Sala Operativa

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Is reading Federico Foglia
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“Li, mi hai sentito? Non ti proteggeranno. Non te la caverai. Non hai preso la tua pillola quando avresti potuto farlo, e adesso sei qui. Non c’è via d’uscita. Per quanto riguarda i tuoi, tu non esisti, e non sei mai esistito. L’edificio in cui ti trovi adesso non esiste. Potresti finire ammucchiato in un cilindro da duecento litri nel fondo dell’oceano, o in un fosso poco profondo nella landa desolata, con i corvi a mangiarti gli occhi… Non importerà a nessuno. Non lo saprà nemmeno nessuno.”

L’uomo ancora non diceva una parola. Continuava solo a fissare davanti a sé.

“Li, che cosa sai della diga di Black Rock, e come si sono aperte le saracinesche?”

“Non ne so niente.”

Luke aspettò pochi istanti, poi proseguì. “Okay, lascia che ti dica cosa so io. Secondo le ultime cifre, sono morte più di mille persone. Hai idea di quanto la cosa mi faccia arrabbiare? Mi fa venir voglia di vendicare le loro morti. Mi fa venir voglia di trovare un capro espiatorio, e di fargliela pagare personalmente. Tu sei un capro espiatorio efficace, non è vero, Li? Un uomo di cui a nessuno importa, che nessuno ricorda, e di cui nessuno sentirà la mancanza. Ti dirò un’altra cosa. Lo so che sei stato addestrato a resistere agli interrogatori. Questo mi rende solo più felice. Vuol dire che posso prendermi tutto il tempo che voglio. Possiamo stare qui giorni, o addirittura settimane. Abbiamo della gente che sta lavorando al problema della diga. Capiranno loro cos’è successo. Non ci serve qualsiasi patetica informazione che potresti avere tu. Io non la voglio neanche, a essere sincero. Voglio solo farti del male. Più te ne stai seduto lì, più ne ho voglia.”

Adesso Luke si piegò sulle cosce vicino al viso di Li. Stava a pochi centimetri di distanza, così vicino da esalargli il fiato sulle guance. “Ci conosceremo piuttosto bene qui dentro, okay, Li? Alla fine saprò tutto di te.”

Luke guardò Swann. Swann era in un angolo vicino alla finestra con le sbarre di acciaio. Non aveva detto una parola da quando erano entrati. Guardava fuori l’agglomerato di cemento e le verdi colline lussureggianti che lo circondavano. Swann era un analista, un tipo da dati. Luke immaginava che potesse anche non aver mai pensato a come quei dati a volte venivano estratti. Le minacce di morte erano solo l’inizio.

“Li, ti sta parlando,” disse Ed.

Li allora riuscì a sorridere. Era un sorriso malaticcio, e non aveva traccia di humor. “Per favore,” disse. “Chiamami Johnny.”

* * *

Passò un’ora. Luke e Ed avevano fatto i turni per parlare con Li, ma senza risultato effettivo. Anzi, Li si stava facendo più sicuro. Evidentemente aveva deciso che più di qualche duro ceffone di Ed non avrebbe avuto.

Adesso Luke guardava di nuovo Swann.

“Okay, Swann,” disse. “Questo è un buon momento per fare quella passeggiata per il campo.”

Qualche minuto prima, Luke aveva aperto l’armadietto con la chiave che gli aveva dato Pete Winn. L’armadietto era più un ripostiglio che un vero e proprio armadietto. Dentro c’era un tavolo pieghevole, una specie di asse da stiro ma più larga e più bassa e molto più robusta. Era lunga circa due metri e larga uno e venti.

Quando Luke e Ed la aprirono, la tavola aveva un’inclinazione evidente. Sul lato più alto c’erano delle manette per le caviglie del soggetto. Nel mezzo c’erano cinghie in pelle per legare i polsi del soggetto, e una cinghia grande nel centro per la vita. Sul lato più basso c’era un anello di metallo per assicurare la testa del soggetto al tavolo.

Era una piattaforma per la tortura della goccia.

