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Senilità

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Al ritorno egli si rammentò che il Balli aveva da portar con sé una donna e s’affrettò di parlarne. Non parve ch’ella ne provasse dispiacere; poi però si informò con un aspetto d’indifferenza che non poteva essere simulato, se quella donna fosse molto amata dal Balli. – Non credo, – disse egli sinceramente, lieto di quell’indifferenza. – Il Balli ha un modo strano d’amare le donne; le ama molto ma tutte egualmente quando gli piacciono.

– Deve averne avute molte? – chiese essa pensierosa. E qui egli credette di dover mentire. – Non lo credo.

La sera appresso dovevano trovarsi al Giardino Pubblico in quattro. I primi sul posto furono Angiolina ed Emilio. Non era troppo gradevole d’attendere all’aperto, perché, senza che fosse piovuto, il terreno era umido per lo scirocco. Angiolina volle celare la sua impazienza sotto un aspetto di malumore, ma non le riuscì d’ingannare Emilio il quale fu preso da un intenso desiderio di conquistare quella donna ch’egli non sentiva più sua. Fu noioso invece, lo sentì ed ella non mancò di farglielo sentire anche meglio. Stringendole il braccio, egli le aveva chiesto: – Mi vuoi bene almeno quanto iersera? – Sì! – disse lei bruscamente – ma non sono mica cose che si dicano ad ogni istante.

Il Balli capitò dall’Acquedotto al braccio di una donna grande come lui. – Com’è lunga! – disse Angiolina emettendo subito su quella donna l’unico giudizio che a quella distanza se ne poteva fare.

Avvicinatosi, il Balli presentò: – Margherita! Ange! – Tentò nell’oscurità di vedere Angiolina e s’avvicinò con la faccia tanto che allungando le labbra avrebbe potuto baciarla. – Veramente Ange? – Non ancora soddisfatto, accese un cerino e illuminò con esso la rosea faccia che, seria, seria, si prestò all’operazione. Illuminata, essa aveva nell’oscurità delle trasparenze adorabili; gli occhi chiari, in cui il giallo della fiamma penetrava come nell’acqua più limpida, brillavano dolci, lieti, grandi. Senza scomporsi, il Balli illuminò col cerino la faccia di Margherita, una faccia pallida, pura, due occhioni turchini, grandi e vivaci, che toglievano la possibilità di guardare altrove, un naso aquilino e, sulla piccola testa, una grande quantità di capelli castagni. Strideva su quella faccia la contradizione fra quegli occhi arditi di monella e la serietà dei tratti di madonna sofferente. Oltre che per farsi vedere, ella approfittò della luce del cerino per guardare con curiosità Emilio; poi, visto che la fiammella non voleva ancora spegnersi, vi soffiò sopra.

– Adesso vi conoscete tutti. Quel coso lì – disse il Balli accennando ad Emilio – lo vedrai al chiaro. – Precedette la compagnia con Margherita che già s’era attaccata al suo braccio. La figura di Margherita così alta e magra, non doveva esser bella; s’accompagnava ad entrambe le espressioni della faccia di vivacità e di sofferenza. Il suo passo era malsicuro, piccolo in proporzione alla figura. Portava una giacchetta di un color rosso fiammante, ma sul suo dosso modesto, povero, un po’ curvo, perdeva ogni arditezza; pareva una uniforme vestita da un fanciullo; mentre addosso ad Angiolina il colore più smorto s’avvivava. – Peccato, – mormorò Angiolina con profondo rammarico, – quella bella testa infilzata su quella stanga.

Emilio volle dire qualche cosa. S’avvicinò al Balli e gli disse: – Soddisfattissimo degli occhi della tua signorina, vorrei sapere come ti sieno piaciuti quelli della mia.

– Gli occhi non son brutti – dichiarò il Balli – il naso però non è modellato perfettamente; la linea inferiore è poco fatta. Bisognerebbe darci ancora qualche colpo di pollice.

– Davvero! – esclamò Angiolina interdetta.

– Forse potrei ingannarmi – disse il Balli serio, serio. – E cosa che si vedrà subito, al chiaro.

