Gloria Primaria

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From the series: Le Origini di Luke Stone #4
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CAPITOLO CINQUE

Ore 23:59 fuso orario dell’Atlantico (ore 23:59 fuso orario della Costa Orientale)

Foresta Nazionale El Yunque

Cubuy, Canovanas

Porto Rico

La notte era umida e pesante.

Era sempre umido nella foresta pluviale. Ovunque intorno a lui, le foglie gocciolavano di umidità. Nell'oscurità, attraverso le ripide colline, le minuscole rane coqui maschi chiamavano le compagne.

“Co-KEE! Co-KEE!" I versi sovrapposti di milioni di rane riempivano la notte con un rumore decisamente superiore alla dimensione dei loro corpi.

L'uomo si faceva chiamare Premo, abbreviazione di El Supremo. A volte le persone lo chiamavano Uno o El Ultimo. Nessuno lo aveva mai chiamato con il suo vero nome. Non si poteva mai sapere chi fosse all'ascolto.

Era un uomo grande e grosso, con le spalle larghe. Era il leader del movimento indipendentista portoricano. Era difficile muoversi in quei giorni, con il monitoraggio costante delle comunicazioni, l'intercettazione delle telefonate, il sequestro delle email, il tracciamento delle ricerche in internet e la mappatura delle connessioni online.

Premo non aveva bisogno di computer. Non scriveva mai nulla. Non parlava quasi mai al telefono con nessuno, nemmeno con sua madre. I suoi ordini venivano comunicati direttamente ai subalterni che stavano in sua presenza, uomini selezionati attentamente ancor prima che mettessero piede in una stanza in cui lui si trovava. Era l'unico modo.

Se i tuoi nemici si convertono alle nuove tecnologie, tu comportati da primitivo.

Se ne stava sulla veranda coperta sul retro della casa, fumava una sigaretta e guardava da una ringhiera di legno la giungla montuosa. I suoi occhi erano abituati all'oscurità. Poteva vedere i contorni delle colline che si innalzavano sopra di lui e il ripido pendio al di sotto.

Mentre guardava, notò che aveva appena ricominciato a piovere dall'altra parte del burrone: l'acqua scendeva silenziosa, tagliando la fitta nebbia aggrappata alle cime degli alberi. Tra un attimo, la pioggia avrebbe cominciato a battere sul tetto di lamiera ondulata di quella baracca.

"Premo", disse un uomo dietro di lui. "Están aquí".

Sono qui.

Premo prese un'ultima boccata dalla sua sigaretta e la lanciò nell'oscurità. Poi entrò.

Il soggiorno della baracca era quasi vuoto. Il pavimento era di legno grezzo. Non c'erano decorazioni sulle pareti. Da un lato c'era un tavolino rotondo circondato da sedie di plastica bianca.

Al centro della stanza c'era una poltrona con accanto un tavolino da gioco. Lì Premo aveva lasciato il suo drink: un bicchiere mezzo pieno di rum Bacardi, liscio. Anche la sedia era rivestita di lino. Sembrava sempre leggermente bagnata per via dell'umidità. Premo si sedette. Il suo nascondiglio, El Yunque, era uno dei luoghi più umidi della Terra.

Di fronte a lui, vicino alla porta, c'erano due giovani, entrambi sulla ventina. Erano affiancati dalle guardie del corpo di Premo. Le guardie del corpo erano entrambe grosse e immensamente forti. Avevano gli occhi vuoti e le facce inespressive dei gangster. Questi erano gli uomini con cui Premo preferiva lavorare: potevi picchiarli a morte per convincerli a rivelare un segreto, ma non avrebbero mai ceduto. Non ti avrebbero mai dato quella soddisfazione.

I giovani erano nervosi. Forse erano nervosi per quello che avevano appena fatto. Forse erano nervosi per gli uomini che si profilavano dietro di loro.

"Come è andata?", disse Premo, e solo dopo aver pronunciato le parole si rese conto di quanto fosse nervoso lui stesso. Questa era la notte più importante della sua vita e l'aveva affidata a quei due ragazzi.

Eduardo, il più grande dei due, annuì. Era il leader di quella squadra di due uomini, e di gran lunga più saldo e sicuro di sé. Era un bel ragazzo, somigliava vagamente a Ricky Martin e usava il suo aspetto per convincere la gente a fidarsi di lui. Donne, superiori, guardie, lo stesso Premo.