Quando estrassero la tavola, Li si agitò visibilmente. Capì subito di che cosa si trattasse. Ovvio che lo capì subito. Era un agente dell’intelligence, operativo sul campo, e tutti loro l’avevano vista durante l’addestramento. Americani, cinesi, chiunque. Luke aveva guardato una dimostrazione live della tecnica, una volta. Un incallito agente della CIA, un uomo che era arrivato all’agenzia dai Navy SEAL, che era stato presente in numerosi hotspot del Paese, era il soggetto del test.

Come avevano fatto a convincere quell’uomo a proporsi come volontario era una cosa che Luke non aveva mai scoperto. Magari aveva avuto un bonus. Doveva essere un bonus bello grosso. L’agente sembrava rilassato prima della dimostrazione. Rideva e scherzava con i suoi futuri torturatori. Una volta cominciata la procedura, si era trasformato istantaneamente. Era durato ventiquattro secondi prima di usare la parola di sicurezza per farla finire. L’avevano cronometrato.

“Dovete sapere che va contro le convenzioni di Ginevra,” disse Li, la voce che gli tremava un pochino. “Va contro…”

“L’ultima volta che ho controllato, non eravamo a Ginevra,” disse Luke. “Anzi, non siamo da nessuna parte. Come ho detto prima, questo edificio non esiste, così come non esiste nessuno di nome Li Quiangguo.”

Luke si impegnò con gli altri attrezzi che aveva preso dall’armadietto. Includevano due grandi annaffiatoi, come quelli che una cara vecchietta userebbe per dar l’acqua al giardino. C’erano anche delle sicure per le manette e le cinghie di pelle della tavola. E infine c’era un numero di pesanti teli di media grandezza e un rotolo di cellophane. Se i teli non avessero funzionato, sarebbero sempre potuti passare al cellophane. Luke sapeva che la CIA non perdeva tempo con i teli.

“Bello,” disse Ed. “Non faccio cose del genere dall’Afghanistan. Sono passati almeno cinque anni.”

“Allora la tua esperienza è più recente della mia,” disse Luke. “Perciò lasceremo a te l’onore. Com’è stato quando l’hai fatto?”

Ed fece spallucce. “Spaventoso. Ce ne sono morti un paio. Non è come gli altri metodi che ho visto. Puoi folgorare persone tutto il giorno, finché la corrente è giusta. Fa male, ma non li uccide. Con questo la gente muore davvero. Affogano. Hanno dei danni cerebrali. Hanno arresti cardiaci. Questo è reale.”

“Sentite,” disse Li. Adesso gli tremava tutto il corpo. “Il waterboarding va contro qualsiasi diritto bellico. È riconosciuto come tortura da ogni corpo internazionale. Violerete i diritti umani.”

“Bello, all’improvviso sei tutto regole e norme,” disse Ed. “Per come la vedo io, uno che annega deliberatamente migliaia di persone non è umano. Direi che hai rinunciato ai tuoi diritti umani.”

“Ragazzi,” disse Swann. “Questa cosa non mi piace.”

Luke lo guardò. “Swann, ti avevo detto che era un buon momento per andartene. Prenditi una ventina di minuti. Dovrebbero bastare.”

Swann si fece rosso in viso. “Luke, tutto ciò che ho letto dice che questa cosa non ti darà neanche delle informazioni decenti. Mentirà per farti smettere.”

Luke non ricordava una singola volta in cui Swann avesse messo in discussione le sue azioni, prima. Sarebbe stato curioso di sapere se Swann stesse mettendo in discussione le sue azioni adesso. Comunque, scosse la testa.

“Swann, non puoi credere a tutto ciò che leggi. Ho visto questa cosa far ottenere fattibili e accurate informazioni nel giro di minuti. E dato che il signor Li è nostro ospite qui, saremo in grado di verificare rapidamente ogni affermazione che farà. Possiamo anche rivedere quelle affermazioni con lui se si scopre che sono errate. La verità è che non vogliono che si faccia questa cosa perché, come Li ha accuratamente indicato, è qualificata come tortura. Però funziona, e nelle circostanze giuste funziona molto, molto bene.”

Luke fece un cenno alla stanza vuota. “E queste sono le circostanze giuste.”

