno o due giorni. Dovrebbe andare da un medico e fare un controllo.”

“Non posso, non posso permettermelo.”

“Beh, allora credo che dovrò prendermi cura io di lei” disse. “Dopo tutto mi ha salvato la vita.”

Lui rise, pieno di dolore. “Non credo sia necessario. Starò bene.”

“Fra qualche giorno forse, ma nel frattempo, temo che dovrà avermi come infermiera.”

“Grazie.” Riaffondò sul divano. “Bene, io sono Giuseppe Malpaiso, sono uno studente – povero, chiaramente. É tutto – non molto interessante. Lei chi è? Mi parli di lei.”

“Sono tedesca – come ha già scoperto. Anche io sono qui per studiare. Sono una infermiera tirocinante.”

“Che fortuna – essere picchiato per essere salvato da una infermiera. Parla un italiano molto buono – come mai?”

“Vivo in Baviera. Abbiamo molti contatti con gli italiani – siamo piuttosto vicini al confine austriaco e spesso scio sulle Alpi in Italia. Mio padre era un insegnante di lettere classiche e ci ha portati a Roma e in altri luoghi quando eravamo piccoli. Amava anche l'opera e il suo compositore preferito era Verdi.”

“Non Wagner?”

“No, lo riteneva prolisso e ampolloso, ma Verdi, Rossini, Donizetti – sono così pieni di vita e divertimento. In ogni caso, per questo motivo sono riuscita ad apprendere un po' di italiano e lui mi ha incoraggiata a venire qui a studiare. Era solito dire che lui era più un Romano che un Unno! Aspetti un attimo, cantò: ‘Studente son – e povero’. Gualtier Maldé – giusto?”

Giuseppe rise – e questo gli fece di nuovo dolere il volto. “Non si preoccupi, non sono un Conte, se è questo che sta pensando – suo padre, invece, è un gobbo?”

“No, lui non è Rigoletto e io non sono Gilda. Conosce le opere?”

Maria – quello era il suo nome – lo aiutò a levarsi la giacca e la camicia – entrambe lacere e insanguinate – e poi cercò di aiutarlo a togliersi la canottiera ma lui si ritrasse. “Oh, per favore, sono un'infermiera, ho già visto di tutto. Devo vedere quando gravemente è ferito.”

Con riluttanza e sentendosi sorprendentemente timido, lasciò che lei gli sollevasse la canottiera sopra la testa. Lei emise un rumore di disgusto quando vide le ammaccature che gli avevano procurato i suoi aggressori. Con gentilezza gli controllò le costole e lui trasalì quando lo toccò. “Mi dispiace. Credo che lei possa avere una costola incrinata. Non c'è molto che io possa fare al riguardo – deve solo essere paziente fino a quando guarirà.”

Lo convinse a togliersi i pantaloni e guardò i tagli e le ammaccature sulle gambe provocategli dai calci che aveva ricevuto. Gli toccò un livido e lui si ritrasse. “Mi dispiace. Le fa male?”