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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3

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II
Senso allegorico

«Non era ancor di lá Nesso arrivato», ecc. Avendo la ragione nel superior canto mostrato all’autore qual sia la colpa di coloro, li quali violenza usano nel prossimo o nelle sue cose, piú avanti per lo settimo cerchio procedendo, gli dimostra a qual pena dannati son coloro, li quali in se medesimi crudelmente adoperano, e le lor cose bestialmente gittano e consumano, discrivendogli primieramente quegli che contro a sé, uccidendosi, hanno bestialmente adoperato, essere a perpetua pena dannati. E la pena è questa, che essi, dalla divina giustizia gittati in inferno, quivi diventano salvatiche piante, e che delli loro rami e frondi l’arpie schiantando si pascono: di che intollerabile dolor sentono, il quale per quelle rotture con dolorosi lamenti mandan fuori; dicendo ancora esse arpie sopra li loro rami fare i nidi loro; e in accrescimento della lor doglia mostra loro essere nella loro opinione privati della speranza di doversi di lor corpi rivestire al dí del giudicio, come tutte l’altre faranno.

È adunque da sapere, accioché si conosca qual ragione movesse l’autore a fingere l’anime di questi dannati convertirsi in piante, l’anime nostre avere tre potenzie principali, delle quali è la prima potenzia «vegetativa», la quale ne dá la natura come generati siamo, in quanto cominciamo per questa potenza a prender nutrimento, per lo quale l’esser nostro si conserva e aumenta: e in questa potenza comunichiam noi con l’erbe e con gli alberi e con ogni altra creatura insensibile. La seconda potenza è la «sensitiva», la quale l’anima nostra, avanti che noi nasciamo, riceve dalla natura, in quanto noi cominciamo a sentire e a muoverci nel ventre della nostra madre, comeché questa potenzia non ci sia nel principio conceduta perfetta, ma poi in processo di tempo, dopo il nostro nascimento, riceve perfezione; e in questa potenzia comunichiamo noi con gli animali bruti, cioè con le bestie e con gli uccelli e co’ pesci e con qualunque altro animale ha sentimento. La terza e ultima potenzia è la «razionale», la quale da Dio n’è infusa, e di singular grazia donata, dotata di ragione, di volontá e di memoria, e gli effetti veri di questa potenzia non appariscono in noi se non nella perfetta etá, percioché allora sono gli organi, per li quali le sue virtú si dimostrano, compiuti ed espediti; e in questa siamo simiglianti a Dio e con gli angeli comunichiamo.

Ora, percioché chi se medesimo uccide appare assai manifestamente aver cacciato da sé e perduto ogni ordine di ragione e di sana volontá, non pare che animale razional si possa chiamare, conciosiacosaché l’animal razionale con ogni sollecitudine curi di conservare il suo essere e di farlo sempre migliore, e a suo potere in piú lunghezza di tempo distenderlo; come che d’alcuni si legge essersi giá uccisi, non, prima facie, come bestiali, ma mossi da alcuna ragione, sí come ne scrive Valerio Massimo, De institutis antiquis, di quella donna antica, la qual diceva nel suo tempo non aver veduta contra di sé la fortuna turbata, e però con volontaria morte volea pervenire a non doverla vedere. Alcuni altri ex proposito si sono uccisi per tedio della presente vita, sperando di trapassare a migliore, sí come di Catone uticense leggiamo, il quale, prima feditosi, e, sentito da’ suoi servidori, aiutato e fasciato e ancora toltagli ogni materia da potersi uccidere; leggendo nel mezzo del silenzio della notte quel libro, nel quale Platone scrive Della eternitá dell’anima, sfasciatosi e con le mani proprie ampliata la piaga, constrinse lo spirito ad abbandonare il misero corpo. Alcuni altri ancora, non per tedio della presente vita, ma per disiderio e con isperanza di migliore s’uccisono, sí come si legge di coloro li quali, udita la dottrina di Ferecide in Egitto, nella quale esso con tanta efficacia di sermone dimostrava la beatitudine della vita futura, corsono inconsideratamente alla morte. Ma con che cagione si muovesse qualunque si fosse, stoltamente e bestialmente adoperarono: percioché, secondo ne dimostra Tullio nel Sogno di Scipione, lo spirito «è da rendere e non da cacciare».