Quando Angiolina si sentì abbastanza lontana dal suo terribile critico, disse con voce cattiva: – Come se la sua zoppa fosse perfetta.

Al «Mondo Nuovo» entrarono in una stanza oblunga chiusa da una parte da un tramezzo, dall’altra, verso il vasto giardino della birreria, da una vetrata. Al loro arrivo accorse il cameriere, un giovanotto dal vestito e dal fare contadineschi. Montò in piedi su una seggiola e accese due fiammelle del gas, che rischiararono scarsamente la vasta stanza; restò poi lassù a stropicciarsi gli occhi assonnati, finché Stefano non accorse a trarlo giù gridando che non gli permetteva d’addormentarsi tanto in alto. Il contadinotto, appoggiatosi allo scultore, discese dalla sedia e s’allontanò desto del tutto e di buonissimo umore.

A Margherita doleva un piede e s’era subito seduta. Il Balli le si fece d’intorno abbastanza premuroso, e voleva non facesse complimenti, si levasse lo stivale. Ma ella non volle dichiarando: – Già qualche male ci dev’essere sempre. Questa sera lo sento appena, appena.

Come era differente da Angiolina quella donna. Faceva delle dichiarazioni d’amore senza dirle, senza tradirne il proposito, affettuosa e casta, mentre l’altra, quando voleva significare la sua sensibilità, si inarcava tutta, si caricava come una macchina che per mettersi in movimento ha bisogno di una preparazione.

Ma al Balli non bastava. Aveva detto ch’ella doveva levarsi lo stivale e insistette per essere ubbidito finché ella non dichiarò che sarebbe stata pronta a levarsi anche tutt’e due gli stivali se egli avesse ordinato, ma che non le sarebbe servito a nulla non essendo quella la causa del male. Durante la serata ella fu obbligata parecchie volte a dare dei segni di sommissione perché il Balli voleva esporre il sistema che seguiva con le donne. Margherita si prestava magnificamente a quella parte; rideva molto, ma ubbidiva. Si sentiva nella sua parola una certa attitudine a pensare; ciò rendeva la sua soggezione appropriatissima quale esempio.

In principio ella cercò d’annodare il discorso con Angiolina che si provava di stare sulle punte dei piedi per vedersi in uno specchio lontano e correggersi i ricci. Le aveva raccontato dei mali che l’affliggevano al petto ed alle gambe; non si rammentava di un’epoca in cui non avesse sentito dei dolori. Sempre con gli occhi rivolti allo specchio, Angiolina disse: – Davvero? Poveretta! – Poi subito, con grande semplicità: – Io sto sempre bene. – Emilio che la conosceva, trattenne un sorriso avendo sentito in quelle parole l’indifferenza più piena per le malattie di Margherita e, immediata, intera, la soddisfazione della propria salute. La sventura altrui le faceva sentir meglio la propria fortuna.

Margherita si pose fra Stefano e Emilio; Angiolina sedette l’ultima in faccia a lei e, ancora in piedi, rivolse un’occhiata strana al Balli. Ad Emilio parve di sfida, ma lo scultore l’interpretò meglio: – Cara Angiolina, – le disse senza complimenti, – ella mi guarda così sperando ch’io trovi bello anche il suo naso, ma non serve. Il suo naso dovrebbe essere fatto così. – Segnò sul tavolo, col dito bagnato nella birra, la curva che egli voleva, una linea grossa che sarebbe stato difficile figurarsi su un naso.

Angiolina guardò quella linea come se avesse voluto apprenderla, e si toccò il naso: – Sta meglio così – disse a mezza voce come se non le fosse più importato di convincere nessuno.

– Che cattivo gusto! – esclamò il Balli non potendo però tenersi dal ridere. Si capì che da quel momento Angiolina lo divertì molto. Continuò a dirle delle cose sgradevoli ma pareva lo facesse per provocarla a difendersi. Ella stessa ci si divertiva. Nel suo occhio c’era per lo scultore la medesima benevolenza che brillava in quello di Margherita; una donna copiava l’altra, ed Emilio, dopo aver cercato invano di cacciare qualche parola nella conversazione generale, era ora intento a domandarsi perché avesse organizzata quella adunanza.

