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La coscienza di Zeno

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Augusta si mise a ridere di cuore e dichiarò ch’io non ero altro che un malato immaginario. Allora sul volto emaciato del Copler passò qualche cosa che somigliava ad un risentimento. Subito, virilmente, si liberò dallo stato d’inferiorità a cui pareva fosse condannato, aggredendomi con grande energia:

– Malato immaginario? Ebbene, io preferisco di essere un malato reale. Prima di tutto un malato immaginario è una mostruosità ridicola eppoi per lui non esistono dei farmachi mentre la farmacia, come si vede in me, ha sempre qualche cosa di efficace per noi malati veri!

La sua parola sembrava quella di un sano ed io – voglio essere sincero – ne soffersi.

Mio suocero s’associò a lui con grande energia, ma le sue parole non arrivavano a gettare un disprezzo sul malato immaginario, perché tradivano troppo chiaramente l’invidia per il sano. Disse che se egli fosse stato sano come me, invece di seccare il prossimo con le lamentele, sarebbe corso ai suoi cari e buoni affari, specie ora che gli era riuscito di diminuire la sua pancia. Egli non sapeva neppure che il suo dimagrimento non veniva considerato come un sintomo favorevole.

Causa l’assalto del Copler, io avevo veramente l’aspetto di un malato e di un malato maltrattato. Augusta sentì il bisogno d’intervenire in mio soccorso. Carezzando la mano che avevo abbandonata sul tavolo, essa disse che la mia malattia non disturbava nessuno e ch’ella non era neppur convinta ch’io credessi d’esser ammalato, perché altrimenti non avrei avuto tanta gioia di vivere. Così il Copler ritornò allo stato d’inferiorità cui era condannato. Egli era del tutto solo a questo mondo e se poteva lottare con me in fatto di salute, non poteva contrappormi alcun affetto simile a quello che Augusta m’offriva. Sentendo vivo il bisogno di un’infermiera, si rassegnò di confessarmi più tardi quanto egli m’aveva invidiato per questo.

La discussione continuò nei giorni seguenti con un tono più calmo mentre Giovanni dormiva in giardino. E il Copler, dopo averci pensato sù, asseriva ora che il malato immaginario era un malato reale, ma più intimamente di questi ed anche più radicalmente. Infatti i suoi nervi erano ridotti così da accusare una malattia quando non c’era, mentre la loro funzione normale sarebbe consistita nell’allarmare col dolore e indurre a correre al riparo.

– Sì! – dicevo io. – Come ai denti, dove il dolore si manifesta solo quando il nervo è scoperto e per la guarigione occorre la sua distruzione.

Si terminò col trovarsi d’accordo sul fatto che un malato e l’altro si valevano. Proprio nella sua nefrite era mancato e mancava tuttavia un avviso dei nervi, mentre che i miei nervi, invece, erano forse tanto sensibili da avvisarmi della malattia di cui sarei morto qualche ventennio più tardi. Erano dunque dei nervi perfetti e avevano l’unico svantaggio di concedermi pochi giorni lieti a questo mondo. Essendogli riuscito a mettermi fra gli ammalati, il Copler fu soddisfattissimo.

Non so perché il povero malato avesse la mania di parlare di donne e, quando non c’era mia moglie, non si parlava d’altro. Egli pretendeva che dal malato reale, almeno nelle malattie che noi sapevamo, il sesso s’affievolisse, ciò ch’era una buona difesa dell’organismo, mentre dal malato immaginario che non soffriva che pel disordine di nervi troppo laboriosi (questa era la nostra diagnosi) esso fosse patologicamente vivo. Io corroborai la sua teoria con la mia esperienza e ci compiangemmo reciprocamente. Ignoro perché non volli dirgli che io mi trovavo lontano da ogni sregolatezza e ciò da lungo tempo. Avrei almeno potuto confessare che mi ritenevo convalescente se non sano, per non offenderlo troppo e perché dirsi sano quando si conoscono tutte le complicazioni del nostro organismo è una cosa difficile.