"Bene", disse Eduardo. "È andato tutto bene".

"Tutto è andato a buon fine?"

Premo guardò Eduardo e poi il giovane Felipe. Entrambi annuirono. Gli occhi marroni di Felipe erano grandi e rotondi. Erano gli occhi della paura. Gli occhi di un cervo appena prima che il rimorchio del trattore lo colpisca. Non sapeva in che guaio si era cacciato, pensò Premo.

Poi Eduardo si strinse nelle spalle. “Il container è nella stiva. Da lì? Chissà? E come ho sempre detto, non c'è garanzia che non lo ispezioneranno di nuovo. È la massima sicurezza al mondo. È una procedura operativa standard controllare più e più volte, specialmente quando hai a che fare con…"

Premo alzò una mano. "Non lo ispezioneranno di nuovo".

"Come lo sai?" Disse Eduardo.

"Querido", disse Premo, nel senso di "mio caro", come se parlasse a un bambino, "non devo spiegarti proprio tutto. Ci sono alcune cose che è meglio non sapere".

"La cosa migliore è non sapere nulla", replicò Eduardo.

Premo alzò le spalle. Non si sarebbe sbilanciato in ogni caso. "Può darsi".

"Come possiamo farcela, Premo?" Disse Eduardo. “Queste persone non credono a nulla in cui crediamo noi. Sono fanatici".

"Anche noi siamo fanatici, a modo nostro".

Eduardo scosse la testa. “Non come loro. Loro sono terroristi".

Adesso viene fuori.

Premo non era mai stato sicuro di Eduardo. Era evidente che avesse affidato all'uomo un'enorme responsabilità.

"Hai fatto la tua parte?" Disse Premo. "Esattamente ciò che ti avevo detto di fare?"

Eduardo rimase impassibile. “Certo”.

Premo guardò Felipe. Felipe annuì.

Premo annuì a sua volta. "Allora va tutto bene".

"Non va tutto bene!" Disse Eduardo. “Ho fatto quello che mi hai chiesto, ma già me ne pento. Queste persone sono pazze!"

"La politica a volte ti porta strani alleati", disse Premo.

"In che modo questo aiuterà la causa dell'indipendenza?" Disse Eduardo. “Dopo questo gli Americani ci faranno solo altro male. Non ci lasceranno mai andare".

"Ti sbagli", disse Premo. “So cosa faranno. Abbandoneranno questo posto. E ci lasceranno in pace". Poi alzò le spalle, e aggiunse. "E se non sarà così, almeno avremo rivendicato in minima parte cento anni di schiavitù. Avranno imparato che non ci prostriamo ai loro piedi".

"Penso che dovremmo annullare il piano", disse Eduardo.

"Querido, è troppo tardi".

Eduardo scosse la testa. "Non è troppo tardi. Abbiamo fatto questa cosa e possiamo annullarla. Basta una chiamata anonima. Troveranno il container".

Premo sorrise. “Saprebbero subito chi è stato. Verreste entrambi arrestati. Eduardo, non è possibile annullare ciò che è stato fatto. Abbiamo stipulato un accordo con persone molto pericolose. Questo patto darà frutti nel corso di molti anni. Ma se facciamo quello che dici, lo vedranno come un tradimento. Ci toglieranno la vita".

“Gli americani troveranno comunque il container! Verranno, con i loro protocolli. Cercheranno più e più volte".

"Verranno distratti", disse Premo. "Se ne andranno in fretta".

"Distratti da cosa?"

“Come dicevo, non devi essere al corrente di ogni cosa. È meglio così".

"Gli americani troveranno il container", disse Eduardo. “O forse no. Ma cosa pensi che faranno i tuoi nuovi amici? Pensi che onoreranno il loro accordo? No! Dopo che tutto questo sarà finito, ci daranno la caccia e ci uccideranno comunque come cani. A loro non importa della causa di Porto Rico. A loro non importa nulla".