Ma il Balli non lo aveva dimenticato. Seguì il suo sistema, che pareva dovesse essere la brutalità, persino col cameriere. Lo sgridò perché non gli offriva di cena altro che vitello in tutte le salse; rassegnatosi a prenderne, gli diede i suoi ordini e quando il cameriere stava già per uscire dalla stanza, gli gridò dietro in un nuovo comico accesso d’ira ingiustificata: – Bastardo, cane! – Il cameriere si divertì a esser sgridato da lui ed eseguì tutti i suoi ordini con una premura straordinaria. Così, avendo domato tutti intorno a sé, al Balli parve d’aver dato ad Emilio una lezione in piena regola.

Ma a costui non riuscì d’applicare quei sistemi neppure nelle cose più piccole. Margherita non voleva mangiare: – Bada, disse il Balli, – è l’ultima sera che passiamo insieme; non posso soffrire le smorfie io! – Ella acconsentì che si facesse da cena anche per lei; tanto presto le venne l’appetito che ad Emilio sembrò di non avere avuto giammai da Angiolina un tale segno di affetto. Intanto anche questa, dopo lunga esitazione, aveva dichiarato di non volerne sapere di vitello

– Hai inteso, – le disse Emilio, – Stefano non può soffrire le smorfie. – Ella si strinse nelle spalle; non le importava di piacere a nessuno, e ad Emilio parve che il disprezzo fosse diretto piuttosto a lui che al Balli

– Questa cena di vitelli – disse il Balli con la bocca piena guardando in faccia gli altri tre – non è precisamente una cosa molto armonica. Voi due stonate insieme; tu nero come il carbone, ella bionda come una spiga alla fine di Giugno, sembrate messi insieme da un pittore accademico. Noi due poi si potrebbe metterci sulla tela col titolo: Granatiere con moglie ferita.

Con sentimento molto giusto, Margherita disse: – Non si va mica insieme per farsi vedere dagli altri. – Il Balli, serio e brusco anche in quell’atto affettuoso, le diede in premio un bacio sulla fronte.

Angiolina, con un pudore nuovo, s’era messa a contemplare il soffitto. – Non faccia la schizzinosa, – le disse il Balli corrucciato. – Come se voi due non faceste di peggio.

– Chi lo dice? – chiese Angiolina subito minacciosa verso Emilio

– Io no – protestò poco felicemente il Brentani.

 

– E che cosa fate insieme tutte le sere? Io non lo vedo mai dunque è con lei ch’egli passa le sue serate. Ha da capitargli anche l’amore, in quella verde età! Addio bigliardo, addio passeggiate. Io resto lì solo ad aspettarlo o bisogna m’accontenti del primo imbecille che mi viene per i versi. Ci eravamo trovati tanto bene insieme! Io, la persona più intelligente della città e lui la quinta, perché dopo di me vi sono tre posti vuoti e subito al prossimo c’è lui.

Margherita, che in seguito a quel bacio aveva riacquistata tutta la sua serenità, ebbe per Emilio un’occhiata affettuosa – Davvero! Mi parla continuamente di lei. Le vuole molto bene

Invece ad Angiolina parve che la quinta intelligenza della città fosse poca cosa, e conservò tutta la sua ammirazione per chi ne era la prima. – Emilio mi ha raccontato ch’ella canta tanto bene. Canti un po’. L’udrei tanto volentieri.

– Non mi mancherebbe altro. Dopo di cena io riposo. Ho la digestione difficile come quella di un serpente.

Margherita sola intuì lo stato d’animo di Emilio. I suoi occhi, posandosi su Angiolina, divennero serii; poi si rivolse ad Emilio, si dedicò a lui, ma per parlargli di Stefano: – Talvolta è brusco, certo, ma non sempre, e anche quando lo è non incute spavento. Si fa quello che vuole lui, perché gli si vuol bene. Poi, sempre a voce bassa, modulata dolcemente, ella disse: Un uomo che pensa è tutt’altra cosa di quelli che non pensano. – Si capiva che parlando di quegli altri, pensava a gente in cui s’era imbattuta ed egli, distratto per un istante dal suo doloroso imbarazzo, la guardò con compassione. Ella aveva ragione d’amare negli altri le qualità che le giovavano; da sola, così dolce e debole, non si sarebbe potuta difendere.