– Tu desideri tutte le donne belle che vedi? – inquisì ancora il Copler.

– Non tutte! – mormorai io per dirgli che non ero tanto malato. Intanto io non desideravo Ada che vedevo ogni sera. Quella, per me, era proprio la donna proibita. Il fruscio delle sue gonne non mi diceva niente e, se mi fosse stato permesso di muoverle con le mie stesse mani, sarebbe stata la stessa cosa. Per fortuna non l’avevo sposata. Questa indifferenza era, o mi sembrava, una manifestazione di salute genuina. Forse il mio desiderio per lei era stato tanto violento da esaurirsi da sé. Però la mia indifferenza si estendeva anche ad Alberta ch’era pur tanto carina nel suo vestitino accurato e serio da scuola. Che il possesso di Augusta fosse stato sufficiente a calmare il mio desiderio per tutta la famiglia Malfenti? Ciò sarebbe stato davvero molto morale!

Forse non parlai della mia virtù perché nel pensiero io tradivo sempre Augusta, e anche ora, parlando col Copler, con un fremito di desiderio, pensai a tutte le donne che per lei trascuravo. Pensai alle donne che correvano le vie, tutte coperte, e dalle quali perciò gli organi sessuali secondarii divenivano tanto importanti mentre dalla donna che si possedeva scomparivano come se il possesso li avesse atrofizzati. Avevo sempre vivo il desiderio dell’avventura; quell’avventura che cominciava dall’ammirazione di uno stivaletto, di un guanto, di una gonna, di tutto quello che copre e altera la forma. Ma questo desiderio non era ancora una colpa. Il Copler però non faceva bene ad analizzarmi. Spiegare a qualcuno come è fatto, è un modo per autorizzarlo ad agire come desidera. Ma il Copler fece anche di peggio, solo che tanto quando parlò, come quando agì, egli non poteva prevedere dove mi avrebbe condotto.

Resta così importante nel mio ricordo la parola del Copler che, quando la ricordo, essa rievoca tutte le sensazioni che vi si associarono, e le cose e le persone. Avevo accompagnato in giardino il mio amico che doveva rincasare prima del tramonto. Dalla mia villa, che giace su una collina, si aveva la vista del porto e del mare, vista che ora è intercettata da nuovi fabbricati. Ci fermammo a guardare lungamente il mare mosso da una brezza leggera che rimandava in miriadi di luci rosse la luce tranquilla del cielo. La penisola istriana dava riposo all’occhio con la sua mitezza verde che s’inoltrava in arco enorme nel mare come una penombra solida. I moli e le dighe erano piccoli e insignificanti nelle loro forme rigidamente lineari, e l’acqua nei bacini era oscurata dalla sua immobilità o era forse torbida? Nel vasto panorama la pace era piccola in confronto a tutto quel rosso animato sull’acqua e noi, abbacinati, dopo poco volgemmo la schiena al mare. Sulla piccola spianata dinanzi alla casa, incombeva in confronto già la notte.

Dinanzi al portico, su una grande poltrona, il capo coperto da un berretto e anche protetto dal bavero rialzato della pelliccia, le gambe avvolte in una coperta, mio suocero dormiva. Ci fermammo a guardarlo. Aveva la bocca spalancata, la mascella inferiore pendente come una cosa morta e la respirazione rumorosa e troppo frequente. Ad ogni tratto la sua testa ricadeva sul petto ed egli, senza destarsi, la rialzava. C’era allora un movimento delle sue palpebre come se avesse voluto aprire gli occhi per ritrovare più facilmente l’equilibrio e la sua respirazione cambiava di ritmo. Una vera interruzione del sonno.

Era la prima volta che la grave malattia di mio suocero mi si presentasse con tanta evidenza e ne fui profondamente addolorato.

Il Copler a bassa voce mi disse:

– Bisognerebbe curarlo. Probabilmente è ammalato anche di nefrite. Il suo non è un sonno: io so che cosa sia quello stato. Povero diavolo!

Terminò consigliando di chiamare il suo medico.

