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La coscienza di Zeno

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Quando il treno in punto a mezzodì entrò in stazione, egli ci precedette per raggiungere la moglie che ne scendeva. La prese fra le braccia e la baciò affettuosamente. Io, che gli vedevo il dorso piegato per arrivare a baciare la moglie più piccola di lui, pensai: «Un bravo attore!». Poi prese Ada per mano e la condusse a noi:

– Eccola riconquistata al nostro affetto!

Allora si rivelò quale era, cioè falso e simulatore, perché se egli avesse guardata meglio in faccia la povera donna, si sarebbe accorto che invece che al nostro affetto essa veniva consegnata alla nostra indifferenza. La faccia di Ada era male costruita perché aveva riconquistate delle guancie ma fuori di posto come se la carne, quando ritornò, avesse dimenticato dove apparteneva e si fosse poggiata troppo in basso. Avevano perciò l’aspetto di gonfiezze anziché di guancie. E l’occhio era ritornato nell’orbita, ma nessuno aveva saputo riparare i danni ch’esso aveva prodotto uscendone. Aveva spostate o distrutte delle linee precise e importanti. Quando ci congedammo fuori della stazione, al sole invernale abbacinante vidi che tutto il colorito di quella faccia non era più quello che io avevo tanto amato. Era impallidito e sulle parti carnose si arrossava per chiazzette rosse. Pareva che la salute non appartenesse più a quella faccia e si fosse riusciti di fingervela.

Raccontai subito ad Augusta che Ada era bellissima proprio come era stata da fanciulla ed essa ne fu beata. Poi, dopo di averla vista, a mia sorpresa essa confermò più volte come se fossero state evidenti verità le mie pietose bugie. Essa diceva:

– È bella com’era da fanciulla e come lo sarà mia figlia!

Si vede che l’occhio di una sorella non è molto acuto.

Per lungo tempo non rividi Ada. Essa aveva troppi figliuoli e così pure noi. Tuttavia Ada e Augusta facevano in modo di trovarsi insieme varie volte alla settimana, ma sempre in ore in cui io ero fuori di casa.

Si approssimava l’epoca del bilancio ed io avevo molto da fare. Fu anzi quella l’epoca della mia vita in cui lavorai di più. Qualche giorno restai a tavolino persino per dieci ore. Guido m’aveva offerto di farmi assistere da un contabile, ma io non ne volli sapere. Avevo assunto un incarico e dovevo corrispondervi. Intendevo compensare Guido di quella mia funesta assenza di un mese, e mi piaceva anche dimostrare a Carmen la mia diligenza, che non poteva essere ispirata da altro che dal mio affetto per Guido.

Ma come procedetti nel regolare i conti, incominciai a scoprire la grossa perdita in cui eravamo incorsi in quel primo anno di esercizio. Impensierito ne dissi a quattr’occhi qualche cosa a Guido, ma lui, che s’apprestava a partire per la caccia, non volle starmi a sentire:

– Vedrai che non è tanto grave come ti sembra eppoi l’anno non è ancora finito.

Infatti mancavano ancora otto giorni interi a capo d’anno.

Allora mi confidai ad Augusta. Dapprima essa vide in quella faccenda solo il danno che ne avrebbe potuto derivare a me. Le donne sono sempre fatte così, ma Augusta era straordinaria persino fra le donne quando qui si doleva del proprio danno. Non avrei finito anch’io – essa domandava – con l’essere ritenuto un po’ responsabile delle perdite subite da Guido? Voleva si consultasse subito un avvocato. Bisognava intanto staccarsi da Guido e cessare dal frequentare quell’ufficio.