Ma il Balli si ricordò di nuovo di lui: – Come sei ammutolito! – Poi, rivolto ad Angiolina, chiese: – E sempre così nelle lunghe sere che passate insieme?

Ella che pareva dimentica dei suoi inni d’amore, disse con malumore: – E un uomo serio.

Il Balli ebbe la buona intenzione di risollevarlo: ne tessé la biografia caricandola: – Come bontà è lui il primo ed io il quinto. E il solo maschio col quale io abbia saputo andar d’accordo. E il mio alter ego, il mio altro io, pensa come me, e… è sempre del mio parere quando io subito non so essere del suo. – All’ultima frase aveva dimenticato il proposito col quale aveva cominciato a parlare e, di buon umore, schiacciava Emilio sotto il peso della propria superiorità. Quest’ultimo non seppe far altro che comporre la bocca ad un sorriso.

Poi sentì che sotto quel sorriso doveva essere ben facile d’indovinare uno sforzo e, per simulare meglio disinvoltura, volle parlare. S’era discorso, – egli non sapeva neppure da chi, – di far posare Angiolina per una figura che il Balli ideava. Egli era d’accordo: – Si tratta già di copiare la sola testa – disse ad Angiolina come se non avesse saputo che ella avrebbe accordato anche di più. Ma ella, senza interpellarlo, mentre egli era stato distratto dai discorsi di Margherita, aveva già accettato, e, bruscamente, interruppe le parole di Emilio, che, per nulla spontanee, s’erano disposte in una perorazione fuori di luogo, esclamando: – Ma se ho già accettato.

Il Balli ringraziò e disse che ne avrebbe sicuramente approfittato, ma soltanto di là a qualche mese, perché, per il momento, era troppo occupato con altri lavori. La guardò lungamente sognando la posa in cui l’avrebbe ritratta e Angiolina divenne rossa dal piacere. Almeno Emilio avesse avuto un compagno di sofferenza. Ma no! Margherita non era affatto gelosa, e guardava Angiolina anche lei con l’occhio d’artista. Stefano ne avrebbe fatta una cosa bella, disse, e parlò con entusiasmo delle sorprese che le aveva date l’arte, quando dall’argilla docile usciva una faccia, un’espressione, la vita.

Il Balli presto si rifece brusco. – Lei si chiama Angiolina? Un vezzeggiativo con codesta statura da granatiere? Angiolona la chiamerò io, anzi Giolona. – E da allora la chiamò sempre così con quelle vocali larghe, larghe, il disprezzo stesso fatto suono. Emilio si sorprese che il nome non dispiacesse ad Angiolina; ella non se ne adirò mai e quando il Balli glielo urlava nelle orecchie, rideva come se qualcuno le avesse fatto il solletico.

Al ritorno il Balli cantò. Aveva una voce uguale, di gran volume, ch’egli mitigava modulandola con ottimo gusto, immeritato dalle canzoncine volgari ch’egli prediligeva. Quella sera ne cantò una di cui, per la presenza delle due donne, non poteva pronunziare tutte le parole, ma seppe farle intendere lo stesso con la malizia e la sensualità della voce e dell’occhio. Angiolina ne fu incantata.

Quando si divisero, Emilio ed Angiolina stettero per un istante fermi a guardare l’altra coppia che s’allontanava. – Cieco! – disse ella. – Come fa ad amare una trave affumicata che si regge a stento?

La sera appresso ella non lasciò ad Emilio il tempo di farle i rimproveri ch’egli aveva meditati nella giornata. Aveva di nuovo da raccontargli delle cose sorprendenti. Il sarto Volpini le scriveva – ella aveva dimenticato di portar seco la lettera, – che egli non avrebbe potuto sposarla che di là ad un anno. Un suo socio glielo impediva con la minaccia di disdire la società e di lasciarlo senza capitali. – Pare che il socio voglia dargli in moglie una propria figliuola, una gobbetta che starebbe veramente bene accanto al mio futuro. Però il Volpini assicura che entro un anno egli potrà far senza del socio e del suo denaro e allora sposerà me. Capisci? – Egli non aveva capito. – C’è dell’altro – disse ella dolcemente e confusa. – Il Volpini non vuole vivere con quel desiderio per tutto un anno.