Puote adunque apparere, quelli cotali, che se medesimi uccidono, aver perduto quello per che chiamati debbiamo essere «animali razionali». Oltre a questo, percioché ogni animale non razionale ma sensibile, quanto puote naturalmente fugge non solamente la morte, ma ogni passion nociva, sí come contraria e nimica al senso; non pare che colui, il quale contro a questa universal natura delle cose sensibili adopera, sí come color fanno li quali se medesimi feriscono e uccidono, si possa o si debba giustamente dire «sensibile animale». E percioché pure animale è, resta ad essere animale di quella spezie, la qual non ha né ragione né sentimento, cioè vegetativo. E perciò l’autore in forma di vegetativo in questo luogo dimostra coloro che se medesimi uccisono, cioè in forma d’albero: il qual discrive noderoso e avvolto e pieno di stecchi, volendo per questo significare il nudrimento della potenzia vegetativa essere stato in cosa del tutto trasvolta dalla ragione, e contro ad ogni diritto sentimento aspra e spinosa.

Che l’arpie sieno loro cagione di doglia e di tormento, può esser questa la ragione. Viene tanto a dire in latino questo vocabolo «arpia», quanto «rapacitá» o «rapina»; e, percioché la cagione della perdizion di queste anime è la rapina, la quale a se medesime fecero della presente vita, uccidendosi; conoscendo esse ciò, e rammemorandosene, se ne dolgono e attristano con perpetui guai; e cosí questa rapina le fa dolorose, e ancora le costrigne a rammaricarsi e a far sentire il suo rammarichío. E non solamente gli attristano di questo, ma ancora, col toccar loro, gli rendon brutti e fetidi: intendendo per questo l’abominevole atto della uccisione aver del tutto ogni lor fama maculata e renduta orribile e biasimevole nel cospetto delle genti. E in quanto fanno i nidi sopra le lor dolorose piante, vuole mostrare cosí il lor dolore doversi continuamente aumentare, come la quantitá de’ tormentatori s’accresce nidificando e figliando. [Della loro erronea opinione è assai detto nella esposizion testuale.] E questo sia detto quanto al senso allegorico di coloro che se medesimi uccisono.

Resta a vedere della pena di coloro li quali bestialmente consumaron le lor sustanzie, la qual dice che è l’essere i miseri da nere cagne seguitati e sbranati e lacerati; la cui significazione è assai leggiere a poter vedere, conciosiacosaché coloro li quali di ricchezza, per lor male adoperare, vengono in estrema povertá, sia n continuamente afflitti e stimolati, anzi nelle coscienze loro stracciati da amarissime rimorsioni del lor bestialmente aver gittato quello che dovea, quanto la lor vita durasse, sostentare e aiutare: e son questi cotali o da tante cagne morsi, o in tante parti sbranati, quante sono le passioni le quali lor sopravvengono per la loro inopia, sí come è la fame, la sete, la indigenzia del vestimento, del calzamento, le infermitá, i disagi, i rimproveri, le beffe, le quali di sé o veggono o odon fare, o credon che fatte sieno. E son queste cagne tutte nere, cioè tutte piene di tristizia, la qual per lo color nero è significata; correnti e velocissime, in quanto subitamente, in qualunque parte si sieno, gli giungono e affliggono, in tanto che esse fanno loro spessissimamente disiderare e chiamar la morte. E questo basti alla parte seconda.