Non mi fu facile di convincerla ch’io non potevo essere tenuto responsabile di niente non essendo io altra cosa che un impiegato di Guido. Essa sosteneva che chi non ha un emolumento fisso non possa essere considerato quale un impiegato, ma qualche cosa di simile ad un padrone. Quando fu ben convinta, naturalmente restò della sua opinione perché allora scoprì che non avrei perduto niente se avessi cessato di frequentare quell’ufficio dove sicuramente avrei finito col diffamarmi commercialmente. Diamine: la mia fama commerciale! Fui anch’io d’accordo ch’era importante di salvarla e, per quanto essa avesse avuto torto negli argomenti, si conchiuse che dovevo fare com’ella voleva. Consentì ch’io terminassi il bilancio poiché l’avevo iniziato, ma poi avrei dovuto trovare il modo di ritornare al mio studiolo nel quale non si guadagnavano dei denari, ma nemmeno se ne perdevano.

Feci però allora una curiosa esperienza su me stesso. Io non fui capace di abbandonare quella mia attività per quanto lo avessi deciso. Ne fui stupito! Per intendere bene le cose, occorre lavorare di immagini. Ricordai allora che una volta in Inghilterra la condanna ai lavori forzati veniva applicata appendendo il condannato al disopra di una ruota azionata a forza d’acqua, obbligando così la vittima a muovere in un certo ritmo le gambe che altrimenti gli sarebbero state sfracellate. Quando si lavora si ha sempre il senso di una costrizione di quel genere. È vero che quando non si lavora la posizione è la stessa e credo giusto di asserire che io e l’Olivi fummo sempre ugualmente appesi; soltanto che io lo fui in modo da non dover movere le gambe. La nostra posizione dava bensì un risultato differente, ma ora so con certezza ch’esso non legittimava né un biasimo né una lode. Insomma dipende dal caso se si viene attaccati ad una ruota mobile o ad una immobile. Staccarsene è sempre difficile.

Per varii giorni, dopo chiuso il bilancio, continuai ad andare all’ufficio pur avendo deciso di non andarci affatto. Uscivo di casa incerto; incerto prendevo una direzione ch’era quasi sempre quella dell’ufficio e, come procedevo, tale direzione si precisava finché non mi trovavo seduto sulla solita sedia in faccia a Guido. Per fortuna a un dato momento fui pregato di non lasciare il mio posto ed io subito vi accondiscesi visto che nel frattempo m’ero accorto d’esservi inchiodato.

Per il quindici di Gennaio il mio bilancio era chiuso. Un vero disastro! Chiudevamo con la perdita di metà del capitale. Guido non avrebbe voluto farlo vedere al giovine Olivi temendone qualche indiscrezione, ma io insistetti nella speranza che costui, con la sua grande pratica, vi avesse trovato qualche errore tale da mutare tutta la posizione. Poteva esserci qualche importo spostato dal dare, ove apparteneva, all’avere, e con una rettifica si sarebbe arrivati ad una differenza importante. Sorridendo, l’Olivi promise a Guido la massima discrezione e lavorò poi con me per una giornata intera. Disgraziatamente non trovò alcun errore. Devo dire che io da quella revisione fatta in due, appresi molto e che oramai saprei affrontare e chiudere dei bilanci anche più importanti di quello.

– E che cosa farete ora? – domandò l’occhialuto giovinotto prima di andarsene. Io sapevo già quello ch’egli avrebbe suggerito. Mio padre, che spesso mi aveva parlato di commercio nella mia infanzia, me l’aveva già insegnato. Secondo le leggi vigenti, data la perdita di metà del capitale, noi si avrebbe dovuto liquidare la ditta e magari ristabilirla subito su nuove basi. Lasciai ch’egli mi ripetesse il consiglio. Aggiunse:

– Si tratta di una formalità. – Poi, sorridendo:

– Può costare caro il non attenervisi!

Alla sera anche Guido si mise a rivedere il bilancio cui non sapeva adattarsi ancora. Lo fece senz’alcun metodo, verificando questo o quell’importo a casaccio. Volli interrompere quel lavoro inutile e gli comunicai il consiglio dell’Olivi di liquidare subito, ma pro forma, la gestione.