Eduardo stava per essere assalito dal panico. Premo l'aveva previsto. Eduardo aveva svolto il suo lavoro, aveva mantenuto i nervi saldi a lungo, e ora stava scaricando la tensione. Il problema era che quando un uomo perdeva il controllo, non era detto che riuscisse a tornare in sé. Eduardo poteva facilmente diventare un coglione ubriaco, che cercava di raccontare a chiunque volesse ascoltare la cosa terribile che aveva fatto, con la consapevolezza che non fosse possibile tornare indietro.

Dopo gli eventi dell'indomani, sarebbe certamente diventato così. Eduardo era un vicolo cieco che doveva essere chiuso al più presto.

"Abbiamo sbagliato! È stata un'idea terribile! Porterà sciagure su quest'isola. Dobbiamo fare qualcosa".

Premo lanciò un'occhiata alle guardie. Erano uomini grandi, placidi, affidabili. Erano nel movimento da molto tempo. Entrambi erano partiti e si erano formati con le FARC colombiane. Combattimenti nella giungla, fabbricazione di bombe, combattimenti ravvicinati, sorveglianza… omicidi.

Questi uomini non avrebbero mai perso il controllo come Eduardo. Sarebbero stati candidati molto migliori per il lavoro in aeroporto, ma ovviamente entrambi avevano precedenti penali. Non avrebbero mai potuto unirsi alla Guardia Nazionale Aerea e, anche se lo avessero fatto, non sarebbero mai arrivati a meno di un miglio dall'aereo su cui Eduardo e Felipe avevano imbarcato il loro carico quella sera.

Loro seppero cosa fare senza che Premo dovesse dire una parola. Semplicemente annuì e spostò leggermente gli occhi.

Gli uomini entrarono all'improvviso. Uno aveva una garrota: due piccoli blocchi di legno legati da una corda. La fece scivolare intorno al collo di Eduardo, incrociò le braccia e strinse forte. L'altro afferrò le braccia di Eduardo, le strinse dietro la sua schiena lo tenne fermo. Gli occhi di Eduardo si spalancarono. Il suo viso divenne rosso vivo, e poi ancora più scuro, violaceo.

Boccheggiò. Gorgogliò.

"Querido mío", disse Premo. “Noi faremo qualcosa. Qualcosa di davvero straordinario".

Felipe, di gran lunga l'uomo più giovane nella stanza, si mosse come se anche lui volesse fare qualcosa.

"Felipe!" Disse Premo.

Felipe lo guardò fisso con i suoi grandi occhi spalancati.

 

Premo scosse la testa e agitò l'indice.

"Stai molto attento. Meglio non muovere un muscolo in questo momento".

La lotta finì rapidamente. Eduardo morì in trenta secondi, forse un minuto. Non appena spirò, i due uomini lo portarono via dalla casa. Stava piovendo. Forse avrebbero gettato il corpo nel burrone. Forse avrebbero fatto altro. Erano uomini esperti e professionali.

Nel fitto e umido sottobosco della giungla nessuno avrebbe trovato Eduardo. E la natura avrebbe fatto sparire rapidamente il suo cadavere.

Premo e Felipe erano soli nella stanza.

"Hai preoccupazioni simili al tuo amigo?" Chiese Premo.

La pioggia batteva sul tetto.

Felipe scosse la testa.

"Dillo".

"No", disse Felipe. "Sto bene. Tranquillo. Sono a posto con la coscienza. Credo che abbiamo fatto la cosa giusta".

Premo annuì. "Ottimo. Preparati. Il tuo volo per New York parte alle sette del mattino. Vivrai a Brooklyn con una nuova identità. Sarà una nuova vita, vivrai come se tutto ciò non fosse mai avvenuto. Come se non fossi mai stato qui. Non racconterai mai niente di tutto questo a nessuno. Noi avremo sempre un occhio su di te. Un giorno, tra anni, qualcuno ti contatterà. Allora saprai che è sicuro tornare a Puerto Rico".

Guardò il ragazzo dritto negli occhi. "Hai capito?"

Felipe annuì. "Non dirò mai una parola".

Le guardie erano già tornate.

“Questi uomini ti porteranno a San Juan. Raccogli le tue cose".

"Gracias, Premo", disse Felipe. Poi annuì e lasciò la stanza.

Premo guardò i suoi uomini. Indicò con la testa il punto in cui si era appena fermato il giovane Felipe. Poi alzò le sopracciglia.

Gli uomini annuirono.

