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La coscienza di Zeno

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Una volta riconosciuto, sentii il bisogno di scusarmi:

– Le ho portato questo libro ch’io credo la interesserà. Se vuole, posso lasciarglielo e andarmene subito.

Il suono delle parole – o così mi parve – era abbastanza brusco, ma non il significato, perché in complesso la lasciavo arbitra di decidere lei se avessi dovuto andarmene o restare e tradire Augusta.

Essa subito decise, perché afferrò la mia mano per trattenermi più sicuramente e mi fece entrare. L’emozione m’oscurò la vista e ritengo sia stata provocata non tanto dal dolce contatto di quella mano, ma da quella familiarità che mi parve decidesse del mio e del destino di Augusta. Perciò credo di essere entrato con qualche riluttanza e, quando rievoco la storia del mio primo tradimento, ho il sentimento di averlo compiuto perché trascinatovi.

La faccia di Carla era veramente bella così arrossata. Fui deliziosamente sorpreso all’accorgermi che se non ero stato aspettato da lei, essa pur aveva sperata la mia visita. Essa mi disse con grande compiacenza:

– Lei sentì dunque il bisogno di rivedermi? Di rivedere la poverina che le deve tanto?

Io, certo, se avessi voluto, avrei potuto prenderla subito fra le mie braccia, ma non ci pensavo neppure. Ci pensavo tanto poco che non risposi neppure alle sue parole che mi parevano compromettenti e mi rimisi a parlare del Garcia e della necessità di quel libro per lei. Ne parlai con una furia che mi portò a qualche parola meno considerata. Garcia le avrebbe insegnato il modo di rendere le note solide come il metallo e dolci come l’aria. Le avrebbe spiegato come una nota non possa rappresentare che una linea retta e anzi un piano, ma un piano veramente levigato.

Il mio fervore sparì solo quand’essa m’interruppe per manifestarmi un suo dubbio doloroso:

– Ma dunque a lei non piace come io canto?

Fui stupito della sua domanda. Io avevo fatta una critica rude, ma non ne avevo la coscienza e protestai in piena buona fede. Protestai tanto bene che mi parve di esser ritornato, sempre parlando del solo canto, all’amore che tanto imperiosamente m’aveva trascinato in quella casa. E le mie parole furono tanto amorose che lasciarono tuttavia trasparire una parte di sincerità:

– Come può credere una cosa simile? Sarei qui se così fosse? Io sono stato su quel pianerottolo per lungo tempo a bearmi del suo canto, delizioso ed eccelso canto nella sua ingenuità. Soltanto io ritengo che alla sua perfezione occorra qualche cosa d’altro e sono venuto a portarglielo.

Quale potenza aveva tuttavia nel mio animo il pensiero di Augusta, se continuavo ostinatamente a protestare di non essere stato trascinato dal mio desiderio!

Carla stette a sentire le mie parole lusinghiere, ch’essa non era neppure al caso di analizzare. Non era molto colta, ma, con mia grande sorpresa, compresi che non mancava di buon senso. Mi raccontò ch’essa stessa aveva dei forti dubbii sul suo talento e sulla sua voce: sentiva che non faceva dei progressi. Spesso, dopo una certa quantità di ore di studio, essa si concedeva lo svago e il premio di cantare «La mia Bandiera» sperando di scoprire nella propria voce qualche nuova qualità. Ma era sempre la stessa cosa: non peggio e forse sempre abbastanza bene come le assicuravano quanti la udivano ed io anche (e qui mi mandò dai suoi begli occhi bruni un lampo mitemente interrogativo che dimostrava com’essa avesse bisogno di essere rassicurata sul senso delle mie parole che ancora le sembrava dubbio) ma un vero progresso non c’era. Il maestro diceva che in arte non c’erano progressi lenti, ma grandi salti che portavano alla meta e che un bel giorno essa si sarebbe destata grande artista.

– È una cosa lunga, però, – aggiunse guardando nel vuoto e rivedendo forse tutte le sue ore di noia e di dolore.