Swann adesso lo fissava. “Luke…”

Luke sollevò una mano. “Swann. Fuori. Per piacere.” Indicò la porta.

Swann scosse la testa. Aveva il viso molto rosso adesso. Sembrava sul punto di tremare lui stesso. “Perché mi hai chiamato per questa roba?” disse. “Non lavoro più per l’FBI, e neanche tu.”

Luke quasi sorrise. Non sapeva come si sentisse davvero Swann, ma non avrebbe potuto reagire meglio neanche avesse avuto un copione sotto al naso. Il poliziotto buono, e il poliziotto cattivo sotto steroidi.

“Entro la fine della giornata avrò bisogno delle tue competenze,” disse Luke. “Ma non per questo. Adesso fatti un giro. Per piacere. E nota quanto sono stato educato finora. Entro un minuto perderò la calma.”

“Presenterò reclamo formale,” disse Swann.

“Fallo, dai. Lo sai per chi lavoro. Il tuo reclamo se ne andrò dritto al trita documenti. Cadrà dritto nel buco della memoria. Ma fallo lo stesso, come esercizio intellettuale.”

“Ho in programma di farlo,” disse Swann. Con quello, uscì dalla porta. La tirò alle sue spalle, ma senza sbatterla.

Luke sospirò. Guardò Ed. “Ed, puoi per favore riempire quegli annaffiatoi al lavandino della cucina? Ci serviranno tra un attimo.”

Ed fece un sorriso diabolico. “Con piacere.”

Sollevò gli annaffiatoi guardando Li. Mostrò a Li la folle occhiataccia da gigante che a volte usava con le persone. Era uno sguardo che dava i brividi anche a Luke. Faceva sembrare Ed psicotico. Lo faceva sembrare come un uomo che trovava piacevole il sadismo. Luke non era sicuro dell’origine di quello sguardo, né di cosa significasse. Non lo voleva proprio sapere.

“Fratello,” disse Ed a Li. “La tua giornata sta per diventare molto più lunga.”

Mentre Ed trafficava nella minuscola cucina della cabina, Luke osservò bene Li. L’uomo adesso tremava di brutto. Tutto il corpo vibrava come se gli passasse attraverso della corrente elettrica a basso voltaggio. Gli occhi gli si erano fatti grandi e spaventati.

“L’hai già visto fare, vero?” disse Luke.

Li annuì. “Sì.”

“Su prigionieri?”

“Sì.”

“È brutto,” disse Luke. “Molto brutto. Nessuno resiste.”

 

“Lo so,” disse Li.

Luke guardò la cucina. Ed stava prendendo tempo di là. “E Ed… devi sapere com’è. Queste cose gli piacciono.”

Li non disse nulla in proposito. Il viso gli si fece rosso acceso, e poi gradualmente passò al rosso scuro. Sembrava che dentro di lui fosse in corso un’esplosione, e che stesse cercando di contenerla. Strinse forte gli occhi. Digrignò i denti, che poi cominciarono a battere. Tutto il corpo cominciò a sussultare.

“Ho freddo,” disse. “Non posso farlo.”

Proprio allora a Luke venne in mente una cosa.

“Te l’hanno fatto,” disse. “I tuoi.” Non era una domanda. Lo sapeva come sapeva il proprio nome. Li aveva subito il waterboarding prima di ora, e con tutta probabilità era stato il governo cinese a farglielo.

Improvvisamente la bocca di Li si aprì in un urlo. Era un urlo silenzioso, la mascella si aprì al massimo. In qualche modo ricordò a Luke un lupo mannaro che ulula di agonia durante la transizione spaccaossa dalla forma umana a quella canina. Solo che non c’era suono. Da Li non uscì quasi nulla, solo una specie di basso rumore strozzato dal profondo della gola.

Adesso aveva tutto il corpo rigido, ogni muscolo teso come se la corrente elettrica fosse appena salita di dieci tacche.