Felipe non sarebbe andato a New York. Non sarebbe nemmeno andato a San Juan.

CAPITOLO SEI

15 ottobre

Ore 10:45 fuso orario dell’Atlantico (ore 10:45 fuso orario della Costa Orientale)

Calle San Francisco

San Juan Viejo

San Juan, Puerto Rico

"Come sono andato?" Disse Clement Dixon.

Era seduto di fronte alla cabina passeggeri a quattro posti della limousine presidenziale di Tracey Reynolds e Margaret Morris. Le signore erano rivolte all'indietro, Dixon e il suo agente dei servizi segreti erano rivolti in avanti.

Don Morris e Luis Montcalvo, di comune accordo, avevano deciso di andare insieme all'aeroporto e risolvere le loro divergenze da uomo a uomo e in privato. Di conseguenza, Margaret aveva dovuto viaggiare con il presidente degli Stati Uniti.

Per molte persone, Dixon lo sapeva, quella sarebbe stata l'occasione della loro vita. Non era così per Margaret. Piuttosto, si trattava di qualcosa che doveva sopportare perché suo marito, Don Morris, era… Don Morris.

L'auto, affettuosamente chiamata dagli addetti ai lavori “La Bestia”, si fece strada lentamente attraverso lo stretto e affollato vicolo di Calle San Francisco nella città vecchia. Gli edifici coloniali spagnoli a due e tre piani, squisitamente restaurati, erano dipinti in azzurro pastello, arancione, giallo, verde e rosso ed erano addobbati con bandiere rosse, bianche e blu portoricane e americane.

La famosa strada, poco più che un vicolo per gli standard americani, venne presa d’assalto. La gente si accalcò da entrambi i lati. Le persone erano stipate sui balconi decorati appena sopra la strada. La folla veniva trattenuta dalle cordate della polizia, ma ogni pochi minuti un gruppo si precipitava in strada, bloccando il percorso del corteo. Il corteo era lungo trenta macchine e ci volle un'eternità per superare pochi isolati.

La folla era vicina. Era successo ancora. Tre ragazzi adolescenti picchiarono sulla “Bestia” mentre passava loro accanto, battendone il cofano e le finestre con i palmi delle mani. Uno di loro gridò qualcosa alla finestra proprio nella direzione di Tracey. Lei sussultò.

"Non preoccuparti", disse il grosso uomo dei servizi segreti seduto accanto a Dixon. Scosse la testa e sorrise. “Non hanno idea di che macchina sia questa. Ci sono cinque auto identiche a questa nel corteo di automobili e nessuno può vedere attraverso i finestrini".

Clement Dixon non era affatto preoccupato. I servizi segreti erano impazziti per il corteo, ovviamente. A loro non piaceva niente che fosse fuori dall'ordinario, e quel corteo non rientrava certo nel protocollo standard. Ebbene, loro avevano i loro modi, lui aveva i suoi. E lui era il presidente, dopotutto. Se fosse stato un uomo del popolo, allora si sarebbe precipitato in mezzo alla gente.

Il viaggio lento non fu che un piccolo problema tecnico per lui. Lascia che le persone festeggino. Avrebbe quasi voluto poter viaggiare in un'auto all'aperto, salutando la folla, come avevano fatto i presidenti fino all'assassinio di Kennedy.

Ovviamente non era possibile. Era così impossibile, e la sicurezza si era evoluta a tal punto da quei tempi, che ormai viaggiava letteralmente in un carro armato. A Dixon piacevano le macchine e gli avevano descritto quell'auto nel momento stesso in cui aveva assunto l'incarico.

Dall'esterno sembrava una Cadillac Deville. Ma non lo era. Non era certo una macchina commerciale. Era stata costruita dalla General Motors e aveva la griglia Cadillac, il suo emblema, i fari anteriori e posteriori. Sembrava anche vagamente l'auto a cui voleva assomigliare. Ma era stata costruita sul telaio di un SUV a grandezza naturale. Aveva un enorme motore V8, il che era buono perché l'auto pesava 6 tonnellate. Le pareti e le porte erano spesse 20 cm. Le finestre erano di vetro antiproiettile spesso 13 cm. L'auto avrebbe potuto resistere a un attacco RPG.