Si dice onesto prima di tutto quello ch’è sincero e da parte mia sarebbe stato onestissimo di consigliare alla povera fanciulla di lasciare lo studio del canto e divenire la mia amante. Ma io non ero ancora giunto tanto lontano dal Giardino Pubblico, eppoi, se non altro, non ero molto sicuro del mio giudizio nell’arte del canto. Da alcuni istanti io ero fortemente preoccupato da una sola persona: quel noioso Copler che passava ogni festa nella mia villa con me e con mia moglie. Sarebbe stato quello il momento di trovare un pretesto per pregare la fanciulla di non raccontare al Copler della mia visita. Ma non lo feci non sapendo come travestire la mia domanda e fu bene, perché pochi giorni appresso il povero mio amico ammalò e subito dopo morì.

Intanto le dissi ch’essa avrebbe trovato nel Garcia tutto quello che cercava, e per un istante solo, ma solo per un istante, essa ansiosamente aspettò dei miracoli da quel libro. Presto però, trovandosi dinanzi a tante parole, dubitò dell’efficacia della magia. Io leggevo le teorie del Garcia in italiano, poi in italiano gliele spiegavo e, quando non bastava, gliele traducevo in triestino, ma essa non sentiva moversi niente nella sua gola e una vera efficacia in quel libro essa avrebbe potuto riconoscere solo se si fosse manifestata in quel punto. Il male è che anch’io, poco dopo, ebbi la convinzione che in mano mia quel libro non valeva molto. Rivedendo per ben tre volte quelle frasi e non sapendo che farmene, mi vendicai della mia incapacità criticandole liberamente. Ecco che il Garcia perdeva il suo e il mio tempo per provare che poiché la voce umana sapeva produrre varii suoni non era giusto di considerarla quale uno strumento solo. Anche il violino allora avrebbe dovuto essere considerato quale un conglomerato di strumenti. Ebbi forse torto di comunicare a Carla tale mia critica, ma accanto ad una donna che si vuole conquistare è difficile di trattenersi dall’approfittare di un’occasione che si presenti per dimostrare la propria superiorità. Essa infatti m’ammirò, ma proprio fisicamente allontanò da sé il libro ch’era il nostro Galeotto, ma che non ci accompagnò fino alla colpa. Io ancora non mi rassegnai di rinunziarvi e lo rimandai ad altra mia visita. Quando il Copler morì non ve ne fu più di bisogno. Era rotto qualunque nesso fra quella casa e la mia e così il mio procedere non poteva essere frenato che dalla mia coscienza.

Ma intanto eravamo divenuti abbastanza intimi, di un’intimità maggiore di quanto si avrebbe potuto attendersi da quella mezz’ora di conversazione. Io credo che l’accordo in un giudizio critico unisca intimamente. La povera Carla approfittò di tale intimità per mettermi a parte delle sue tristezze. Dopo l’intervento del Copler, in quella casa si viveva modestamente ma senza grandi privazioni. Il maggior peso per le due povere donne era il pensiero del futuro. Perché il Copler portava loro a date ben precise il suo soccorso, ma non permetteva di calcolarvi con sicurezza; egli non voleva pensieri e preferiva li avessero loro. Poi non dava gratuitamente quei denari: Era il vero padrone in quella casa e intendeva di essere informato di ogni piccolezza. Guai se si permettevano una spesa non preventivamente approvata da lui! La madre di Carla, poco tempo prima, era stata indisposta e Carla, per poter accudire alle faccende domestiche, aveva trascurato per qualche giorno di cantare. Informatone dal maestro, il Copler fece una scenata e se ne andò dichiarando che allora non valeva la pena di seccare dei valentuomini per indurli a soccorrerle. Per varii giorni esse vissero nel terrore temendo di essere abbandonate al loro destino. Poi, quando ritornò, rinnovò patti e condizioni e stabilì esattamente per quante ore al giorno Carla dovesse sedere al pianoforte e quante ne potesse dedicare alla casa. Minacciò anche di venir a sorprenderle a tutte le ore del giorno.

– Certo, – concludeva la fanciulla, – egli non vuole altro che il nostro bene, ma s’arrabbia tanto per cose di nessuna importanza, che una volta o l’altra, nell’ira, finirà col gettarci sul lastrico. Ma ora che anche lei si occupa di noi, non c’è più questo pericolo, nevvero?