Giovanni ci sentì e aperse gli occhi. Parve subito meno malato e scherzò con Copler:

– Lei s’attenta di stare all’aria aperta? Non le farà male?

Gli sembrava di aver dormito saporitamente e non pensava di aver avuto mancanza d’aria in faccia al vasto mare che gliene mandava tanta! Ma la sua voce era fioca e la sua parola interrotta dall’ansare; aveva la faccia terrea e, levatosi dalla poltrona, si sentiva ghiacciare. Dovette rifugiarsi in casa. Lo vedo ancora muoversi traverso la spianata, la coperta sotto il braccio, ansante ma ridendo, mentre ci mandava il suo saluto.

– Vedi com’è fatto l’ammalato reale? – disse il Copler che non sapeva liberarsi dalla sua idea dominante. – È moribondo e non sa d’essere ammalato.

Parve anche a me che l’ammalato reale soffrisse poco. Mio suocero e anche il Copler riposano da molti anni a Sant’Anna, ma ci fu un giorno in cui passai accanto alle loro tombe e mi parve che per il fatto di trovarsi da tanti anni sotto alle loro pietre, la tesi propugnata da uno di loro non fosse infirmata.

Prima di lasciare il suo antico domicilio, il Copler aveva liquidati i suoi affari e perciò come me non ne aveva affatto. Però, non appena lasciato il letto, non seppe restar tranquillo e, mancando di affari propri, cominciò ad occuparsi di quelli degli altri che gli parevano molto più interessanti. Ne risi allora, ma più tardi anch’io dovevo apprendere quale sapore gradevole avessero gli affari altrui. Egli si dedicava alla beneficenza ed essendosi proposto di vivere dei soli interessi del suo capitale, non poteva concedersi il lusso di farla tutta a spese proprie. Perciò organizzava delle collette e tassava amici e conoscenti. Registrava tutto da quel bravo uomo d’affari che era, ed io pensai che quel libro fosse il suo viatico e che io, nel caso suo, condannato a breve vita e privo di famiglia com’egli era, l’avrei arricchito intaccando il mio capitale. Ma egli era il sano immaginario e non toccava che gl’interessi che gli spettavano, non sapendo rassegnarsi di ammettere breve il futuro.

Un giorno mi assalì con la richiesta di alcune centinaia di corone per procurare un pianino ad una povera fanciulla la quale veniva già sovvenzionata da me insieme ad altri, per suo mezzo, con un piccolo mensile. Bisognava far presto per approfittare di una buona occasione. Non seppi esimermi, ma, un po’ di malagrazia, osservai che avrei fatto un buon affare se quel giorno non fossi uscito di casa. Io sono di tempo in tempo soggetto ad accessi di avarizia.

 

Il Copler prese il denaro e se ne andò con una breve parola di ringraziamento, ma l’effetto delle mie parole si vide pochi giorni appresso e fu, purtroppo, importante. Egli venne ad informarmi che il pianino era a posto e che la signorina Carla Gerco e sua madre mi pregavano di andar a trovarle per ringraziarmi. Il Copler aveva paura di perdere il cliente e voleva legarmi facendomi assaporare la riconoscenza delle beneficate. Dapprima volli esimermi da quella noia assicurandolo che ero convinto ch’egli sapesse fare la beneficenza più accorta, ma insistette tanto che finii con l’accondiscendere:

– È bella? – domandai ridendo.

– Bellissima – egli rispose – ma non è pane per i nostri denti.

Curiosa cosa che egli mettesse i miei denti assieme ai suoi, col pericolo di comunicarmi la sua carie. Mi raccontò dell’onestà di quella famiglia disgraziata che aveva perduto da qualche anno il suo capo di casa e che nella più squallida miseria era vissuta nella più rigida onestà.