CANTO DECIMOQUARTO

I
Senso letterale

«Poi che la caritá del natio loco», ecc. Assai è manifesta la continuazione di questo canto col precedente, in quanto nella fine del superiore scrive come pregato fosse da quello spirito, che diceva aver fatto giubbetto a sé delle sue case, che esso raccogliesse i rami e le frondi sparte dall’impeto delle cagne, le quali avevano lacerato Giacomo di Santo Andrea; e nel principio di questo mostra come le raccogliesse. E poi, seguendo, dimostra in questo settimo cerchio punirsi quella spezie de’ violenti, li quali contro a Dio e contro alle sue cose violenzia fecero. E dividesi il presente canto in otto parti: nella prima discrive la qualitá del luogo, nel qual dice sé esser venuto; nella seconda dice sé aver veduti greggi d’anime dannate, e dimostra la pena loro; nella terza domanda d’alcun di que’ dannati, e il dannato medesimo gli risponde in parte; nella quarta Virgilio piú pienamente gli dichiara chi è colui e di cui domandato avea; nella quinta l’autore dice dove, ammonito da Virgilio, divenisse; nella sesta Virgilio gli discrive l’origine de’ fiumi infernali; nella settima l’autore fa una quistione a Virgilio, e Virgilio gliele solve; nella ottava e ultima l’ammonisce Virgilio come dietro a lui vada. La seconda comincia quivi: «O vendetta di Dio»; la terza quivi: «Io cominciai: – Maestro»; la quarta quivi: «Poi si rivolse a me»; la quinta quivi: «Or mi vien’ dietro»; la sesta quivi: «Tra tutto l’altro»; la settima quivi: «Ed io ancor: – Maestro»; la ottava quivi: «Poi disse: – Omai».

Dice adunque primieramente cosí: «Poi che la caritá», cioè l’amor, «del natio loco», cioè della patria; percioché igualmente eravamo amenduni fiorentini; «Mi strinse», ché altra cagione non v’era, «ragunai le frondi sparte» per l’impeto delle cagne, le quali avevan lacerato Giacomo da Santo Andrea, come di sopra è detto nella fine del precedente canto; «E rende’ le», secondo che pregato avea, «a colui», cioè a quello spirito rilegato in quel bronco, «ch’era giá fioco», per lo gridare e trar guai. «Indi», fatto questo, «venimmo al fine, onde si parte Lo secondo giron dal terzo», che è all’uscire di questo bosco; ed è questo secondo girone la seconda parte del settimo cerchio dello ’nferno; «e dove Si vede di giustizia orribil arte», cioè crudele e rigida.

«A ben manifestar le cose nuove», se medesimo piú distintamente parlando dichiara, e dice: «Dico che arrivammo ad una landa», cioè in una parte di quella regione, dove erano, «Che dal suo letto», cioè dal suo suolo, «ogni pianta rimuove»: e in questo dimostra sé esser uscito del bosco e pervenuto nel terzo girone, cioè nella terza parte del settimo cerchio. «La dolorosa selva», della quale di sopra è detto, «l’è ghirlanda», cioè circunda quella parte nella qual pervenimmo, «Intorno, come il fosso tristo ad essa»; cioè, come la selva è circundata, secondo la dimostrazion fatta di sopra, dal fosso nel qual la prima spezie de’ violenti bollono nel sangue, cosí essa selva circunda il luogo, nel quale dice pervennero.

 

«Quivi fermammo i passi a randa a randa», cioè in su l’estrema parte della selva e in su il principio della rena. «Lo spazzo», cioè il suolo di quel luogo nel quale pervennero, «era una rena». È la rena una terra tanto lavata dall’acqua, che ogni altra sustanzia o grassezza della terra n’è tratta, e perciò è infruttifera e sterile e rara; e, secondo alcuni, è detta «arena» da «areo ares», che sta per «esser secco e asciutto»; e da questo verbo mostra qui l’autor volere che venga quella rena della quale fa menzione qui, percioché le pone per adiettivo «arida». Altri dicono che ella viene da «haereo haeres», il quale sta per accostarsi, e, come i superiori, cosí costoro ancora dicon bene; ma i superiori dicono della rena secca, e costoro intendono della rena bagnata, la quale, mentre è molle, s’accosta e appicca. Ma, come detto è, quella della quale l’autore intende qui, è della spezie prima. «Arida e spessa»; «arida» è l’uno degli aggettivi della rena, come dicemmo, ma aggiugne «spessa», a dimostrare che in tutto il suolo di quel luogo non era alcuna interposizione d’alcun’altra spezie di terreno, e perciò ella era spessa, cioè continua. E, oltre a ciò, dice che era «Non d’altra foggia fatta, che colei», cioè che quella rena, «Che fu da’ piè di Caton giá soppressa».