E di nuovo mi strinse la mano. Poiché io non risposi subito, essa temette ch’io mi sentissi solidale col Copler, e aggiunse:

– Anche il signor Copler dice che lei è tanto buono!

Questa frase voleva essere un complimento diretto a me, ma anche al Copler.

La sua figura presentatami con tanta antipatia da Carla, era nuova per me e destava proprio la mia simpatia. Avrei voluto somigliargli mentre il desiderio che mi aveva portato in quella casa me ne rendeva tanto dissimile! Era ben vero che alle due donne egli portava i denari altrui, ma dava tutta l’opera propria, una parte della propria vita. Quella rabbia, ch’egli dedicava loro, era veramente paterna. Ebbi però un dubbio: e se a tale opera fosse stato indotto dal desiderio? Senz’esitare domandai a Carla:

– Il Copler le ha mai chiesto un bacio?

– Mai! – rispose Carla con vivacità. – Quand’è soddisfatto del mio comportamento, seccamente impartisce la sua approvazione, mi stringe leggermente la mano e se ne va. Altre volte, quand’è arrabbiato, mi rifiuta anche la stretta di mano e non s’accorge nemmeno ch’io dallo spavento piango. Un bacio in quel momento sarebbe per me una liberazione.

Visto ch’io mi misi a ridere, Carla si spiegò meglio:

– Accetterei con riconoscenza il bacio di un uomo tanto vecchio cui devo tanto!

Ecco il vantaggio dei malati reali; appariscono più vecchi di quanto non sieno.

Feci un debole tentativo di somigliare al Copler. Sorridendo per non spaventare troppo la povera fanciulla, le dissi che anch’io, quando mi occupavo di qualcuno, finivo col divenire molto imperioso. In complesso anch’io trovavo che quando si studiava un’arte si dovesse farlo seriamente. Poi m’investii tanto bene della mia parte che cessai persino di sorridere. Il Copler aveva ragione d’essere severo con una giovinetta che non poteva intendere il valore del tempo: bisognava anche ricordare quante persone facevano dei sacrifici per aiutarla. Ero veramente serio e severo.

 

Venne così per me l’ora di andare a colazione e specialmente quel giorno non avrei voluto far aspettare Augusta. Porsi la mano a Carla e allora m’avvidi com’essa fosse pallida. Volli confortarla:

– Stia sicura ch’io farò sempre del mio meglio per appoggiarla presso il Copler e tutti gli altri.

Essa ringraziò, ma pareva tuttavia abbattuta. Poi seppi che vedendomi arrivare, essa subito aveva indovinata quasi la verità e aveva pensato ch’io fossi innamorato di lei e quindi salva. Poi invece – e proprio quando m’accinsi ad andarmene – essa credette che anch’io fossi innamorato solo dell’arte e del canto e che perciò se essa non avesse cantato bene e fatti dei progressi, l’avrei abbandonata.

Mi parve abbattutissima. Fui preso da compassione e, visto che non c’era altro tempo da perdere, la rassicurai col mezzo ch’essa stessa aveva designato quale il più efficace. Ero già alla porta che l’attrassi a me, spostai accuratamente col naso la grossa treccia dal suo collo cui così giunsi con le labbra e sfiorai persino coi denti. Aveva l’apparenza di uno scherzo ed anch’essa finì col riderne, ma soltanto quando io la lasciai. Fino a quel momento essa era rimasta inerte e stupita fra le mie braccia.

Mi seguì sul pianerottolo e, quando cominciai a scendere, mi domandò ridendo:

– Quando ritorna?

– Domani o forse più tardi! – risposi io già incerto. Poi più deciso: – Certamente vengo domani! – Quindi, in seguito al desiderio di non compromettermi troppo, aggiunsi: – Continueremo la lettura del Garcia.

Ella non mutò di espressione in quel breve tempo: assentì alla prima malsicura promessa, assentì riconoscente alla seconda e assentì anche al mio terzo proposito, sempre sorridendo. Le donne sanno sempre quello che vogliono. Non ci furono esitazioni né per parte di Ada che mi respinse, né dall’Augusta che mi prese, e neppure da Carla, che mi lasciò fare.