“Tu eri un traditore,” disse Luke. “Un nemico dello stato. Però in prigione sei stato riabilitato. La tortura era parte del processo. Ti hanno fatto agente, ma non di valore. Sei uno dei sacrificabili. È per questo che eri qui sul campo, ed è per questo che avevi le pillole di cianuro. Se fossi stato preso, avresti dovuto ucciderti. Non c’era praticamente modo in cui non potessi essere preso, giusto? Ma tu non l’hai fatto, Li. Non ti sei ucciso, e adesso noi siamo la sola speranza che hai.”

“Ti prego!” urlò Li. “Ti prego, non farlo!”

Il corpo dell’uomo si scuoteva in maniera incontrollabile. Anzi, di più. Cominciò a emanare un odore, il fitto odore umido delle feci.

“Oh, mio Dio,” disse. “Oh, mio Dio. Aiutami. Aiutami.”

“Che succede qui?” disse Ed tornando con gli annaffiatoi. Fece una smorfia quando l’odore gli arrivò al naso. “Oh, Cristo.”

Luke sollevò le sopracciglia. Provava quasi compassione per quell’uomo. Poi pensò ai più di mille morti, e alle molte migliaia che avevano perso le loro case. Niente, nessuna esperienza di vita negativa poteva giustificare un’azione del genere.

“Già, Li è un casino,” disse. “È traumatizzato. Pare che non sia il primo waterboarding per lui.”

Ed annuì. “Bene. Allora si è già esercitato.” Abbassò lo sguardo su Li. “Lo faremo comunque, mi senti, femminuccia? Non ci interessa la puzza, perciò se è questo il giochino che stai facendo, non ha funzionato.” Ed guardò Luke. “L’ho già visto fare. La gente ci prova perché pensa che la puzza sia così fetida che non vorremo andare avanti. O magari che avremo pietà di loro. O qualsiasi altra cosa.” Scosse la testa. “La puzza è cattiva, ma non l’ho mai vista funzionare. Non saremmo qui se fossimo tipi sensibili, Li. Ho sentito il puzzo di uomini dopo che sono stati eviscerati. Credimi, è peggio di qualsiasi cosa tu possa spingere fuori dalla strada normale.”

“Vi prego,” disse ancora Li. Lo disse piano adesso, quasi in un sussurro. Il corpo gli tremava senza controllo. Lasciò cadere la testa e fissò il pavimento. “Vi prego, non fatelo. Non riesco a sopportarlo.”

“Dammi qualcosa,” disse Luke. “Dammi qualcosa di buono, e poi vedremo. Guardami, Li.”

La testa di Li crollò ancor più giù. La scosse. “Non posso guardarti adesso.” Il suo viso fece una smorfia, una maschera di umiliazione. Poi si mise a piangere.

“Aiutami. Ti prego, aiutami.”

“Farai meglio a darmi qualcosa,” disse Luke. “O dovremo cominciare.”

Luke se ne stava a tre metri di distanza a guardarlo. Li era afflosciato sulla sedia, la testa bassa, le braccia strette dietro l’ampia schiena, il suo intero corpo a tremare. Non c’era organizzazione nella cosa – ogni parte sembrava fare qualcosa di diverso e di slegato da ogni altra parte. Luke notò in quel momento che Li aveva la tuta bagnata all’altezza del cavallo. Si era anche pisciato addosso.

Luke fece un respiro profondo. Dovevano far venire qualcuno per pulirlo.

“Li?” disse.

Li guardava ancora a terra. La sua voce pareva venire dal fondo di un pozzo. “C’è un deposito. È un deposito piccolo, con un ufficio. Un importatore di prodotti cinesi. Nell’ufficio è tutto spiegato.”

“Di chi è l’ufficio?” disse Luke.

“Mio.”

“È di facciata?” disse Ed.

Li cercò di stringersi nelle spalle. Il corpo gli tremolò e fece una piccola danza. I denti gli battevano mentre parlava. “Più che altro. Doveva essere un po’ funzionale, altrimenti niente copertura.”

“Dov’è?”

Li mormorò qualcosa.

“Cosa?” disse Luke. “Non ti sento. Se fai giochini con me, affronteremo la cosa alla maniera dura. Pensi che Ed abbia voglia di lasciarti in pace? Hai pensato male.”

“È ad Atlanta,” disse Li, chiaro e deciso adesso, come se dirlo fosse un sollievo. “Il deposito si trova ad Atlanta. È lì che avevo base io.”