Ora egli capì. Protestò. Come si poteva sperare d’ottenere da lui un simile consenso? E d’altronde che cosa poteva obiettare? – Quali garanzie avrai della sua onestà?

– Quelle che vorrò. Egli è pronto a fare un contratto da un notaio.

Dopo una breve pausa egli chiese: – Quando?

Ella rise: – La prossima domenica non può venire. Vuole disporre tutto per il contratto che si farà di qui a quindici giorni e poi… – S’interruppe ridendo e lo abbracciò.

Sarebbe stata sua! Non era così ch’egli aveva sognato il possesso, ma l’abbracciò anche lui con effusione e volle convincersi d’essere perfettamente felice. Senza dubbio, doveva esserle grato! Ella gli voleva bene, o meglio voleva bene anche a lui. Di che si sarebbe potuto lagnare?

D’altronde era forse quella la guarigione ch’egli sperava. Insozzata dal sarto, posseduta da lui, Ange sarebbe morta , e si sarebbe divertito anche lui con Giolona, lieto com’ella voleva tutti gli uomini, indifferente e sprezzante come il Balli.

V

Come l’aveva detto il Balli, in causa d’Angiolina, fino a quella cena, i rapporti fra i due amici erano stati molto freddi. Di rado Emilio aveva cercato l’amico e non s’era accorto neppure di trascurarlo; l’altro poi se ne era offeso e aveva cessato di corrergli dietro, per quanto quell’amicizia gli fosse stata ancora sempre cara come tutte le altre sue abitudini. La cena tolse l’ostinazione a Stefano e gli diede invece il dubbio di aver offeso lui l’amico. Non gli erano sfuggite le sofferenze di Emilio, e quando si dileguò in lui il piacere di sentirsi amato da tutte e due le donne, piacere intenso, ma che durava una frazione d’ora, la coscienza lo rimorse. Per farla tacere, a mezzodì del giorno appresso corse da Emilio per tenergli un predicozzo. Un buon ragionamento avrebbe potuto curare Emilio meglio dell’esempio e se anche non fosse servito affatto, sarebbe valso almeno a fargli riacquistare la veste di amico e consigliere e togliergli l’aspetto di rivale da lui assunto per una debolezza ch’egli diceva una distrazione.

Venne ad aprirgli la signorina Amalia. Quella ragazza ispirava al Balli un sentimento poco gradevole di compassione. Egli credeva fosse permesso di vivere soltanto per godere della fama, della bellezza o della forza o almeno della ricchezza, ma altrimenti no, perché si diveniva un ingombro odioso alla vita altrui. Perché dunque viveva quella povera fanciulla? Era un errore evidente di madre natura. Talvolta, quando veniva in quella casa e non ci trovava l’amico, adduceva qualche pretesto per andarsene subito subito perché quella faccia pallida e quella voce fioca lo rattristavano profondamente. Ella, invece, che aveva voluto vivere la vita di Emilio, s’era considerata amica del Balli.

– E’ in casa Emilio? – chiese il Balli impensierito.

– S’accomodi, signor Stefano – disse Amalia lieta. – Emilio! – gridò. – C’è il signor Stefano. – Poi fece al Balli un rimprovero: – Da tanto tempo non si aveva il piacere di vederla! Anche lei ci dimentica?

Stefano si mise a ridere: – Non sono mica io che abbandono Emilio; è lui che non vuole più saperne di me.

Accompagnandolo verso la porta del tinello, ella mormorò sorridendo: – Eh, già, intendo. – Così avevano già parlato di Angiolina.