Sulla via mi trovai subito più vicino ad Augusta che non a Carla. Respirai l’aria fresca, aperta ed ebbi pieno il sentimento della mia libertà. Io non avevo fatto altro che uno scherzo che non poteva perdere tale suo carattere perché era finito su quel collo e sotto quella treccia. Infine Carla aveva accettato quel bacio come una promessa di affetto e sopra tutto di assistenza.

Quel giorno a tavola, però, cominciai veramente a soffrire. Tra me e Augusta stava la mia avventura, come una grande ombra fosca che mi pareva impossibile non fosse vista anche da lei. Mi sentivo piccolo, colpevole e malato, e sentivo il dolore al fianco come un dolore simpatico che riverberasse dalla grande ferita alla mia coscienza. Mentre distrattamente fingevo di mangiare, cercai il sollievo in un proposito ferreo: «Non la rivedrò più – pensai – e se, per riguardo, la dovrò rivedere, sarà per l’ultima volta». Non si pretendeva poi mica tanto da me: un solo sforzo, quello di non rivedere più Carla.

Augusta ridendo, mi domandò:

– Sei stato dall’Olivi che ti vedo tanto preoccupato?

Mi misi a ridere anch’io. Era un grande sollievo quello di poter parlare. Le parole non erano quelle che avrebbero potuto dare la pace intera perché per dire quelle sarebbe occorso di confessare eppoi promettere, ma, non potendo altrimenti, era già un bel sollievo di dirne delle altre. Parlai abbondantemente, sempre lieto e buono. Poi trovai ancora di meglio: parlai della piccola lavanderia ch’essa tanto desiderava e che io fino ad allora le avevo rifiutata, e le diedi subito il permesso di costruirla. Essa fu tanto commossa del mio non sollecitato permesso che si alzò e venne a darmi un bacio. Ecco un bacio ch’evidentemente cancellava quell’altro, ed io mi sentii subito meglio.

Fu così ch’ebbimo la lavanderia e ancora oggidì, quando passo dinanzi alla minuscola costruzione, ricordo che Augusta la volle e Carla la consentì.

Seguì un pomeriggio incantevole riempito dal nostro affetto. Nella solitudine la mia coscienza era più seccante. La parola e l’affetto di Augusta valevano a calmarla. Uscimmo insieme. Poi l’accompagnai da sua madre e passai anche tutta la serata con lei.

Prima di mettermi a dormire, come m’avviene di spesso, guardai lungamente mia moglie che già dormiva raccolta nella sua lieve respirazione. Anche dormendo essa era tutta ordinata, con le coperte fino al mento e i capelli non abbondanti riuniti in una breve treccia annodata alla nuca. Pensai: «Non voglio procurarle dei dolori. Mai!». Mi addormentai tranquillo. Il giorno seguente avrei chiarita la mia relazione con Carla e avrei trovato il modo di rassicurare la povera fanciulla sul suo avvenire, senza perciò essere obbligato di darle dei baci.

Ebbi un sogno bizzarro: non solo baciavo il collo di Carla, ma lo mangiavo. Era però un collo fatto in modo che le ferite ch’io le infliggevo con rabbiosa voluttà non sanguinavano, e il collo restava perciò sempre coperto dalla sua bianca pelle e inalterato nella sua forma lievemente arcuata. Carla, abbandonata fra le mie braccia, non pareva soffrisse dei miei morsi. Chi invece ne soffriva era Augusta che improvvisamente era accorsa. Per tranquillarla le dicevo: «Non lo mangerò tutto: ne lascerò un pezzo anche a te».

Il sogno ebbe l’aspetto di un incubo soltanto quando in mezzo alla notte mi destai e la mia mente snebbiata poté ricordarlo, ma non prima, perché finché durò, neppure la presenza di Augusta m’aveva levato il sentimento di soddisfazione ch’esso mi procurava.