Era una giornata sgradevole. Soffiava un vento diaccio ed io invidiavo il Copler che s’era messa la pelliccia. Dovevo trattenere con la mano il cappello che altrimenti sarebbe volato via. Ma ero di buon umore, perché andavo a raccogliere la gratitudine dovuta alla mia filantropia. Percorremmo a piedi la Corsia Stadion, traversammo il Giardino Pubblico. Era una parte della città ch’io non vedevo mai. Entrammo in una di quelle case cosidette di speculazione, che i nostri antenati s’erano messi a fabbricare quarant’anni prima, in posti lontani dalla città che subito li invase; aveva un aspetto modesto ma tuttavia più cospicuo delle case che si fanno oggidì con le stesse intenzioni. La scala occupava una piccola area e perciò era molto alta.

Ci fermammo al primo piano dove arrivai molto prima del mio compagno, assai più lento. Fui stupito che delle tre porte che davano su quel pianerottolo, due, quelle ai lati, fossero contrassegnate dal biglietto di visita di Carla Gerco, attaccatovi con chiodini, mentre la terza aveva anch’essa un biglietto ma con altro nome. Il Copler mi spiegò che le Gerco avevano a destra la cucina e la camera da letto mentre a sinistra non c’era che una stanza sola, lo studio della signorina Carla. Avevano potuto subaffittare una parte del quartiere al centro e così l’affitto costava loro pochissimo, ma avevano l’incomodo di dover passare il pianerottolo per recarsi da una stanza all’altra.

Bussammo a sinistra, alla stanza da studio ove madre e figlia, avvisate della nostra visita, ci attendevano. Il Copler fece le presentazioni. La signora, una persona timidissima vestita di un povero vestito nero, con la testa rilevata da un biancore di neve, mi tenne un piccolo discorso che doveva aver preparato: erano onorate dalla mia visita e mi ringraziavano del cospicuo dono che avevo fatto loro. Poi essa non aperse più bocca.

Il Copler assisteva come un maestro che ad un esame ufficiale stia ad ascoltare la lezione ch’egli con grande fatica ha insegnata. Corresse la signora dicendole che non soltanto io avevo elargito il denaro per il pianino, ma che contribuivo anche al soccorso mensile ch’egli aveva loro raggranellato. Amava l’esattezza, lui.

La signorina Carla si alzò dalla sedia ove era seduta accanto al pianino, mi porse la mano e mi disse la semplice parola:

– Grazie!

Ciò almeno era meno lungo. La mia carica di filantropo cominciava a pesarmi. Anch’io mi occupavo degli affari altrui come un qualunque ammalato reale! Che cosa doveva vedere in me quella graziosa giovinetta? Una persona di grande riguardo ma non un uomo! Ed era veramente graziosa! Credo che essa volesse sembrare più giovine di quanto non fosse, con la sua gonna troppo corta per la moda di quell’epoca a meno che non usasse per casa una gonna del tempo in cui non aveva ancora finito di crescere. La sua testa era però di donna e, per la pettinatura alquanto ricercata, di donna che vuol piacere. Le ricche treccie brune erano disposte in modo da coprire le orecchie e anche in parte il collo. Ero tanto compreso della mia dignità e temevo tanto l’occhio inquisitore del Copler che dapprima non guardai neppur bene la fanciulla; ma ora la so tutta. La sua voce aveva qualche cosa di musicale quando parlava e, con un’affettazione oramai divenuta natura, essa si compiaceva di stendere le sillabe come se avesse voluto carezzare il suono che le riusciva di metterci. Perciò e anche per certe sue vocali eccessivamente larghe persino per Trieste, il suo linguaggio aveva qualche cosa di straniero. Appresi poi che certi maestri, per insegnare l’emissione della voce, alterano il valore delle vocali. Era proprio tutt’altra pronuncia di quella di Ada. Ogni suo suono mi pareva d’amore.

Durante quella visita la signorina Carla sorrise sempre, forse immaginando di avere così stereotipata sulla faccia l’espressione della gratitudine. Era un sorriso un po’ forzato; il vero aspetto della gratitudine. Poi, quando poche ore dopo cominciai a sognare Carla, immaginai che su quella faccia ci fosse stata una lotta fra la letizia e il dolore. Nulla di tutto questo trovai poi in lei ed una volta di più appresi che la bellezza femminile simula dei sentimenti coi quali nulla ha a vedere. Così la tela su cui è dipinta una battaglia non ha alcun sentimento eroico.