Luke sorrise.

“Be’, puoi darci l’indirizzo, e possiamo prendere un aereo per Atlanta. Torneremo tra qualche ora.” Mise una mano sulla spalla di Li. “Dio ti aiuti se scopriamo che stai mentendo.”

*

“Bel lavoro, Swann,” disse Luke. “Non avrei potuto chiedere di meglio neanche se avessi scritto le battute io.”

“Ho mai detto che al liceo ero nel gruppo di teatro? Un anno ho avuto un ruolo nell’Opera da tre soldi.”

“Ti sei perso la tua vocazione,” disse Luke. “Saresti potuto andare a vivere a Hollywood a quel che ho visto lì dentro.”

Percorsero la passerella di cemento verso il SUV nero che li aspettava. Due uomini con tute dell’ente federale per la gestione delle emergenze erano appena smontati dall’auto ed erano entrati nella cabina. Luke si guardò in giro. Tutto intorno a loro c’erano recinzioni e fili spinati. Dietro alla torre di guardia più vicina una ripida collina verde si stagliava verso le montagne settentrionali della Georgia.

Swann sorrise. “Ho cercato di metterci la giusta nota di indignazione morale.”

“Mi avevi fregato,” disse Ed.

“Be’, era vero. Non dovevo recitare. Sono davvero contro la tortura delle persone.”

“Nemmeno noi siamo a favore,” disse Ed. “O almeno, non sempre.”

“L’avete fatto?” disse Swann.

Luke sorrise. “Tu che ne dici?”

Swann scosse la testa. “Ero fuori da appena dieci minuti quando siete usciti, perciò immagino di no.”

Ed gli diede una pacca sulla schiena. “Continua a immaginare, analista.”

“Be’, ma l’avete fatto o no?” disse Swann. “Ragazzi?”

Nel giro di qualche minuto, i tre erano di nuovo sull’elicottero, in volo sempre più su sopra la fitta foresta in direzione sud, verso Atlanta.

CAPITOLO SEI

10:05

Osservatorio navale degli Stati Uniti – Washington, DC

“Signore, grazie di essere venuto.”

Susan Hopkins si allungò per stringere la mano dell’uomo alto nel completo azzurro chiaro. Era il deputato degli Stati Uniti dell’Ohio, Michael Parowski. Aveva dei capelli prematuramente imbiancati e dei socchiusi occhi azzurro pallido. Cinquantacinque anni, era bello in un aspro modo da uomo Marlboro. Nato e cresciuto operario, aveva grosse mani di pietra e spalle ampie di un uomo che aveva cominciato la propria carriera come operaio siderurgico.

Susan conosceva la sua storia. Era scapolo da una vita. Era cresciuto ad Akron, figlio di immigrati polacchi. Da teenager era un stato un pugile da Golden Gloves. Le città industriali del nord, Youngstown, Akron, Cleveland, erano la sua roccaforte. Il suo supporto lassù era irremovibile. Di più, era mitico, tipo leggenda. Era al suo nono mandato alla camera, e le sue rielezioni erano una passeggiata.

Michael Parowski sarebbe stato rieletto nel nord dell’Ohio? Il sole sarebbe sorto ancora, domani? La Terra avrebbe continuato a girare sul suo asse? Se si lasciava cadere un uovo, sarebbe caduto sul pavimento della cucina? Quell’uomo era inevitabile come le leggi della fisica. Non se ne sarebbe andato da nessuna parte.

Susan aveva visto i video di lui che guadava la folla alle manifestazioni sindacali, nelle feste e ai festival etnici (dove non discriminava – polacchi, greci, portoricani, italiani, afroamericani, irlandesi, messicani, vietnamiti – se avevi un’appartenenza etnica, era lui il tuo uomo). Era uno che stringeva mani, che ti dava gran pacche sulla schiena e che batteva il cinque, e che ti abbracciava. La mossa con cui si firmava era il sussurro.