Fino ad allora Guido aveva avuto la faccia contratta dallo sforzo di trovare in quei conti l’errore liberatore: un cipiglio complicato dalla contrazione di chi ha in bocca un sapore disgustoso. Alla mia comunicazione alzò la faccia che si spianò in uno sforzo d’attenzione. Non comprese subito, ma quando capì si mise subito a ridere di cuore. Io interpretai l’espressione della sua faccia così: aspra, acida finché si trovava di fronte a quelle cifre che non si potevano alterare; lieta e risoluta quando il doloroso problema fu spinto in disparte da una proposta che gli dava aggio di riavere il sentimento di padrone e arbitro.

Non comprendeva. Gli pareva il consiglio di un nemico. Gli spiegai che il consiglio dell’Olivi aveva il suo valore specialmente per il pericolo, che incombeva in modo evidente sulla ditta, di perdere degli altri denari e fallire. Un’eventuale bancarotta sarebbe stata colposa se dopo questo bilancio, oramai consegnato nei nostri libri, non si fossero prese le misure consigliate dall’Olivi. E aggiunsi:

– La pena comminata dalle nostre leggi per il fallimento colposo è il carcere!

La faccia di Guido si coperse di tanto rosso che temetti egli fosse minacciato da una congestione cerebrale. Urlò:

– In questo caso l’Olivi non ha bisogno di darmi dei consigli! Se mai ciò dovesse avverarsi saprei risolvere da solo!

La sua decisione m’impose ed ebbi il sentimento di trovarmi di fronte a persona perfettamente conscia della propria responsabilità. Abbassai il tono della mia voce. Mi buttai poi tutto dalla sua parte e, dimenticando di aver già presentato il consiglio dell’Olivi come degno di esser preso in considerazione, gli dissi:

– È quello che obiettai anch’io all’Olivi. La responsabilità è tua e noi non ci entriamo quando tu decidi qualche cosa circa il destino della ditta che appartiene a te ed a tuo padre.

Veramente io questo l’avevo detto a mia moglie e non all’Olivi, ma insomma era vero che a qualcuno l’avevo detto. Ora, dopo aver sentita la virile dichiarazione di Guido, sarei stato anche capace di dirlo all’Olivi, perché la decisione e il coraggio m’hanno sempre conquistato. Se amavo già tanto anche la sola disinvoltura che può risultare da quelle qualità, ma anche da altre inferiori di molto.

Poiché volevo riferire tutte le sue parole ad Augusta per tranquillarla, insistetti:

– Tu sai che di me, e probabilmente a ragione, si dice che io non abbia alcun talento per il commercio. Io posso eseguire quello che tu mi ordini, ma non posso mica assumermi una responsabilità per quello che fai tu.

 

Egli assentì vivamente. Si sentiva tanto bene nella parte che io gli attribuivo, da dimenticare il suo dolore per il cattivo bilancio. Dichiarò:

– Io sono il solo responsabile. Tutto porta il mio nome ed io non ammetterei neppure che altri accanto a me volesse addossarsi delle responsabilità.

Ciò andava benissimo per essere riferito ad Augusta, ma molto di più di quanto io avevo domandato. E bisognava vedere l’aspetto ch’egli assumeva facendo quella dichiarazione: invece di un mezzo fallito sembrava un apostolo! S’era adagiato comodamente sul suo bilancio passivo e da lì diventava il mio padrone e signore. Questa volta come tante altre nel corso della nostra vita in comune, il mio slancio d’affetto per lui fu soffocato dalle sue espressioni rivelanti la spropositata stima ch’egli faceva di sé stesso. Egli stonava. Sì: bisogna dire proprio così; quel grande musicista stonava!

Gli domandai bruscamente:

– Vuoi che domani faccia una copia del bilancio per tuo padre?

Per un momento ero stato in procinto di fargli una dichiarazione ben più rude dicendogli che subito dopo chiuso il bilancio io mi sarei astenuto dal frequentare il suo ufficio. Non lo feci non sapendo come avrei impiegate le tante ore libere che mi sarebbero rimaste. Ma la mia domanda sostituiva quasi perfettamente la dichiarazione che m’ero rimangiata. Intanto gli avevo ricordato ch’egli in quell’ufficio non era il solo padrone.