Il Copler pareva soddisfatto della presentazione come se le due donne fossero state opera sua. Me le descriveva: erano sempre liete del loro destino e lavoravano. Egli diceva delle parole che parevano tolte da un libro scolastico e, annuendo macchinalmente, pareva che io volessi confermare di aver fatti i miei studii e sapessi perciò come dovessero essere fatte le povere donne virtuose prive di denaro.

Poi egli domandò a Carla di cantarci qualche cosa. Essa non volle dichiarando di essere raffreddata. Proponeva di farlo un altro giorno. Io sentivo con simpatia ch’essa temeva il nostro giudizio, ma avevo il desiderio di prolungare la seduta e m’associai alle preghiere del Copler. Dissi anche che non sapevo se m’avrebbe rivisto mai più, perché ero molto occupato. Il Copler, che pur sapeva ch’io a questo mondo non avevo alcun impegno, confermò con grande serietà quanto dicevo. Mi fu poi facile d’intendere ch’egli desiderava che io non rivedessi più Carla.

Questa tentò ancora di esimersi, ma il Copler insistette con una parola che somigliava ad un comando ed essa obbedì: com’era facile costringerla!

Cantò «La mia bandiera». Dal mio soffice sofà io seguivo il suo canto. Avevo un ardente desiderio di poterla ammirare. Come sarebbe stato bello di vederla rivestita di genialità! Ma invece ebbi la sorpresa di sentire che la sua voce, quando cantava, perdeva ogni musicalità. Lo sforzo l’alterava. Carla non sapeva neppure suonare e il suo accompagnamento monco rendeva anche più povera quella povera musica. Ricordai di trovarmi dinanzi ad una scolara e analizzai se il volume di voce fosse bastevole. Abbondante anzi! Nel piccolo ambiente ne avevo l’orecchio ferito. Pensai, per poter continuare ad incoraggiarla, che solo la sua scuola fosse cattiva.

Quando cessò, m’associai all’applauso abbondante e parolaio del Copler. Egli diceva:

– Figurati quale effetto farebbe questa voce quando fosse accompagnata da una buona orchestra.

Questo era certamente vero. Un’intera potente orchestra ci voleva su quella voce. Io dissi con grande sincerità che mi riservavo di riudire la signorina di là a qualche mese e che allora mi sarei pronunciato sul valore della sua scuola. Meno sinceramente aggiunsi che certamente quella voce meritava una scuola di primo ordine. Poi, per attenuare quanto di sgradevole ci poteva essere stato nelle mie prime parole, filosofai sulla necessità per una voce eccelsa, di trovare una scuola eccelsa. Questo superlativo coperse tutto. Ma poi, restato solo, fui meravigliato di aver sentito la necessità di essere sincero con Carla. Che già l’avessi amata? Ma se non l’avevo ancora ben vista!

Sulle scale dall’odore dubbio, il Copler disse ancora:

– La voce sua è troppo forte. È una voce da teatro.

Egli non sapeva che a quell’ora io sapevo qualcosa di più: quella voce apparteneva ad un ambiente piccolissimo dove si poteva gustare l’impressione d’ingenuità di quell’arte e sognare di portarci dentro l’arte, cioè vita e dolore.

Nel lasciarmi, il Copler mi disse che m’avrebbe avvertito quando il maestro di Carla avrebbe organizzato un concerto pubblico. Si trattava di un maestro poco noto ancora in città, ma sarebbe certo divenuto una futura grande celebrità. Il Copler ne era sicuro ad onta che il maestro fosse abbastanza vecchio. Pareva che la celebrità gli sarebbe venuta ora, dopo che il Copler lo conosceva. Due debolezze da morituri, quella del maestro e quella del Copler.