Nel mezzo della confusione e del caos, con decine o persino centinaia di persone a spingere per farglisi più vicine, lui invariabilmente avrebbe preso una donna di una certa età da parte e le avrebbe sussurrato qualcosa nell’orecchio. A volte le donne ridevano, a volte arrossivano, a volte gli agitavano un dito davanti. La folla quella cosa la adorava, e nessuna donna aveva mai ripetuto ciò che lui le aveva detto. Era un teatrino politico dell’ordine più alto, del tipo che Susan, francamente, adorava.

Lì a Washington DC, era un uomo del sindacato a tutti gli effetti – l’AFL-CIO gli aveva dato un punteggio del cento per cento. Era uno dei migliori amici degli operai del Campidoglio. Era più debole su alcune delle altre questioni di Susan: i diritti delle donne, i diritti dei gay, l’ambiente. Ma non così tanto da compromettere gli accordi, e in un certo senso i suoi punti di forza completavano quelli di lei. Lei riusciva a parlare con passione di acqua e aria pulite e del benessere delle donne, e lui riusciva a eguagliare la passione di lei quando parlava della brutta situazione della classe operaia americana.

Pure così Susan non era sicura che fosse perfetto per la cosa, ma i membri più anziani del partito le avevano assicurato di sì. Lo volevano a bordo più di tutto. A dire la verità, avevano praticamente preso la decisione per lei. E ciò che volevano davvero da lui, oltre alla sua popolarità, era la sua durezza. Era l’uomo più cattivo della stanza. Non beveva, non fumava, e almeno pareva che non dormisse. Viveva sugli aeroplani, a saltare su e giù al suo distretto come una pallina da ping pong. Sarebbe venuto al Campidoglio per le riunioni della commissione a votare a tutte le ore, in un cimitero di Youngstown al mattino, sei ore dopo, fresco e allerta, lacrime agli occhi, le grosse e forti braccia a cingere la madre di un agente deceduto mentre lei si scioglieva in lacrime contro il suo petto.

Se i suoi nemici dicevano che era silenziosamente rimasto amico di un paio di gangster con cui aveva trascorso l’infanzia nel vecchio quartiere… be’, la cosa aggiungeva solo fascino. Era dolce, era duro, era leale, e non era uno con cui far casini.

Le rivolse un sorriso luminoso. “Signora presidente, a cosa devo l’onore?”

“Ti prego, Michael. Continua a chiamarmi Susan.”

“Okay. Susan.”

Lei lo condusse nel suo studio. Come vicepresidente, aveva smesso da molto tempo di tenere riunioni importanti nel suo ufficio. Preferiva la sensazione un po’ informale, e il bellissimo ambiente, del suo studio. Quando entrarono Kat Lopez era già lì ad aspettarli.

“Conosce il mio capo dello staff, Kat Lopez?”

“Non ho avuto il piacere.”

Si strinsero la mano. Kat gli offrì uno dei suoi rari sorrisi. “Deputato, sono una sua grande fan da quand’ero al college.”

“E quand’è stato, l’anno scorso?”

Kat allora fece qualcosa di fuori dal suo ordinario. Arrossì. Fu veloce, lei si riprese quasi subito, ma arrossì. Quell’uomo faceva effetto alla gente.

Susan offrì a Parowski una sedia. “Ci sediamo?”

Parowski si sistemò su una delle comode poltrone. Susan si sedette di fronte a lui. Kat rimase in piedi dietro di lei.

“Mike, ci conosciamo da molto tempo. Quindi non ci girerò intorno. Come sai, sono improvvisamente diventata presidente quando è morto Thomas Hayes. Mi ci è voluto molto per assestarmi. E ho rimandato la scelta del vicepresidente fino a quando la crisi non sembrava finita.”

“Ho sentito delle voci su quel che è successo ieri,” disse Parowski.

Susan annuì. “È vero. Crediamo che si tratti di un attentato terroristico. Ma sopravvivremo a questo come siamo sopravvissuti agli altri, e andremo avanti ancor più forti e resistenti di prima. E un modo in cui lo faremo è con un vicepresidente forte.”

 

Parowski la fissò.

Susan annuì. “Tu.”

Lui alzò lo sguardo su Kat Lopez, poi tornò a guardare Susan. Sorrise. Poi rise.