Non aveva buchi della serratura o serrature digitali. Le porte venivano aperte a distanza dai comandi di un'auto diversa. Il serbatoio del gas era blindato e rivestito con un serbatoio esterno riempito di schiuma ignifuga. Aveva pneumatici speciali. Gli scompartimenti passeggeri, davanti e dietro, erano chiusi ermeticamente ed erano compartimenti a sé stanti. L'auto poteva anche sparare lacrimogeni e fumogeni, e c'erano fucili a pompa montati sia nell'abitacolo che davanti con i guidatori.

No. Dixon non era preoccupato per l'auto o per la folla. Gli interessava di più sapere come queste signore, specialmente Tracey, pensassero che fosse andato il discorso di quella mattina.

"Andiamo", disse. "Ditemelo senza giri di parole. Posso sopportarlo".

Tracey sembrava un po' turbata dalla folla intorno a loro. Ma faceva del suo meglio per dissimularlo. Indossava un completo classico, pantaloni blu scuro, camicia bianca e giacca sportiva scura. Poteva passare tranquillamente per uno degli agenti dei servizi segreti. Certo, a lei stava bene qualsiasi cosa. Poteva indossare sacchetti della spazzatura di plastica e certamente avrebbe destato scalpore, ma a lui non sarebbe importato.

"Mi è piaciuto molto, signor presidente", disse. “È stato incredibilmente stimolante. I portoricani sono fortunati ad averla dalla loro parte".

Dixon non avrebbe mai pronunciato quelle esatte parole ad alta voce, ma quella era ovviamente l'impressione che aveva cercato di dare. Che era dalla loro parte e che erano fortunati che lui fosse lì.

Si era permesso di tornare indietro su alcuni dei punti più delicati. Aveva presentato un veterano di combattimento portoricano di novantasette anni, che aveva combattuto sia nella seconda guerra mondiale che in Corea. Aveva parlato della spinta di Porto Rico verso l'efficienza energetica e del lavoro incredibile che l'isola aveva svolto con la ristrutturazione della Vecchia San Juan.

Aveva parlato brevemente della partnership che aveva posto fine al bombardamento navale di Vieques. E aveva persino accennato alla possibilità di concedere loro l'indipendenza: tutti dovevano aver intuito che quest'ultima parte era nella migliore delle ipotesi molto lontana, e nel peggiore dei casi una bugia.

"Questi sono i passi necessari affinché il Porto Rico e l'America possano costruire un nuovo futuro", aveva detto. Costruire un nuovo futuro. I giornalisti delle pubbliche relazioni avevano pensato a questo come tema della sua presidenza e, per quanto suonasse stupido, segretamente gli piaceva.

“Questo è quello che facciamo in questo paese. Costruiamo un nuovo futuro. Decennio dopo decennio, ad ogni nuova sfida, reinventiamo noi stessi. Troviamo nuovi percorsi. Andiamo avanti".

“Non c'è dubbio”, disse Margaret Morris, “che tu sia uno dei migliori oratori d'America. Tutti quegli anni alla Casa Bianca…"

"Perennemente sul podio", disse Dixon.

Lei annuì e sorrise. "E puntando il dito contro i malfattori, soprattutto alla Casa Bianca".

Dixon quasi rise. Lei gli piaceva. Lanciava piccole battute sarcastiche al presidente, mentre si dirigevano insieme all'aeroporto. Era una donna adorabile, ben vestita con un tailleur blu acceso, di una tonalità adatta ad attirare l'attenzione ma al contempo sufficientemente garbata da non rubare la scena. Dixon le avrebbe dato circa sessant'anni. Lei faceva questo gioco da molto tempo. Probabilmente non condivideva nemmeno le sue idee politiche.

Lui annuì. "Sì. Io sono così. Tantissima pratica, decenni di pratica".

Poi lanciò un'occhiata a Tracey. Lei lo guardava con occhi adoranti, molto diversi da come lo guardava Margaret Morris. In effetti, era molto probabile che Margaret Morris non lo approvasse.

Non l'ha capito nessuno? La loro relazione era platonica al cento per cento. Sapeva di essere troppo vecchio per lei e non avrebbe mai nemmeno pensato a lei in nessun altro modo. Ma avere una bellissima giovane donna al suo fianco, che lo guarda in quel modo…

Qual era il problema? Nessun uomo avrebbe disdegnato tali attenzioni.