Il curioso si è che sentii il bisogno di raccontare tale visita ad Augusta. Si potrebbe forse credere che sia stato per prudenza, visto che il Copler ne sapeva e che io non mi sentivo di pregarlo di tacere. Ma però ne parlai troppo volentieri. Fu un grande sfogo. Fino ad allora non avevo da rimproverarmi altro che di aver taciuto con Augusta. Ecco che ora ero innocente del tutto.

Ella mi domandò qualche notizia della fanciulla e se fosse bella. Mi fu difficile di rispondere: dissi che la povera fanciulla mi era parsa molto anemica. Poi ebbi una buona idea:

– E se tu ti occupassi un poco di lei?

Augusta aveva tanto da fare nella sua nuova casa e nella sua vecchia famiglia ove la chiamavano per farsi aiutare nell’assistenza al padre malato, che non vi pensò più. Ma la mia idea era stata perciò veramente buona.

Il Copler però riseppe da Augusta che io l’avevo avvertita della nostra visita e anche lui dimenticò perciò le qualità ch’egli aveva attribuite al malato immaginario. Mi disse in presenza di Augusta che di lì a poco tempo avremmo fatta un’altra visita a Carla. Mi concedeva la sua piena fiducia.

Nella mia inerzia subito fui preso dal desiderio di rivedere Carla. Non osai correre da lei temendo che il Copler avesse a risaperne. I pretesti però non mi sarebbero mica mancati. Potevo andare da lei per offrirle un aiuto maggiore ad insaputa del Copler, ma avrei dovuto prima essere sicuro che, a proprio vantaggio, ella avrebbe accettato di tacere. E se quell’ammalato reale fosse già l’amante della fanciulla? Io, degli ammalati reali, non sapevo proprio niente e poteva essere benissimo che avessero il costume di farsi pagare dagli altri le loro amanti. In quel caso sarebbe bastata una sola visita a Carla per compromettermi. Non potevo mettere a pericolo la pace della mia famigliuola; ossia, non la misi a pericolo finché il mio desiderio di Carla non ingrandì.

Ma esso ingrandì costantemente. Già conoscevo quella fanciulla molto meglio che non quando le aveva stretta la mano per congedarmi da lei. Ricordavo specialmente quella treccia nera che copriva il suo collo niveo e che sarebbe stato necessario di allontanare col naso per arrivare a baciare la pelle ch’essa celava. Per stimolare il mio desiderio bastava io ricordassi che su un dato pianerottolo, nella stessa mia piccola città, era esposta una bella fanciulla e che con una breve passeggiata si poteva andare a prenderla! La lotta col peccato diventa in tali circostanze difficilissima perché bisogna rinnovarla ad ogni ora ed ogni giorno, finché cioè la fanciulla rimanga su quel pianerottolo. Le lunghe vocali di Carla mi chiamavano, e forse proprio il loro suono m’aveva messo nell’anima la convinzione che quando la mia resistenza fosse sparita, altre resistenze non ci sarebbero state più. Però m’era chiaro che potevo ingannarmi e che forse il Copler vedeva le cose con maggior esattezza; anche questo dubbio valeva a diminuire la mia resistenza visto che la povera Augusta poteva essere salvata da un mio tradimento da Carla stessa che, come donna, aveva la missione della resistenza.

Perché il mio desiderio avrebbe dovuto darmi un rimorso quando pareva fosse proprio venuto a tempo per salvarmi dal tedio che in quell’epoca mi minacciava? Non danneggiava affatto i miei rapporti con Augusta, anzi tutt’altro. Io le dicevo oramai non più soltanto le parole di affetto che avevo sempre avute per lei, ma anche quelle che nel mio animo andavano formandosi per l’altra. Non c’era mai stata una simile abbondanza di dolcezza in casa mia e Augusta ne pareva incantata. Ero sempre esatto in quello che io chiamavo l’orario della famiglia. La mia coscienza è tanto delicata che, con le mie maniere, già allora mi preparavo ad attenuare il mio futuro rimorso.