Il quartierino si componeva di tre sole stanze alle quali, dal corridoio, si accedeva per quell’unica porta. Perciò, quando capitava qualche visita nella stanza di Emilio, la sorella si trovava prigioniera nella propria ch’era l’ultima. Non era facile ch’ella si presentasse spontaneamente; era più selvaggia con gli uomini che non Emilio con le donne. Ma il Balli, dal primo giorno in cui era venuto in casa, aveva fatta eccezione alla regola. Dopo averlo sentito spesso descrivere come un uomo rude, ella lo vide per la prima volta alla morte del padre; subito si familiarizzò con lui, meravigliato della sua mitezza. Egli era un confortatore squisito. Aveva saputo tacere e parlare a tempo. Con discrezione, qua e là aveva saputo discutere e regolare l’enorme dolore della fanciulla; talvolta l’aveva aiutata, suggerendole l’espressione più precisa, più soddisfacente. Ella s’era abituata a piangere in sua compagnia, ed egli era venuto di frequente, compiacendosi di quella parte di confortatore da lui tanto bene intuita. Cessato quello stimolo, egli s’era ritirato. La vita di famiglia non gli si confaceva e poi, a lui che amava soltanto le cose belle e disoneste, l’affetto fraterno offertogli da quella brutta fanciulla doveva dar noia. Era del resto la prima volta ch’ella gli avesse mosso un rimprovero perché trovava naturale che egli si divertisse meglio altrove.

Il piccolo tinello, oltre al tavolo bellissimo di legno bruno intarsiato, l’unico mobile della casa dimostrante che in passato la famiglia era stata ricca, conteneva un sofà alquanto frusto, quattro sedie di forma simile ma non identica, una seggiola grande a braccioli ed un vecchio armadio. L’impressione di povertà che faceva la stanza era aumentata dall’accuratezza con cui quelle povere cose erano tenute.

Entrando in quel quartiere, il Balli ripensò all’ufficio di consolatore nel quale s’era trovato tanto bene; gli pareva di passare per un luogo ove avesse sofferto lui stesso, ma sofferto dolcemente assai. Gustava il ricordo della propria bontà, e pensò di aver avuto torto d’evitare per tanto tempo quel luogo ove si sentiva più che mai uomo superiore.

Emilio lo accolse con accurata gentilezza precisamente per celare il rancore che gli covava in fondo all’anima; non voleva che il Balli potesse avvedersi del male che gli aveva fatto, lo avrebbe sì, rimproverato e aspramente, ma studiando il modo di celare la propria ferita. Lo trattava proprio come un nemico. – Qual buon vento ti conduce?

– Son passato di qua e ho voluto salutare la signorina che non vedevo da tanto tempo. La trovo d’aspetto migliorato di molto – disse il Balli guardando Amalia che aveva le guance rosse, i buoni occhi grigi animatissimi

Emilio la guardò e non vide nulla. Il suo rancore divenne subito violento accorgendosi che Stefano non ricordava affatto gli avvenimenti della sera prima e poteva perciò contenersi con lui con tale disinvoltura: – Ti sei divertito molto, tu, iersera, e un po’ anche alle mie spalle.

L’altro fu stupito del risentimento manifestatosi evidente a lui più che per altro perché quelle parole erano fuori di proposito, in presenza di Amalia. Se ne sorprese. Egli non aveva fatto nulla che avesse potuto offendere Emilio; le sue intenzioni, anzi, erano state tali che avrebbe creduto di meritare un inno di ringraziamento. Per reagire meglio all’attacco perdette subito la coscienza del proprio torto e si sentì puro di ogni macchia. Ne parleremo poi – disse per riguardo ad Amalia. Costei se ne andò ad onta che il Balli, il quale non aveva alcuna premura di spiegarsi con Emilio, volesse trattenerla.

– Non capisco che cosa tu mi possa rimproverare

– Oh, nulla – disse Emilio che, preso di fronte, non trovò niente di meglio di quest’ironia.

Il Balli, in seguito alla convinzione della propria innocenza, fu più esplicito. Disse ch’egli era stato quale s’era proposto di essere allorché s’era offerto di dargli degli insegnamenti. Se si fosse messo anche lui a belare d’amore, allora sì che la cura sarebbe riuscita bene. Giolona doveva essere trattata come aveva fatto lui, ed egli sperava che col tempo Emilio avrebbe saputo imitarlo. Non credeva, non poteva credere che una simile donna fosse presa sul serio, e la descrisse circa con le parole stesse con cui giorni prima gliel’aveva descritta Emilio. L’aveva trovata tanto simile al ritratto che gliene era stato fatto, che gli era stato facile d’indovinarla subito, tutta.