"Mi è piaciuta in particolar modo la parte su Puerto Rico, anche se in fondo noi siamo degli estranei”, disse Tracey. "Ma non ci arrenderemo".

Dixon annuì. Anche a lui era piaciuta molto quella parte. Avrebbe potuto ripeterla proprio in quel momento. Aveva una sorta di memoria fotografica per i discorsi. Margaret non aveva mentito prima. Era un buon oratore, molto bravo, e lo sapeva.

"La gente era pazza di lei", disse Tracey.

Anche quello era vero. Era una folla selezionata con cura, ma gli hanno dato un caloroso benvenuto e sembravano pendere dalle sue labbra.

"Cosa ne pensa?" Disse Tracey.

Era andata bene. Il discorso era andato bene. Non c'era dubbio.

Lui annuì. "Si. È andata bene. Sono molto soddisfatto. Sono contento di tutta la visita. Il primo presidente dopo…"

"Quarantacinque anni", disse Tracey.

"Sì, il primo presidente a visitare l'isola dopo tutto questo tempo".

"È vero?" Disse Margaret.

"Sì. Questo viaggio è stato organizzato per porre fine a quel periodo. Abbiamo trattato Puerto Rico piuttosto male, temo. E una delle mie missioni come presidente sarà quella di migliorare questo rapporto".

Rifletté sul fatto che il tempo intercorso tra le due visite presidenziali era circa il doppio dell'intera durata della vita di Tracey.

“E penso che questo gesto entrerà nella storia. Penso che avremmo potuto iniziare a cancellare alcuni dei brutti ricordi e iniziare a crearne di migliori".

Guardò fuori dalla finestra la folla che passava. Le finestre non solo erano spesse, ma erano anche oscurate. Meno di mezz'ora prima, Dixon si trovava fuori. Era una giornata luminosa e soleggiata. Ma i finestrini di quella macchina davano la sensazione di un perenne crepuscolo.

Mentre Dixon guardava, un uomo tra la folla esplose.

Non c'era altro modo per spiegarlo. Dixon stava guardando l'uomo, un ragazzo giovane con una carnagione color caffè e capelli scuri. Il ragazzo indossava una giacca a vento azzurra. Era ammassato tra la folla, i suoi occhi ben chiusi, il viso in giù. Poi semplicemente…

Si disintegrò.

Ci fu un lampo di luce e anche le persone intorno esplosero con lui. Teste, braccia, torsi volanti. Sangue sparso a fiumi. Una frazione di secondo dopo, giunse il suono dell'esplosione. Fu attutita dai finestrini, ma l'onda d'urto fece comunque tremare tutto.

Qualcosa volò in aria e colpì la macchina. Dixon se ne accorse a malapena. Era rosso e lacero e avrebbe potuto essere un grosso pezzo di frutta marcia.

Poi iniziarono le urla.

Un istante dopo, l'uomo dei servizi segreti si trovava sopra di lui e lo faceva abbassare. "Via!" urlò l'uomo agli autisti. "Andiamo via! Veloci! Subito!”

"Lasciami!" disse Dixon. "Sto bene!"

Ma ovviamente l'uomo continuò a tenerlo. Le sirene stavano impazzendo all'esterno. E nei dintorni si sentiva un suono di mitragliatrici. Dixon non riuscì a vedere niente di tutto ciò. Non sembrava che l'auto si stesse muovendo, sembrava intrappolata nella folla.

 

Tracey ansimò e lanciò un piccolo stridulo strillo simile al verso di un topo. Margaret trattenne il respiro. Dixon avrebbe voluto rassicurarle in qualche modo, ma quel colosso di 100 chili gli impediva qualsiasi movimento.

"Non siete ferite", disse l'uomo. "Andrà tutto bene".

L'auto finalmente accelerò. Il motore rombò mentre l'auto prendeva velocità.

Qualcosa colpì ripetutamente la carrozzeria dell'auto.

Tracey rimase a bocca aperta. "Ci stanno sparando".

"Non possono spararci", disse l'uomo dei servizi segreti. "Quest'auto è antiproiettile".

Se così fosse, allora perché l'uomo continuava a coprire Dixon?