Che la mia resistenza non sia mancata del tutto è provato dal fatto che io arrivai a Carla non con uno slancio solo, ma a tappe. Dapprima per varii giorni giunsi solo fino al Giardino Pubblico e con la sincera intenzione di gioire di quel verde che apparisce tanto puro in mezzo al grigio delle strade e delle case che lo circondano. Poi, non avendo avuta la fortuna di imbattermi, come speravo, casualmente in lei, uscii dal Giardino per movermi proprio sotto le sue finestre. Lo feci con una grande emozione che ricordava proprio quella deliziosissima del giovinetto che per la prima volta accosta l’amore. Da tanto tempo ero privo non d’amore, ma delle corse che vi conducono.

 

Ero appena uscito dal Giardino Pubblico che m’imbattei proprio faccia a faccia in mia suocera. Dapprima ebbi un dubbio curioso: di mattina, così di buon’ora, da quelle parti tanto lontane dalle nostre? Forse anche lei tradiva il marito ammalato. Seppi poi subito che le facevo un torto perché essa era stata a trovare il medico per averne conforto dopo una cattiva notte passata accanto a Giovanni. Il medico le aveva detto delle buone parole, ma essa era tanto agitata che presto mi lasciò dimenticando persino di sorprendersi di avermi trovato in quel luogo visitato di solito da vecchi, bambini e balie.

Ma mi bastò di averla vista per sentirmi riafferrato dalla mia famiglia. Camminai verso casa mia con un passo deciso, a cui battevo il tempo mormorando: «Mai più! Mai più!» In quell’istante la madre di Augusta con quel suo dolore mi aveva dato il sentimento di tutti i miei doveri. Fu una buona lezione e bastò per tutto quel giorno.

Augusta non era in casa perché era corsa dal padre col quale rimase tutta la mattina. A tavola mi disse che avevano discusso se, dato lo stato di Giovanni, non avrebbero dovuto rimandare il matrimonio di Ada ch’era stabilito per la settimana dopo. Giovanni stava già meglio. Pare che a cena si fosse lasciato indurre a mangiar troppo e l’indigestione avesse assunto l’aspetto di un aggravamento del male.

Io le raccontai di aver già avute quelle notizie dalla madre in cui m’ero imbattuto la mattina al Giardino Pubblico. Neppure Augusta si meravigliò della mia passeggiata, ma io sentii il bisogno di darle delle spiegazioni. Le raccontai che preferivo da qualche tempo il Giardino Pubblico quale meta delle mie passeggiate. Mi sedevo su una banchina e vi leggevo il mio giornale. Poi aggiunsi:

– Quell’Olivi! Me l’ha fatta grossa condannandomi a tanta inerzia.

Augusta, che a quel proposito si sentiva un poco colpevole, ebbe un aspetto di dolore e di rimpianto. Io, allora, mi sentii benissimo. Ma ero realmente purissimo perché passai il pomeriggio intero nel mio studio e potevo veramente credere di essere definitivamente guarito di ogni desiderio perverso. Leggevo oramai l’Apocalisse.

E ad onta che fosse oramai assodato ch’io avevo l’autorizzazione di andare ogni mattina al Giardino Pubblico, tanto grande s’era fatta la mia resistenza alla tentazione che quando il giorno appresso uscii, mi diressi proprio dalla parte opposta. Andavo a cercare certa musica volendo provare un nuovo metodo del violino che m’era stato consigliato. Prima di uscire seppi che mio suocero aveva passata una notte ottima e che sarebbe venuto da noi in vettura nel pomeriggio. Ne avevo piacere tanto per mio suocero quanto per Guido, che finalmente avrebbe potuto sposarsi. Tutto andava bene: io ero salvo ed era salvo anche mio suocero.

Ma fu proprio la musica che mi ricondusse a Carla! Fra i metodi che il venditore m’offerse ve ne fu per errore uno che non era del violino ma del canto. Ne lessi accuratamente il titolo: «Trattato completo dell’Arte del Canto (Scuola di Garcia) di E. Garcia (figlio) contenente una Relazione sulla Memoria riguardante la Voce Umana presentata all’Accademia delle Scienze di Parigi».