Non appena desto, ebbi la piena coscienza della forza del mio desiderio e del pericolo ch’esso rappresentava per Augusta e anche per me. Forse nel grembo della donna che mi dormiva accanto già s’iniziava un’altra vita di cui sarei stato responsabile. Chissà quello che avrebbe preteso Carla quando fosse stata la mia amante? A me pareva desiderosa del godimento che fino ad allora le era stato conteso, e come avrei io saputo provvedere a due famiglie? Augusta domandava l’utile lavanderia, l’altra avrebbe domandata qualche altra cosa, ma non meno costosa. Rividi Carla mentre dal pianerottolo mi salutava ridendo dopo di essere stata baciata. Essa già sapeva ch’io sarei stato la sua preda. N’ebbi spavento e là, solo e nell’oscurità, non seppi trattenere un gemito.

Mia moglie, subito desta, mi domandò che cosa avessi ed io risposi con una breve parola, la prima che mi si fosse affacciata alla mente quando seppi rimettermi dallo spavento di vedermi interrogato in un momento in cui mi pareva di aver gridata una confessione:

– Penso alla vecchiaia incombente!

Ella rise e cercò di consolarmi senza perciò tagliare il sonno cui s’aggrappava. M’inviò la frase stessa che sempre mi diceva quando mi vedeva spaventato del tempo che andava via:

– Non pensarci, ora che siamo giovani… il sonno è tanto buono!

L’esortazione giovò: non ci pensai più e mi riaddormentai. La parola nella notte è come un raggio di luce. Illumina un tratto di realtà in confronto al quale sbiadiscono le costruzioni della fantasia. Perché avevo tanto da temere della povera Carla di cui ancora non ero l’amante? Era evidente che avevo fatto di tutto per spaventarmi della mia situazione. Infine, il «bébé» che avevo evocato nel grembo di Augusta finora non aveva dato altro segno di vita che la costruzione della lavanderia.

Mi alzai sempre accompagnato dai migliori propositi. Corsi al mio studio e preparai in una busta qualche poco di denaro che volevo offrire a Carla nello stesso istante in cui le avrei annunziato il mio abbandono. Però mi sarei dichiarato pronto di mandarle per posta dell’altro denaro ogni qualvolta essa me ne avesse domandato scrivendomi ad un indirizzo che le avrei fatto sapere. Proprio quando m’accingevo ad uscire, Augusta m’invitò con un dolce sorriso ad accompagnarla in casa del padre. Era arrivato da Buenos Aires il padre di Guido per assistere alle nozze, e bisognava andare a farne la conoscenza. Essa certamente si curava meno del padre di Guido che di me. Voleva rinnovare la dolcezza del giorno prima. Ma la cosa non era più la stessa: a me pareva fosse male lasciar trascorrere del tempo fra il mio buon proposito e la sua esecuzione. Intanto che noi camminavamo sulla via uno accanto all’altro e, all’apparenza, sicuri del nostro affetto, l’altra si riteneva già amata da me. Ciò era male. Sentii quella passeggiata come una vera e propria constrizione.

Trovammo Giovanni che stava realmente meglio. Solo non poteva mettere gli stivali per una certa gonfiezza ai piedi cui egli non attribuiva importanza ed io in allora neppure. Si trovava in salotto col padre di Guido cui mi presentò. Augusta ci lasciò subito per andare a raggiungere la madre e la sorella.

Il Signor Francesco Speier mi parve un uomo molto meno istruito del figlio. Era piccolo, tozzo, sulla sessantina, di poche idee e di poca vivacità, forse anche perché in seguito ad una malattia aveva l’orecchio molto indebolito. Ficcava qualche parola spagnuola nel suo italiano:

– Cada volta che vengo a Trieste…

I due vecchi parlavano di affari, e Giovanni ascoltava attentamente perché quegli affari erano molto importanti per il destino di Ada. Stetti ad ascoltare distrattamente. Sentii che il vecchio Speier aveva deciso di liquidare i suoi affari nell’Argentina e di consegnare a Guido tutti i suoi duros perché li impiegasse alla fondazione di una ditta a Trieste; poi egli sarebbe ritornato a Buenos Aires per vivere con la moglie e con la figlia con un piccolo podere che gli rimaneva. Non compresi perché raccontasse in mia presenza a Giovanni tutto ciò, né lo so neppur oggi.