Si dimostrò sorpreso delle mie parole perché gli parevano non conformi a quanto fino ad allora, col mio evidente consenso, s’era parlato e, col tono di prima, mi disse:

– Ti dirò io come si dovrà fare quella copia.

Protestai gridando. In tutta la mia vita non gridai tanto come con Guido perché talvolta mi sembrava sordo. Gli dichiarai che esisteva in legge anche una responsabilità del contabile ed io non ero disposto di gabellare per copie esatte dei raggruppamenti cervellotici di cifre.

Egli impallidì e riconobbe che avevo ragione, ma soggiunse ch’egli era padrone d’ordinare che non si dessero affatto degli estratti dai suoi libri. In ciò riconobbi volentieri che aveva ragione e allora, rinfrancatosi, dichiarò che a suo padre avrebbe scritto lui. Parve anzi che volesse immediatamente mettersi a scrivere, ma poi cambiò d’idea e mi propose di andar a pigliare una boccata d’aria. Volli compiacerlo. Supponevo che non avesse ancora digerito bene il bilancio e volesse moversi per cacciarlo giù.

La passeggiata mi ricordò quella della notte dopo il mio fidanzamento. Mancava la luna perché in alto c’era molta nebbia, ma giù era la stessa cosa, perché si camminava sicuri traverso un’aria limpida. Anche Guido ricordò quella sera memoranda:

– È la prima volta che camminiamo di nuovo insieme di notte. Ricordi? Tu allora mi spiegasti che anche nella luna ci si baciava come quaggiù. Adesso invece nella luna continuano il bacio eterno; ne sono sicuro ad onta che questa sera non si veda. Quaggiù, invece…

Voleva ricominciare a dir male di Ada? Della povera malata? Lo interruppi, ma mitemente, quasi associandomi a lui (non l’avevo forse accompagnato per aiutarlo a dimenticare?):

– Già! Quaggiù non si può sempre baciare! Lassù poi non c’è che l’immagine del bacio. Il bacio è soprattutto movimento.

Tentavo di allontanarmi da tutte le sue quistioni, cioè bilancio e Ada, tant’è vero che a tempo seppi eliminare una frase ch’ero stato in procinto di dire che cioè lassù il bacio non generava dei gemelli. Ma lui, per liberarsi dal bilancio, non trovava di meglio che lagnarsi delle altre sue disgrazie. Come avevo presentito, disse male di Ada. Cominciò col rimpiangere che quel suo primo anno di matrimonio fosse stato per lui tanto disastroso. Non parlava dei due gemelli ch’erano tanto cari e belli, ma della malattia di Ada. Egli pensava che la malattia la rendesse irascibile, gelosa e nello stesso tempo poco affettuosa. Terminò coll’esclamare sconsolato:

– La vita è ingiusta e dura!

A me sembrava assolutamente che mi fosse vietato di dire una sola parola che implicasse un mio giudizio fra lui e Ada. Ma mi pareva di dover pur dire qualche cosa. Egli aveva finito col parlare della vita e le aveva appioppati due predicati che non peccavano di soverchia originalità. Io scopersi il meglio proprio perché m’ero messo a fare la critica di quello ch’egli aveva detto. Tante volte si dicono delle cose seguendo il suono delle parole come s’associarono casualmente. Poi, appena, si va a vedere se quello che si disse valeva il fiato che vi si è consumato e qualche volta si scopre che la casuale associazione partorì un’idea. Dissi:

– La vita non è né brutta né bella, ma è originale!

Quando ci pensai mi parve d’aver detta una cosa importante. Designata così, la vita mi parve tanto nuova che stetti a guardarla come se l’avessi veduta per la prima volta coi suoi corpi gassosi, fluidi e solidi. Se l’avessi raccontata a qualcuno che non vi fosse stato abituato e fosse perciò privo del nostro senso comune, sarebbe rimasto senza fiato dinanzi all’enorme costruzione priva di scopo. M’avrebbe domandato: «Ma come l’avete sopportata?» E, informatosi di ogni singolo dettaglio, da quei corpi celesti appesi lassù perché si vedano ma non si tocchino, fino al mistero che circonda la morte, avrebbe certamente esclamato: «Molto originale!»