Lasciai che il venditore s’occupasse di altri clienti e mi misi a leggere l’operetta. Devo dire che leggevo con un’agitazione che forse somigliava a quella con cui il giovinetto depravato accosta le opere di pornografia. Ecco: quella era la via per arrivare a Carla; essa abbisognava di quell’opera e sarebbe stato un delitto da parte mia di non fargliela conoscere. La comperai e ritornai a casa.

L’opera del Garcia constava di due parti di cui una teorica e l’altra pratica. Continuai la lettura con l’intenzione di intenderla tanto bene da poter poi dare i miei consigli a Carla quando fossi andato da lei col Copler. Intanto avrei guadagnato del tempo e avrei potuto tuttavia continuare a dormire i miei sonni tranquilli, pur sollazzandomi sempre col pensiero all’avventura che m’aspettava.

Ma Augusta stessa fece precipitare gli avvenimenti. M’interruppe nella mia lettura per venir a salutarmi, si chinò su di me e sfiorò la mia guancia con le sue labbra. Mi domandò che cosa facessi e sentito che si trattava di un nuovo metodo, pensò fosse per violino e non si curò di guardare meglio. Io, quand’essa mi lasciò, esagerai il pericolo che avevo corso e pensai che per la mia sicurezza avrei fatto bene di non tenere nel mio studio quel libro. Bisognava portarlo subito al suo destino, ed è così che fui costretto di andar dritto verso la mia avventura. Avevo trovato qualche cosa di più di un pretesto per poter fare quello ch’era il mio desiderio.

Non ebbi più esitazioni di sorta. Giunto su quel pianerottolo, mi rivolsi subito alla porta a sinistra. Però dinanzi a quella porta m’arrestai per un istante ad ascoltare i suoni della ballata «La mia bandiera» ch’echeggiavano gloriosamente sulle scale. Pareva che, per tutto quel tempo, Carla avesse continuato a cantare la stessa cosa. Sorrisi pieno di affetto e di desiderio per tanta infantilità. Apersi poi cautamente la porta senza bussare ed entrai nella stanza in punta di piedi. Volevo vederla subito, subito. Nel piccolo ambiente la sua voce era veramente sgradevole. Essa cantava con grande entusiasmo e maggior calore che non quella volta della mia prima visita. Era addirittura abbandonata sullo schienale della sedia per poter emettere tutto il fiato dei suoi polmoni. Io vidi solo la testina fasciata dalle grosse treccie e mi ritirai còlto da un’emozione profonda per aver osato tanto. Essa intanto era arrivata all’ultima nota che non voleva finire più ed io potei ritornare sul pianerottolo e chiudere dietro di me la porta senza ch’essa di me s’accorgesse. Anche quell’ultima nota aveva oscillato in sù e in giù prima di affermarsi sicura. Carla sentiva dunque la nota giusta e toccava ora al Garcia d’intervenire per insegnarle a trovarla più presto.

Bussai quando mi sentii più calmo. Subito essa accorse ad aprire la porta ed io non dimenticherò giammai la sua figurina gentile, poggiata allo stipite, mentre mi fissava coi suoi grandi occhi bruni prima di saper riconoscermi nell’oscurità.

Ma intanto io m’ero calmato in modo da venir ripreso da tutte le mie esitazioni. Ero avviato a tradire Augusta, ma pensavo che come nei giorni precedenti avevo potuto contentarmi di giungere fino al Giardino Pubblico, tanto più facilmente ora avrei potuto fermarmi a quella porta, consegnare quel libro compromettente e andarmene pienamente soddisfatto. Fu un breve istante pieno di buoni propositi. Ricordai persino un consiglio strano che m’era stato dato per liberarmi dall’abitudine del fumo e che poteva valere in quell’occasione: talvolta, per contentarsi, bastava accendere il cerino e gettare poi via e sigaretta e cerino.

Mi sarebbe stato anche facile di far così, perché Carla stessa, quando mi riconobbe, arrossì e accennò a fuggire vergognandosi – come seppi poi – di farsi trovare vestita di un povero consunto vestitino di casa.