A me parve che ambedue a un dato punto cessassero di parlare, guardandomi come se avessero aspettato da me un consiglio ed io, per essere gentile, osservai:

– Non dev’essere piccolo quel podere se le basta per viverci!

Giovanni urlò subito:

– Ma che cosa vai dicendo? – Lo scoppio di voce ricordava i suoi migliori tempi, ma è certo che se egli non avesse urlato tanto, il signor Francesco non avrebbe rilevata la mia osservazione. Così, invece, impallidì e disse:

– Spero bene che Guido non mancherà di pagarmi gl’interessi del mio capitale.

Giovanni, sempre urlando, cercò di rassicurarlo:

– Altro che gl’interessi! Anche il doppio se le occorrerà! Non è forse suo figlio?

Il signor Francesco tuttavia non parve molto rasserenato ed aspettava proprio da me una parola che lo rassicurasse. Io la diedi subito e abbondante perché il vecchio ora sentiva meno di prima.

Poi il discorso fra i due uomini di affari continuò, ma io mi guardai bene dall’intervenire più oltre. Giovanni mi guardava di tempo in tempo al disopra degli occhiali per sorvegliarmi e il suo respiro pesante pareva una minaccia. Parlò poi a lungo e mi domandò a un dato punto:

– Ti pare?

Io annuii fervidamente.

Tanto più fervido dovette apparire il mio consenso in quanto ogni mio atto era reso più espressivo dalla rabbia che sempre più mi pervadeva. Che cosa stavo facendo in quel luogo lasciando trascorrere il tempo utile per effettuare i miei buoni propositi? Mi obbligavano di trascurare un’opera tanto utile a me e ad Augusta! Stavo preparando una scusa per andarmene, ma in quel momento il salotto fu invaso dalle donne accompagnate da Guido. Questi, subito dopo l’arrivo del padre, aveva regalato alla sposa un magnifico anello. Nessuno mi guardò o salutò, nemmeno la piccola Anna. Ada aveva già al dito la gemma splendente e, sempre poggiando il braccio sulla spalla del fidanzato, la faceva vedere al padre. Le donne guardavano anche loro estatiche.

Neppure gli anelli m’interessavano. Se non portavo neppure quello matrimoniale perché m’impediva la circolazione del sangue! Senza salutare infilai la porta del salotto, andai alla porta di casa e m’accinsi ad uscire. Augusta però s’accorse della mia fuga e mi raggiunse in tempo. Fui stupito del suo aspetto sconvolto. Le sue labbra erano pallide come il giorno del nostro matrimonio, poco prima che andassimo in chiesa. Le dissi che avevo un affare di premura. Poi essendomi in buon punto ricordato che pochi giorni prima, per un capriccio, avevo comperato degli occhiali leggerissimi da presbite che poi non avevo provati dopo di averli posti nel taschino del panciotto dove li sentivo, le dissi che avevo un appuntamento con un oculista per farmi esaminare la vista che da qualche tempo mi pareva indebolita. Essa rispose che avrei potuto andarmene subito, ma che mi pregava di fare prima i miei convenevoli col padre di Guido. Mi strinsi nelle spalle dall’impazienza, ma tuttavia la compiacqui.

Rientrai nel salotto e tutti gentilmente mi salutarono. In quanto a me, sicuro che ora mi mandavano via, ebbi persino un momento di buon umore. Il padre di Guido che in tanta famiglia non si raccapezzava bene, mi domandò:

– Ci rivedremo ancora prima della mia partenza per Buenos Aires?

 

– Oh! – dissi io, – cada volta ch’ella verrà in questa casa, probabilmente mi ci troverà!