* * *

"Non c'è Dio al di fuori di Allah".

Il suo passaporto diceva che proveniva dalla Grecia. Diceva di chiamarsi Anthony. Era un falso impeccabile e la gente ci aveva creduto. Il personale addetto al check-in e alla sicurezza negli aeroporti ci aveva creduto. Gli impiegati dell'albergo ci avevano creduto. Tutti gli avevano creduto.

Adesso niente di tutto questo aveva importanza.

Era immerso nella folla gremita. Era una giornata calda, ma all'improvviso il sole sembrava così caldo che sembrava esplodere. Si era lasciato alle spalle edifici colorati e balconi decorati. Di fronte a lui c'era una fila di macchine nere striscianti con i finestrini scuri e le bandiere americane e portoricane drappeggiate sul parabrezza.

Era senza fiato. Non riusciva a pensare a nient'altro che a cose meccaniche che aveva memorizzato molto tempo prima.

"Oh Allah", disse, ad alta voce, il suono della sua voce soffocato dalle grida e dalle acclamazioni delle persone intorno a lui. "Concedici il bene nel mondo e il bene nell'aldilà e salvaci dal tormento del fuoco".

La gente urlava. Rideva. La folla era impazzita. Lui venne spinto più volte, di qua e di là. Si sentiva male e gli salì un improvviso senso di nausea. Tutto intorno a lui girava.

Barcollò in avanti, verso la macchina davanti a lui.

All'improvviso, alla sua destra, più indietro nel corteo di automobili, qualcosa esplose. Vide l'esplosione con la coda dell'occhio. Non aveva nemmeno bisogno di guardare. Sapeva cos'era. Era un fratello in Allah, qualcuno che non aveva mai incontrato, il primo dei mujaheddin a morire quel giorno.

Era anche il segnale per gli altri, e Anthony era uno di quelli.

La gente continuava a urlare, ma il tono era cambiato. Adesso la gente correva e urlava. Si sentì una sirena.

Le macchine erano bloccate nella folla. Erano bloccate nel loro stesso corteo.

Anthony quel giorno indossava una colorata camicia hawaiana con stampa floreale che si appoggiava al rigonfiamento intorno alla sua vita. Chi lo avesse visto avrebbe potuto pensare che fosse un po' in carne. Ma non lo era. Lui era molto magro.

Fece due passi nel traffico, quasi inciampando quando scese dal marciapiede. La gente spingeva, cercando disperatamente di scappare. Un uomo portava un bambino piccolo sulle spalle. Anthony superò l'uomo.

Era molto vicino alla macchina nera. Era grande, più grande di quanto si aspettasse.

Da qualche parte nelle vicinanze, iniziarono gli spari. I fratelli, la polizia, l'esercito, non c'era modo di dirlo adesso.

“Allahu Akbar”.

Gridò a squarciagola.

Sbirciò nel finestrino dell'auto, ma non vide niente. Forse il presidente americano era lì, forse no. C'erano comunque delle sagome. La macchina non era vuota.

Accanto a lui, sulle spalle dell'uomo, il bambino piangeva.

Anthony non esitò. Teneva in mano un accendisigari in plastica. Si allungò la mano sotto la camicia e cercò la miccia che avrebbe avviato l'esplosione. Si era esercitato molto, la trovò subito. Fece scattare l'accendino.

“Salvami!” gridò. Non sentì nemmeno la propria voce. Non sapeva a chi si stesse rivolgendo.

Un secondo dopo, si sentì avvolto dal calore. Poi arrivò il fuoco e la luce accecante.

E poi l'oscurità.

* * *

"È un buon oratore", disse Don Morris. "Glielo concedo".

Si trovava insieme a Luis Montcalvo diverse vetture davanti all'auto del presidente. Tutt'intorno a loro, le persone erano quasi schiacciate contro i finestrini, scrutavano nell'oscurità, sperando di intravedere Clement Dixon.

"Un oratore eccezionale", disse Montcalvo. "E ha detto molte cose che il popolo portoricano ha bisogno di sentire".

Don annuì. "Penso che lei abbia ragione. Il pubblico ha apprezzato il suo discorso e le persone alla parata… " Fece un gesto fuori dal finestrino e lasciò che la folla elettrizzata parlasse per lui.