Questo Catone, del quale l’autore fa qui menzione, fu quello il quale dopo la sua morte fu cognominato «uticense», da una cittá di Barberia chiamata Utica, nella quale esso se medesimo uccise. Fu adunque costui romano uomo, d’alta e di singular virtú, ed ebbe maravigliosamente in odio le maggioranze de’ cittadini; ed essendo giá nate tra Cesare e Pompeo le discordie cittadine, seguí in quelle le parti di Pompeo, non perché lui amasse, ma percioché il vide seguire al senato. Ed essendo per avventura in Affrica, in un paese chiamato Cirene, il quale è confine con Egitto, e quivi con lui insieme Gneo Pompeo, figliuolo di Pompeo magno, li quali in quelle contrade ragunavano quegli li quali potevano, per restaurare le forze di Pompeo stato giá vinto in Tessaglia; arrivaron quivi quegli navili sopra i quali Pompeo era andato in Egitto: e, avendo veduto uccider Pompeo, Cornelia, sua moglie, e Sesto Pompeo, suo figliuolo, verso quella parte s’erano rifuggiti. Da’ quali Catone e Gneo sentirono quello che a Pompeo era intervenuto: e perciò, ancora che il tempo fosse malvagio, Gneo si mise con parte della gente, la quale avevano, in mare; e Catone, considerata la qualitá del tempo, ché sopravveniva il verno, e ancora il mare che era da navicare, che non era altro che secche, sí come ancora è la costiera di Barberia; volendo pervenire in Numidia, dove sapeva essere il re Giuba, il quale era pompeano; con tutti quelli delle parti pompeane che con lui quivi rimasi erano, non essendo lor sicuro l’andar troppo vicini alle marine, si mise a venirne verso Numidia per le arene di Libia. Le quali non solamente sono sterili e solitarie e piene di serpenti e senza acque o fiumi, se non molto radi, ma elle sono, per lo calore del sole soprastante a quelle contrade, cocentissime e molto malagevoli a dover camminare, percioché non senza gran fatica vi si posson su fermare i piè di chi va. Or nondimeno la virtú di Catone fu tanta, che, quantunque le rene fossero molto cocenti e piene d’ogni disagio e di molti pericoli, esso condusse il suo esercito, dopo il secondo mese, nella cittá di Letti in Barberia, e quivi vernò con esso.

Potrebbonsi in laude di questo Catone dir molte cose sante e buone e vere; ma, percioché di lui pienamente si scriverá nel primo canto del Purgatorio, qui a piú dirne non mi distendo. Fu adunque ferventissima, come detto è, la rena la quale esso in Libia scalpitò, alla quale l’autore assomiglia quella che in questo giron trovò.

[Potrebbesi qui per alcuno muovere un dubbio cotale: e’ pare che per tutti si tenga, ogni cosa, la quale è infra ’l cielo della luna e la terra, essere stata dalla natura prodotta ad uso e utilitá dell’umana generazione; la qual proposizione non pare si possa verificare, considerata la qualitá del paese arenoso poco avanti discritto; percioché quello ad alcuno uso non è abile né utile quanto è agli uomini, percioché egli è sterile, né pianta né criatura vi vive, se giá serpenti non fossero, li quali sono nemici degli uomini. A questa opposizione, comeché alla nostra materia non paia che appartenga, si potrebbe per avventura cosí rispondere: esser vero nulla cosa essere stata dalla natura prodotta se non ad utile uso dell’umana generazione; ma di queste alcune per vari accidenti esserne divenute disutili, poi che prodotte furono, sí come è la predetta regione arenosa, e alcune altre in Asia simiglianti a quella: e però quello, che per accidente addiviene, non è difetto della natura, sí come ne’ nostri medesimi corpi noi possiam vedere, li quali il piú la natura produce sani e in buona abitudine, e noi poi, col disordinatamente vivere, corrompiamo e facciamo infermi.]