“Pensavo che mi avresti chiesto di radunarti dei voti al Campidoglio.”

“Sì,” disse. “Ti chiederò di farlo. Ma come vicepresidente e presidente del Senato, non come membro del congresso dell’Ohio.”

Alzò le mani. “Lo so. Pare che ti stia passando la bomba senza preavviso, ed è proprio così. Ma ho sondato il terreno, e ho tenuto riunioni top secret per le ultime sei settimane. Il tuo nome non ha fatto che saltar fuori. Sei quello con massiccia popolarità nel tuo distretto, e ampio fascino per l’intera zona nord degli Stati Uniti, e persino nei distretti della classe operaia conservatrice del sud. E sei il candidato infaticabile che può concorrere duramente con me quando verrà l’ora di ricandidarsi.”

“Lo farò,” disse.

“Prenditi il tuo tempo,” disse Susan. “Non voglio metterti fretta.”

Il suo sorriso si allargò. Adesso sollevò le mani, quasi come implorando i cieli. “Che cosa posso dire? È un sogno divenuto realtà. Mi piace davvero quello che stai facendo. Hai tenuto insieme questo Paese in un momento in cui sarebbe potuto andare in pezzi. Sei stata molto più tenace di chiunque te ne abbia riconosciuto il merito.”

“Grazie,” disse Susan. Se lui avesse potuto vederla nei primi giorni, a piangere sola in quella stessa stanza quando pensava che il novanta per cento della gente sarebbe morta per l’attentato col virus Ebola, l’avrebbe ancora pensata così?

Susan annuì tra sé e sé. Probabilmente più che mai.

Lui la indicò col suo grosso indice. “Ti dirò un’altra cosa. Ho sempre saputo che eri fatta così. Riesco a leggere il meglio delle persone. Ho imparato a farlo quando ero un ragazzino, e l’ho visto in te anni fa, quando sei venuta a Washington DC. Chiedi a chi vuoi. Quando è arrivato il sei giugno ho detto alla gente non vi preoccupate, siamo in buone mani. L’ ho detto a quelli del Campidoglio che erano ancora vivi, l’ho detto nei programmi televisivi, e l’ho detto personalmente ad almeno diecimila persone del mio distretto.”

Susan annuì. “Lo so.” E lo sapeva davvero. Quella piccola cosa era tornata fuori più volte nelle riunioni. Michael Parowski ti copre le spalle.

“Devi sapere una cosa di me, però,” disse lui. “Sono grosso. Fisicamente sono grosso, e ho una grossa personalità. Se stai cercando qualcuno che se ne stia nel retro a fare da tappezzeria, probabilmente non sono quello giusto.”

“Michael, ti abbiamo vagliato sotto ogni punto di vista. Sappiamo tutto di te. Non vogliamo che te ne stia sullo sfondo. Ti vogliamo in testa, a essere te stesso. Vogliamo la tua forza. Stiamo ricostruendo un governo qui e, in un certo senso, stiamo ricostruendo la fiducia delle persone nell’America. È un lavoro duro, e c’è molta roba pesante di cui occuparsi. È per questo che abbiamo scelto te.”

Lui la guardò in tralice. “Sapete tutto di me, eh?”

Sorrise. “Be’, quasi tutto. C’è ancora un mistero che mi piacerebbe risolvere.”

“Okay, abbocco,” disse. “Quale?”

“Quando tiri da parte le anziane agli eventi, che cosa sussurri?”

Grugnì. In viso gli apparve uno sguardo strano. Il volto quasi gli si trasformò, decadi di usura caddero. Per pochi secondi parve quasi (ma non del tutto) innocente, come il povero bambino che un giorno doveva essere stato.

“Dico loro quanto belle sono oggi,” disse. “Poi dico, ‘Non lo dica a nessuno. È il nostro piccolo segreto.’ E sono sincero, con ogni singola parola.”

Scosse la testa, e Susan pensò che fosse quasi di meraviglia – per le persone, i politici, per l’assoluta magnitudine e audacia di ciò che persone come lui e Susan facevano ogni singolo giorno delle loro vite.

“Funziona sempre,” disse.