– Originale la vita! – disse Guido ridendo. – Dove l’hai letto?

Non m’importò di assicurargli che non l’avevo letto in nessun posto perché altrimenti le mie parole avrebbero avuta meno importanza per lui. Ma, più che ci pensavo, più originale trovavo la vita. E non occorreva mica venire dal di fuori per vederla messa insieme in un modo tanto bizzarro. Bastava ricordare tutto quello che noi uomini dalla vita si è aspettato, per vederla tanto strana da arrivare alla conclusione che forse l’uomo vi è stato messo dentro per errore e che non vi appartiene.

Senza esserci accordati sulla direzione della nostra passeggiata, avevamo finito come l’altra volta sull’erta di via Belvedere. Trovato il muricciuolo su cui s’era steso quella notte, Guido vi salì e vi si coricò proprio come l’altra volta. Egli canticchiava, forse sempre oppresso dai suoi pensieri, e meditava certamente sulle inesorabili cifre della sua contabilità. Io invece ricordai che in quel luogo l’avevo voluto uccidere, e confrontando i miei sentimenti di allora con quelli di adesso, ammiravo una volta di più l’incomparabile originalità della vita. Ma improvvisamente ricordai che poco prima e per una bizza di persona ambiziosa, avevo imperversato contro il povero Guido e ciò in una delle peggiori giornate della sua vita. Mi dedicai ad un’indagine: assistevo senza grande dolore alla tortura che veniva inflitta a Guido dal bilancio messo insieme da me con tanta cura e me ne venne un dubbio curioso e subito dopo un curiosissimo ricordo. Il dubbio: ero io buono o cattivo? Il ricordo, provocato improvvisamente dal dubbio che non era nuovo: mi vedevo bambino e vestito (ne sono certo) tuttavia in gonne corte, quando alzavo la mia faccia per domandare a mia madre sorridente: «Sono buono o cattivo, io?». Allora il dubbio doveva essere stato ispirato al bimbo dai tanti che l’avevano detto buono e dai tanti altri che, scherzando, l’avevano qualificato cattivo. Non era affatto da meravigliarsi che il bimbo fosse stato imbarazzato da quel dilemma. Oh incomparabile originalità della vita! Era meraviglioso che il dubbio ch’essa aveva già inflitto al bimbo in forma tanto puerile, non fosse stato sciolto dall’adulto quando aveva già varcata la metà della sua vita.

Nella notte fosca, proprio su quel posto ove io una volta avevo già voluto uccidere, quel dubbio mi angosciò, profondamente. Certamente il bimbo quando aveva sentito vagare quel dubbio nella testa da poco libera dalla cuffia, non ne aveva sofferto tanto perché ai bambini si racconta che della cattiveria si guarisce. Per liberarmi da tanta angoscia volli credere di nuovo così, e vi riuscii. Se non vi fossi riuscito avrei dovuto piangere per me, per Guido e per la tristissima nostra vita. Il proposito rinnovò l’illusione! Il proposito di mettermi accanto a Guido e di collaborare con lui allo sviluppo del suo commercio da cui dipendeva la sua e la vita dei suoi e ciò senz’alcun utile per me. Intravvidi la possibilità di correre, brigare e studiare per lui e ammisi la possibilità di divenire, per aiutarlo, un grande, un intraprendente, un geniale negoziante. Proprio così pensai in quella fosca sera di questa vita originalissima!

Guido intanto cessò di pensare al bilancio. Abbandonò il suo posto e parve rasserenato. Come se avesse tratta una conclusione da un ragionamento di cui io non sapevo niente, mi disse che al padre non avrebbe detto nulla perché altrimenti il povero vecchio avrebbe intrapreso quell’enorme viaggio dal suo sole estivo alla nostra nebbia invernale. Mi disse poi che la perdita a prima vista sembrava ingente, ma che non lo era poi tanto se non doveva sopportarla tutta da solo. Avrebbe pregata Ada di addossarsene la metà e in compenso le avrebbe concesso una parte degli utili dell’anno seguente. L’altra metà della perdita l’avrebbe sopportata lui.