Tutti risero ed io me ne andai trionfalmente accompagnato anche da un saluto abbastanza lieto da parte di Augusta. Andavo via tanto ordinatamente dopo di aver corrisposto a tutte le formalità legali, che potevo camminare sicuro. Ma v’era un altro motivo che mi liberava dai dubbi che fino a quel momento m’avevano trattenuto: io correvo via dalla casa di mio suocero per allontanarmene più che fosse possibile, cioè fino da Carla. In quella casa e non per la prima volta (così mi pareva) mi sospettavano di congiurare bassamente ai danni di Guido. Innocentemente e in piena distrazione io avevo parlato di quel podere che si trovava nell’Argentina, e Giovanni subito aveva interpretate le mie parole come se fossero state meditate per danneggiare Guido presso suo padre. Con Guido mi sarebbe stato facile di spiegarmi se fosse abbisognato: con Giovanni e gli altri, che mi sospettavano capace di simili macchinazioni, bastava la vendetta. Non che io mi fossi proposto di correre a tradire Augusta. Facevo però alla luce del sole quello che desideravo. Una visita a Carla non implicava ancora niente di male ed anzi, se io da quelle parti mi fossi imbattuto ancora una volta in mia suocera, e se essa mi avesse domandato che cosa io fossi andato a farvi, le avrei subito risposto:

– Oh bella! Vado da Carla! – Fu perciò quella la sola volta che andai da Carla senza ricordare Augusta. Tanto mi aveva offeso il contegno di mio suocero!

Sul pianerottolo non sentii echeggiare la voce di Carla. Ebbi un istante di terrore: che essa fosse uscita? Bussai e subito entrai prima che qualcuno me ne avesse dato il permesso. Carla v’era bensì, ma con lei si trovava anche sua madre. Cucivano assieme in un’associazione che potrà essere frequente, ma che io mai prima avevo vista. Lavoravano ambedue allo stesso grande lenzuolo, ai suoi lembi, una molto lontana dall’altra. Ecco ch’io ero corso da Carla e arrivavo a Carla accompagnata dalla madre. Era tutt’altra cosa. Non si potevano attuare né i buoni né i cattivi propositi. Tutto continuava a restare in sospeso.

Molto accesa, Carla si levò in piedi mentre la vecchia lentamente si levò gli occhiali che ripose in una busta. Io intanto credetti di poter essere indignato per altra ragione che non fosse quella di vedermi interdetto di chiarire subito l’animo mio. Non erano queste le ore che il Copler aveva destinate allo studio? Salutai gentilmente la vecchia signora e mi fu difficile persino di sottopormi a tale atto di gentilezza. Salutai anche Carla quasi senza guardarla. Le dissi:

– Sono venuto per vedere se possiamo cavare da questo libro – e accennai al Garcia che si trovava intatto sul tavolo al posto ove l’avevamo lasciato, – qualche altra cosa di utile.

M’assisi al posto che avevo occupato il giorno prima e subito apersi il libro. Carla tentò dapprima di sorridermi, ma visto che io non corrisposi alla sua gentilezza, sedette con una certa sollecitudine di obbedienza accanto a me, per guardare. Era esitante; non comprendeva. Io la guardai e vidi che sulla sua faccia si distendeva qualche cosa che poteva significare sdegno e ostinazione. Mi figurai che così usasse di accogliere i rimproveri del Copler. Solo essa non era ancora sicura che i miei rimproveri fossero proprio quelli che il Copler le indirizzava perché – come me lo disse poi – ricordava ch’io il giorno prima l’avevo baciata e perciò credeva di essere per sempre rassicurata sulla mia ira. Era perciò sempre ancora pronta a convertire quel suo sdegno in un sorriso amichevole. Debbo dire qui, perché più tardi non ne avrò il tempo, che questa sua fiducia di avermi addomesticato definitivamente con quel solo bacio che m’aveva concesso, mi dispiacque enormemente: una donna che pensa così è molto pericolosa.

Ma in quel momento il mio animo era proprio quello stesso del Copler, carico di rimproveri e di risentimento. Mi misi a leggere ad alta voce proprio quella parte che il giorno prima avevamo già letta e che io stesso avevo demolita, pedantescamente, e non commentando altrimenti, pesando su alcune parole che mi parevano più significative.

Con voce un po’ tremante Carla m’interruppe:

– Mi pare che questo l’abbiamo già letto!