 

Ma l’altro che sentiva ripetere le proprie parole non ne rimase affatto convinto. Rispose ch’egli faceva all’amore a quel modo e che non avrebbe saputo contenersi altrimenti perché gli pareva che la dolcezza fosse la condizione essenziale per poter godere. Ciò non significava mica ch’egli volesse prendere quella donna troppo sul serio. Le aveva forse promesso di sposarla?

Stefano rise di cuore. Emilio aveva mutato straordinariamente nelle ultime ore. Pochi giorni prima – non se ne ricordava più? – appariva talmente impensierito del proprio stato da chiedere aiuto ai passanti. – Non ho nulla in contrario che tu ti diverta, ma non mi pare che tu abbia la cera di divertirti assai. Emilio aveva infatti la cera stanca. La sua vita era stata sempre poco lieta, ma, dalla morte del padre in poi, molto tranquilla, e il suo organismo soffriva del nuovo regime.

Discreta come un’ombra, Amalia volle passare per la stanza. Emilio la fermò per far tacere Stefano, ma poi i due uomini non seppero subito abbandonare il discorso incominciato. Scherzosamente il Balli disse che la sceglieva per arbitra in una questione ch’ella non doveva conoscere. Fra loro due, vecchi amici, sorgeva una disputa. Il meglio che si potesse fare era di risolverla alla cieca, fidandosi in un giudizio di Dio che per quei casi doveva essere stato inventato.

Ma il giudizio di Dio non poteva più essere cieco perché Amalia aveva già capito di che si trattasse. Ebbe un’occhiata di riconoscenza per il Balli, un’espressione intensa che non si sarebbe creduta possibile in quei piccoli occhi grigi. Ella trovava finalmente un alleato, e l’amarezza che da tanto tempo le pesava sul cuore, si risolse in una grande speranza. Fu sincera: – Ho già capito di che cosa si tratti. Ella ha tanto ragione – il suono della voce invece che dare ragione chiedeva soccorso – basta vederlo sempre distratto e triste, stampata in faccia la fretta di abbandonare questa casa in cui mi lascia tanto sola.

Emilio l’ascoltava inquieto temendo che quelle lagnanze non degenerassero, come sempre, in pianti e singhiozzi. Invece, parlando al Balli del proprio grande dolore, ella restò calma e sorridente.

Il Balli, che nel dolore di Amalia non scorgeva altro che un alleato nel suo litigio con Emilio, ne accompagnava le parole con gesti di rimprovero rivolti all’amico. Ma le parole d’Amalia non s’accompagnarono più a quei gesti. Ridendo lieta, ella raccontò: giorni prima era stata al passeggio con Emilio e aveva potuto osservare ch’egli si faceva inquieto quando vedeva in lontananza delle figure femminili di una certa statura e di un certo colore, alte alte, bionde bionde. – Ho visto bene? – e rise, lieta che il Balli assentisse. – Tanto lunga, tanto bionda? – Non v’era niente di offensivo per Emilio in questa derisione. Ella era andata ad appoggiarsi a lui e gli teneva la bianca mano sulla testa, fraternamente.

Il Balli confermò: – Lunga come un soldato del re di Prussia, bionda tanto che può dirsi incolore.

Emilio rise, ma era ancora sempre col pensiero alla sua gelosia: -Basterebbe esser sicuro che non piaccia a te.

– E’ geloso di me, capisce, del suo miglior amico! – urlò il Balli indignato.

– Si può capire – disse Amalia mitemente e quasi pregando il Balli di usar indulgenza con l’amico.

– Non si capisce! – disse Stefano protestando. – Come può dire che si capisca una simile infamia?