Io non dissi nulla. Pensai anche che mi fosse proibito di dare dei consigli, perché altrimenti avrei finito col fare quello che assolutamente non volevo, erigendomi a giudice fra i due coniugi. Del resto in quel momento ero tanto pieno di buoni propositi che mi pareva che Ada avrebbe fatto un buon affare partecipando ad un’impresa diretta da noi.

Accompagnai Guido fino alla porta di casa sua e gli strinsi lungamente la mano per rinnovare silenziosamente il proposito di volergli bene. Poi mi studiai di dirgli qualche cosa di gentile e finii col trovare questa frase:

– Che i tuoi gemelli abbiano una buona notte e ti lascino dormire perché certamente hai bisogno di riposo.

Andando via mi morsi le labbra al rimpianto di non aver trovato di meglio. Ma se sapevo che i gemelli oramai che avevano ciascuno la loro balia dormivano a mezzo chilometro da lui e non avrebbero potuto turbargli il sonno! Ad ogni modo egli aveva capita l’intenzione dell’augurio perché l’aveva accettato riconoscente.

Giunto a casa, trovai che Augusta s’era ritirata nella stanza da letto coi bambini. Alfio era attaccato al suo petto mentre Antonia dormiva nel suo lettino volgendoci la nuca ricciuta. Dovetti spiegare la ragione del mio ritardo e perciò le raccontai anche il mezzo escogitato da Guido per liberarsi delle sue passività. Ad Augusta la proposta di Guido parve indegna:

– Al posto di Ada io rifiuterei, – esclamò con violenza per quanto a bassa voce per non spaventare il piccino.

Diretto dai miei propositi di bontà, discussi:

– Perciò, se io capitassi nelle stesse difficoltà di Guido tu non m’aiuteresti?

Essa rise:

– La cosa è ben differente! Fra noi due si vedrebbe quello che sarebbe più vantaggioso per loro! – e accennò al bambino che teneva in braccio e ad Antonia. Poi, dopo un momento di riflessione, continuò: – E se noi ora consigliassimo ad Ada di concedere il suo denaro per continuare quell’affare di cui tu fra breve non farai più parte, non saremmo poi impegnati ad indennizzarla se dovesse poi perderlo?

Era un’idea da ignorante, ma nel mio nuovo altruismo esclamai:

– E perché no?

– Ma non vedi che ne abbiamo due dei bambini cui dobbiamo pensare?

Se li vedevo! La domanda era una figura rettorica veramente vuota di senso.

– E non ne hanno anche loro due dei bambini? – domandai vittoriosamente.

Essa si mise a ridere clamorosamente facendo spaventare Alfio che lasciò di poppare per piangere subito. Essa s’occupò di lui, ma sempre ridendo, ed io accettai il suo riso come se me lo fossi conquistato col mio spirito mentre, in verità, nel momento in cui avevo fatta quella domanda, m’ero sentito movere nel petto un grande amore per i genitori di tutti i bambini e per i bambini di tutti i genitori. Avendone poi riso, di quell’affetto non restò più niente.

Ma anche il cruccio di non sapermi essenzialmente buono si mitigò. Mi pareva di aver sciolto il problema angoscioso. Non si era né buoni né cattivi come non si era tante altre cose ancora. La bontà era la luce che a sprazzi e ad istanti illuminava l’oscuro animo umano. Occorreva la fiaccola bruciante per dare la luce (nell’animo mio c’era stata e prima o poi sarebbe sicuramente anche ritornata) e l’essere pensante a quella luce poteva scegliere la direzione per moversi poi nell’oscurità. Si poteva perciò manifestarsi buoni, tanto buoni, sempre buoni, e questo era l’importante. Quando la luce sarebbe ritornata non avrebbe sorpreso e non avrebbe abbacinato. Ci avrei soffiato su per spegnerla prima, visto ch’io non ne avevo bisogno. Perché io avrei saputo conservare il proposito, cioè la direzione.