"Siamo pronti per l'indipendenza", disse Montcalvo. "Siamo stati troppo a lungo in questo limbo e ciò va a sostegno di chi vuole una completa scissione".

Don lanciò un'occhiata al giovane addetto ai servizi segreti che viaggiava in macchina con loro. Il ragazzo sembrava annoiato. Ascoltava e non ascoltava allo stesso tempo. La vera azione avveniva in un'altra macchina.

Don guardò Montcalvo. Sembrava appena più vecchio dell'uomo dei servizi segreti che doveva proteggerlo. Era sicuro di sé e composto. Si era incontrato con il Presidente degli Stati Uniti e aveva ottenuto il suo rispetto. Essere governatore di Porto Rico era di più, e al contempo di meno, che essere governatore di uno stato. In un certo senso, era come essere il presidente di un piccolo paese. Montcalvo gestiva bene questa responsabilità.

"Penso che lei ed io non siamo così diversi come sembra", disse Don.

Montcalvo annuì. "Sono d'accordo. Non potrei dire altrimenti. So che lei è un grande uomo. Ma la School of the Americas … Sono sicuro che capirà che noi abbiamo una grande affinità con tutta l'America Latina. Sono nostri fratelli e sorelle".

Don avrebbe potuto crederci. “Certo”.

"Andiamo per la nostra strada", disse Montcalvo. "Possiamo perdonare, ma non possiamo …"

All'improvviso, una bomba esplose proprio fuori dalla vettura.

Il suono era attutito, ma si sentì in ogni caso.

Era successo dietro di lui, quindi non vide nulla. Ma Don aveva visto tutto. Un uomo si era avvicinato facendosi largo tra una folla compatta, e poi era esploso. Don non lo aveva visto innescare l'esplosivo, ma vide che gli occhi dell'uomo erano chiusi, probabilmente in preghiera.

Era esploso, era diventato irriconoscibile in un istante, e così le persone intorno a lui. C'era un uomo che portava un bambino sulle spalle.

Una forte spruzzata di sangue colpì il finestrino proprio dietro la testa di Montcalvo.

Poi Don si tolse la cintura di sicurezza e coprì Montcalvo schiacciandolo contro il sedile. Era puro istinto. Bussò al finestrino dell'abitacolo. Gridò all'unisono con il giovane agente dei servizi segreti dietro di lui.

"Andiamo via! Veloci! Subito!”

L'auto si fece strada tra la folla. Tutt'intorno a loro, la gente gridava, sconvolta, premendo i volti insanguinati contro la finestra. Si udirono colpi di arma da fuoco.

Il primo pensiero di Don fu per Margaret, nell'auto del presidente. E non c'era niente che potesse fare per lei. Quelle macchine erano come fortezze mobili, lo sapeva. La cosa più pericolosa era venire intrappolati nella folla e non riuscire più a muoversi. Se la vita di Margaret era in pericolo, era a causa di questo ingorgo.

Premette il corpo di Montcalvo in modo delicato ma risoluto al tempo stesso.

“Non si alzi, figliolo. Stia giù".

Si voltò a guardare l'uomo dei servizi segreti.

“Fai muovere questa macchina. SUBITO".

All'improvviso, come in risposta alla richiesta di Don, l'auto accelerò. Guardò attraverso il vetro fumé e attraverso il parabrezza, nella stessa direzione dell'autista. L'auto cercava di evitare la folla che si gettava in preda al panico sui marciapiedi.

L'autista fece una brusca svolta ad alta velocità e si infilò in una traversa laterale.

Di fronte a loro, una donna con in braccio un bambino piccolo si trovava sulla carreggiata. Il bambino giaceva inerme tra le sue braccia. Il viso della donna era pieno di sangue. Urlava.

Stavano per investirla.

L'autista sterzò a sinistra. L'auto si catapultò sul marciapiede, evitando la donna. Colpì il muro di un edificio azzurro di epoca coloniale e rimbalzò indietro per il colpo. Per un secondo, sembrò che l'auto si sarebbe raddrizzata, ma poi il lato del guidatore si sollevò da terra.

Don sentì la macchina capovolgersi. Conosceva bene quella sensazione.

Inizialmente era un movimento lento e poi molto, molto veloce. L'auto si capovolse e rotolò su se stessa.