Ella non rispose, ma restò della propria opinione con l’aspetto sicuro della persona che sa quello che si dice. Credeva di aver pensato intensamente, e perciò di aver intuito lo stato d’animo del disgraziato fratello; lo aveva percepito invece nel proprio sentimento. Ella era rossa, rossa. Certi accenti di quel colloquio echeggiarono nell’anima sua come il suono delle campane nel deserto; lungi, lungi, percorsero spazi vuoti enormi, li misurarono, riempiendoli improvvisamente tutti, rendendoli sensibili, distribuendovi abbondantemente gioia e dolore. Lungamente ella tacque. Dimenticò che s’era parlato del fratello e pensò a se stessa. Oh, cosa strana, meravigliosa! Ella aveva parlato altre volte d’amore, ma altrimenti, senz’indulgenza, perché non si doveva. Come aveva preso sul serio quelimperativo che le era stato gridato nelle orecchie sin dall’infanzia. Aveva odiato, disprezzato coloro che non avevano obbedito e in se stessa aveva soffocato qualunque tentativo di ribellione. Era stata truffata! Il Balli era la virtù e la forza, il Balli che dell’amore parlava tanto serenamente, dell’amore che per lui non era stato mai un peccato. Quanto doveva aver amato! Con la voce dolce e con quegli occhi azzurri, sorridenti, egli amava sempre tutto e tutti, anche lei.

Stefano restò a pranzo. Un po’ turbata, Amalia aveva annunziato che ci sarebbe stato poco da mangiare, ma il Balli ebbe anzi la sorpresa di trovare che in quella casa si mangiava molto bene. Da anni Amalia passava una buona parte della sua giornata al focolare e s’era fatta una buona cuciniera quale occorreva al palato delicato d’Emilio.

Stefano era rimasto volentieri. Gli pareva d’essere stato soccombente nella discussione con Emilio e gli restava accanto in attesa della rivincita, soddisfatto che Amalia gli desse ragione, lo scusasse e appoggiasse, tutta sua.

Per lui e per Amalia quel pranzo fu lietissimo. Egli fu ciarliero. Raccontò della sua prima gioventù ricca di avventure sorprendenti. Quando la penuria che lo costringeva ad aiutarsi con espedienti più o meno delicati, ma sempre allegri, minacciava di farsi miseria, era capitato sempre il soccorso. Raccontò in tutt’i dettagli un’avventura che lo aveva salvato dalla fame facendogli guadagnare una mancia per un cane trovato.

E sempre così: terminati gli studi, girovagava per Milano in procinto d’accettare il posto d’ispettore offertogli in un’azienda commerciale. Come scultore era difficile d’incominciare la carriera; subito, agli esordii, sarebbe morto di fame. Passando un giorno dinanzi ad un palazzo nel quale erano esposte le opere di un artista morto da poco, egli vi andò per dare l’ultimo addio alla scultura. Vi trovò un amico e in due si misero a demolire senza pietà le opere esposte. Con l’amarezza che gli derivava dalla sua posizione disperata, il Balli trovava tutto mediocre, insignificante. Parlava ad alta voce, con grande calore; quella critica doveva essere l’ultima sua opera di artista. Nell’ultima stanza, dinanzi al lavoro che il defunto maestro non aveva potuto finire per la malattia da cui era stato colto, il Balli si fermò meravigliato di non poter finire la sua critica sul tono su cui l’aveva tenuta sino allora. Quel gesso rappresentava una testa di donna dal profilo energico, dalle linee decise rudemente sbozzate, eppure significanti fortemente dolore e pensiero. Il Balli si commosse rumorosamente. Scopriva che nel defunto scultore l’artista era esistito fino all’abbozzo e che l’accademico era sempre intervenuto a distruggere l’artista, dimenticando le prime impressioni, il primo sentimento per non ricordare che dei dogmi impersonali: i pregiudizi dell’arte. – Sì, è vero! – disse un vecchietto occhialuto che gli stava accanto, e poggiò quasi la punta del naso sul bozzetto. Il Balli sempre più s’accanì nella sua ammirazione ed ebbe delle parole commoventi per quell’artista ch’era morto vecchio portando il proprio segreto nella tomba, meno una volta sola in cui precisamente la morte non gli aveva concesso di celarlo.