 

Il proposito di bontà è placido e pratico ed io ora ero calmo e freddo. Curioso! L’eccesso di bontà m’aveva fatto eccedere nella stima di me stesso e del mio potere. Che cosa potevo io fare per Guido? Era vero ch’io nel suo ufficio sovrastavo di tanto agli altri quanto nel mio ufficio l’Olivi padre stava al disopra di me. Ma ciò non provava molto. E per essere ben pratico: che cosa avrei io consigliato a Guido il giorno appresso? Forse una mia ispirazione? Ma se neppure al tavolo di giuoco si seguivano le ispirazioni quando si giuocava coi denari altrui! Per far vivere una casa commerciale bisogna crearle un lavoro di ogni giorno e questo si può raggiungere lavorando ogni ora attorno ad una organizzazione. Non ero io che potevo fare una cosa simile, né mi pareva giusto di sottopormi a forza di bontà alla condanna della noia a vita.

Sentivo tuttavia l’impressione fattami dal mio slancio di bontà come un impegno che avessi preso con Guido, e non potevo addormentarmi. Sospirai più volte profondamente e una volta persino gemetti, certamente nel momento in cui mi pareva di essere obbligato di legarmi all’ufficio di Guido come l’Olivi era legato al mio.

Nel dormiveglia Augusta mormorò:

– Che hai? Hai trovato di nuovo da dire con l’Olivi?

Ecco l’idea che cercavo! Io avrei consigliato Guido di prendere con sé quale direttore il giovine Olivi! Quel giovinotto tanto serio e tanto laborioso e ch’io vedevo tanto malvolentieri nei miei affari perché pareva s’apprestasse di succedere a suo padre nella loro direzione per tenermene definitivamente fuori, apparteneva evidentemente e a vantaggio di tutti, nell’ufficio di Guido. Facendogli una posizione in casa sua, Guido si sarebbe salvato e il giovine Olivi sarebbe stato più utile in quell’ufficio che non nel mio.

L’idea mi esaltò e destai Augusta per comunicargliela. Anch’essa ne fu tanto entusiasmata da destarsi del tutto. Le pareva che così io avrei più facilmente potuto levarmi dagli affari compromettenti di Guido. Mi addormentai con la coscienza tranquilla: avevo trovato il modo di salvare Guido senza condannare me; anzi tutt’altro.

Non c’è niente di più disgustoso che di vedersi respinto un consiglio ch’è stato sinceramente studiato con uno sforzo che costò persino delle ore di sonno. Da me c’era poi stato un altro sforzo: quello di spogliarmi dell’illusione di poter giovare io stesso agli affari di Guido. Uno sforzo immane. Ero dapprima arrivato ad una vera bontà, poi ad un’assoluta oggettività e mi si mandava a quel paese!

Guido rifiutò il mio consiglio addirittura con disdegno. Non credeva capace il giovine Olivi eppoi gli spiaceva il suo aspetto di giovine vecchio e più ancora gli spiacevano quei suoi occhiali tanto lucenti sulla sua scialba faccia. Gli argomenti erano veramente atti a farmi credere che di fondato non ce ne fosse che uno: il desiderio di farmi dispetto. Finì col dirmi che avrebbe accettato come capo del suo ufficio non il giovine ma il vecchio Olivi. Ma io non credevo di potergli procurare la collaborazione di questi, eppoi io non mi credevo pronto per assumere da un momento all’altro la direzione dei miei affari. Ebbi il torto di discutere e gli dissi che il vecchio Olivi valeva poco. Gli raccontai quanto denaro mi avesse costato la sua caparbietà di non aver voluto comperare a tempo quella tale frutta secca.

– Ebbene! – esclamò Guido. – Se il vecchio non vale più di così, che valore potrà avere il giovine che non è altro che un suo scolaro?

Ecco finalmente un buon argomento, e tanto più dispiacevole per me in quanto lo avevo fornito io con la mia chiacchiera imprudente.

Pochi giorni appresso, Augusta mi raccontò che Guido aveva proposto ad Ada di sopportare col suo denaro metà della perdita del bilancio. Ada vi si rifiutava dicendo ad Augusta:

– Mi tradisce e vuole anche il mio denaro!