Così fui finalmente obbligato di dire parole mie. Anche la parola propria può dare un po’ di salute. La mia non soltanto fu più mite del mio animo e del mio comportamento, ma addirittura mi ricondusse alla vita di società:

– Vede, signorina, – e accompagnai subito l’appellativo vezzeggiativo con un sorriso che poteva essere anche di amante, – vorrei rivedere questa roba prima di passare oltre. Forse noi ieri l’abbiamo giudicata un po’ precipitosamente, ed un mio amico poco fa m’avvertì che per intendere tutto quello che il Garcia dice, bisognava studiarlo tutto.

Sentii finalmente anche il bisogno di usare un riguardo alla povera vecchia signora che certamente nel corso della sua vita e per quanto poco fortunata fosse stata, non s’era mai trovata in un frangente simile. Inviai anche a lei un sorriso che mi costò più fatica di quello regalato a Carla:

– La cosa non è molto divertente, – le dissi, – ma può essere sentita con qualche vantaggio anche da chi non si occupa di canto.

Continuai ostinatamente a leggere. Carla certamente si sentiva meglio, e sulle sue labbra carnose errava qualche cosa che somigliava ad un sorriso. La vecchia invece appariva sempre come un povero animale catturato e restava in quella stanza solo perché la sua timidezza le impediva di trovare il modo di andarsene. Io, poi, a nessun prezzo avrei tradito il mio desiderio di buttarla fuori di quella stanza. Sarebbe stata una cosa grave e compromettente.

Carla fu più decisa: con molto riguardo mi pregò sospendere per un momento quella lettura e, rivoltasi alla madre, le disse che poteva andarsene e che il lavoro a quel lenzuolo l’avrebbero continuato nel pomeriggio.

La signora s’avvicinò a me, esitante se porgermi la mano. Io gliela strinsi addirittura affettuosamente e le dissi:

– Capisco che questa lettura non è troppo divertente.

Sembrava volessi deplorare ch’essa ci lasciasse. La signora se ne andò dopo di aver posto su di una sedia il lenzuolo ch’essa fino ad allora aveva tenuto in grembo. Poi Carla la seguì per un istante sul pianerottolo per dirle qualche cosa mentre io smaniavo di averla finalmente accanto. Rientrò, chiuse dietro di sé la porta e ritornando al suo posto ebbe di nuovo attorno alla bocca qualche cosa di rigido che ricordava l’ostinazione su una faccia infantile. Disse:

– Ogni giorno a quest’ora io studio. Giusto ora doveva capitarmi di attendere a quel lavoro di premura!

– Ma non vede che a me non importa nulla del suo canto? – gridai io e l’aggredii con un abbraccio violento che mi portò a baciarla prima in bocca eppoi subito sul punto stesso ove avevo baciato il giorno prima.

Curioso! Essa si mise a piangere dirottamente e si sottrasse a me. Disse singhiozzando che aveva sofferto troppo di avermi visto entrare a quel modo. Essa piangeva per quella solita compassione di sé stesso che tocca a chi vede compianto il proprio dolore. Le lacrime non sono espresse dal dolore, ma dalla sua storia. Si piange quando si grida all’ingiustizia. Era infatti ingiusto di obbligare allo studio questa bella fanciulla che si poteva baciare.

In complesso andava peggio di quanto m’ero figurato. Dovetti spiegarmi e per far presto non mi presi il tempo necessario per inventare e raccontai l’esatta verità. Le dissi della mia impazienza di vederla e di baciarla. Io m’ero proposto di venir da lei di buon’ora; in questo proposito avevo persino passata la notte. Naturalmente non seppi dire che cosa mi prefiggessi di fare venendo da lei, ma ciò era poco d’importante. Era vero che la stessa dolorosa impazienza l’avevo sentita quando avevo voluto andare da lei per dirle che volevo abbandonarla per sempre e quand’ero accorso per prenderla fra le mie braccia. Poi le raccontai degli avvenimenti della mattina e come mia moglie m’avesse obbligato di uscire con lei e m’avesse condotto da mio suocero ove ero stato immobilizzato ad ascoltare come si discorreva di affari che non mi toccavano. Infine, con grandi sforzi arrivo a svincolarmi e a fare la lunga via a passo celere e che cosa trovo?… La stanza tutta ingombra di quel lenzuolo!