Augusta non aveva avuto il coraggio di consigliarle di darglielo, ma assicurava che aveva fatto del suo meglio per far ricredere Ada dal suo giudizio sulla fedeltà del marito. Costei aveva risposto in modo da far ritenere ch’essa a quel proposito la sapesse più lunga di quanto noi si credesse. E Augusta con me ragionava così: – Per il marito bisogna saper portare qualunque sacrificio, ma valeva tale assioma anche per Guido?

Nei giorni seguenti il contegno di Guido si fece veramente straordinario. Veniva in ufficio di tempo in tempo e non vi restava mai per più di mezz’ora. Correva via come chi ha dimenticato il fazzoletto a casa. Seppi poi che andava a portare nuovi argomenti ad Ada che gli parevano decisivi per indurla a fare il voler suo. Aveva veramente l’aspetto di persona che ha pianto troppo o troppo gridato o che s’è addirittura battuto, e neppure in nostra presenza arrivava a domare l’emozione che gli contraeva la gola e gli faceva venire le lacrime agli occhi. Gli domandai che cosa avesse. Mi rispose con un sorriso triste, ma amichevole per dimostrarmi che non l’aveva con me. Poi si raccolse onde poter parlarmi senz’agitarsi di troppo. Infine disse poche parole: Ada lo faceva soffrire con la sua gelosia.

Egli dunque mi raccontava che discutevano le loro storie intime mentre io pur sapevo che c’era anche quella storia del «conto utili e danni» fra di loro.

Ma pareva che questo non avesse importanza. Me lo diceva lui e lo diceva anche Ada ad Augusta non parlandole d’altro che della sua gelosia. Anche la violenza di quelle discussioni, che lasciava traccie tanto profonde sulla faccia di Guido, faceva credere dicessero il vero.

Invece poi risultò che fra’ due coniugi non si parlò che della questione del denaro. Ada per superbia e per quanto si facesse dirigere dai suoi dolori passionali, non li aveva mai menzionati, e Guido, forse per la coscienza della sua colpa e per quanto sentisse che in Ada imperversasse l’ira della donna, continuò a discutere gli affari come se il resto non esistesse. Egli s’affannò sempre più a correre dietro a quei denari, mentre lei, che non era affatto toccata da quistioni d’affari, protestava contro la proposta di Guido con un solo argomento: i denari dovevano restare ai bambini. E quand’egli trovava altri argomenti, la sua pace, il vantaggio che sarebbe derivato ai bambini stessi dal suo lavoro, la sicurezza di trovarsi in regola con le prescrizioni di legge, essa lo saldava con un duro «No». Ciò esasperava Guido e – come dai bambini – anche il suo desiderio. Ma ambedue – quando ne parlavano ad altri – credevano di essere esatti asserendo di soffrire per amori e gelosie.

Fu una specie di malinteso che m’impedì d’intervenire a tempo per far cessare l’incresciosa quistione del denaro. Io potevo provare a Guido ch’essa effettivamente mancava d’importanza. Quale contabile sono un po’ tardo e non capisco le cose che quando le ho distribuite nei libri, nero sul bianco, ma mi pare che presto io abbia capito che il versamento che Guido esigeva da Ada non avrebbe mutate di molto le cose. A che serviva infatti di farsi fare un versamento di denari? La perdita così non appariva mica minore, a meno che Ada non avesse accettato di far getto del denaro in quella contabilità ciò che Guido non domandava. La legge non si sarebbe mica lasciata ingannare al trovare che, dopo di aver perduto tanto, si voleva rischiare un po’ di più attirando nell’azienda dei nuovi capitalisti.

Una mattina Guido non si fece veder in ufficio ciò che ci sorprese perché sapevamo che la sera prima non era partito per la caccia. A colazione appresi da Augusta commossa e agitata che Guido la sera prima aveva attentato alla propria vita. Oramai era fuori di pericolo. Devo confessare che la notizia, che ad Augusta sembrava tragica, a me fece rabbia.