[E che non opera della natura, ma d’accidente, fosse l’essere Libia arenosa e sterile, si può da questa istoria comprendere, come altra volta è stato detto. Estimano certi molto antichi che giá fosse tempo che il mare, il quale noi chiamiamo Mediterraneo, non fosse, ma che, per opera d’Ercule, in ponente un monte il quale era continuo insieme d’alcun promontorio, il quale gli antichi chiamavano Calpe in Ispagna, e oggi è chiamato monte Gibeltaro, e d’un promontorio, il quale è dalla parte opposita chiamato Abila nel Morrocco, vicino ad una cittá chiamata Setta, si rompesse; e per quella rottura si desse la via al mare Oceano ad entrare infra la terra, come entrato il veggiamo, e avere occupato grandissima quantitá del mondo occidentale. Alla qual cosa fare non è da credere che acqua si creasse di nuovo, ma essere convenuto che di quella del mare Oceano questo mare Mediterraneo si sia riempiuto: convenne adunque che d’alcuna altra parte del mondo piú rilevata l’acque si partissero, e venissero in questo mare; e, partendosi, lasciassero alcuna parte della terra, la qual coprivano, scoperta, e alcuna parte del mare, la quale era molto profonda, meno profonda. E di quelle parti della terra, che scoperte rimasero, si può credere essere state le contrade di Libia, d’Etiopia e di Numidia, le quali arenose si truovano, e cosí ancora di quelle d’Asia. E che ciò possa essere stato vero, si puote ancora comprendere per quello che Pomponio Mela scrive nella sua Cosmografia, nella quale, parlando della provincia o del regno di Numidia, scrive in alcuna parte di quello trovarsi molte conche marine, ed essersi giá trovate ancore e altri strumenti nautici, sí come talvolta nel mare da’ navicanti gittati si lasciano, per tempesta o per altri casi: le quali cose assai ben paiono testimoniare quivi altra volta essere stato mare. E perciò, venendo ad alcuna conclusione, si può dire non essere stata quella contrada prodotta dalla natura fuori dell’uso dell’umana generazione, ma essere per lo avere il mare, che quivi era e navicavasi, per accidente fatto trascorrere altrove, e quella essere rimasa disutile e non atta all’uso umano.]

«O vendetta di Dio». Qui comincia la seconda parte del presente canto, nella quale, poiché l’autore ha discritta la qualitá del luogo nel quale pervenne, dimostra sé aver vedute greggi d’anime dannate, e dimostra similmente la pena loro. Dice adunque: «O vendetta di Dio». [Questo vocabolo «vendetta» usa impropriamente l’autore, sí come molti altri fanno; percioché vendetta propriamente è quella che gli uomini disiderano d’alcuna ingiuria, la quale hanno, o par loro avere, da alcun ricevuta; il qual disiderio non può cadere in Dio, percioché Iddio, come altra volta è stato detto, è una essenzia perfettissima, stabile ed eterna, e perciò in esso non può alcuna passione aver luogo. Ma noi ragioniam di lui come noi facciamo di noi medesimi: e assai son di quegli che scioccamente quello stiman di lui, che di se medesimi fanno, cioè che egli s’adiri, che egli s’accenda in furore, che egli si vendichi. Ed egli non è cosí. È il vero che le nostre non buone operazioni meritano d’esser punite, alla punizion delle quali insurge la sua giustizia; e questa, di sua natura, non come commossa da alcuna passione, secondo i meriti ritribuisce a ciascuno; e perciò, se per le sue malvagie opere ad alcuno avviene men che bene, noi diciamo ciò essere la vendetta di Dio, la qual, propriamente parlando, è l’operazion della divina giustizia. Vuolsi adunque questo vocabol «vendetta» intendere in questo luogo «giustizia di Dio».]

«Quanto tu déi Esser temuta da ciascun che legge», nel presente libro, «Ciò che fu manifesto agli occhi miei», de’ tuoi effetti! «D’anime nude vidi molte gregge», cioè molte brigate, molte schiere, «Che piangien tutte assai miseramente». Qui, posta la general pena di tutte, discende alle particularitá, dicendo: «E parea posta lor», dalla giustizia, «diversa legge».

E, venendo a dir quale, séguita: «Supin giaceva in terra alcuna genta», cioè parte di queste molte; e dice giacevan «supine», cioè col viso volto insú; «Alcuna», parte di questa molta gente, «si sedea tutta raccolta», con le gambe raccolte sotto l’anche, «Ed altra», parte di questa gente, «andava continuamente. Quella che giva intorno era piú molta», che alcuna dell’altre due le quali ha discritte, «E quella men, che giaceva», supina, «al tormento», il quale appresso discriverá; «Ma piú al duolo avea la lingua sciolta», cioè espedita. «Sovra tutto il sabbion», cioè rena, «d’un cader lento, Piovean di fuoco dilatate falde, Come di neve in alpe senza vento».

Appresso per una comparazione, o vogliam dire esemplo, dimostra quello che queste falde di fuoco adoperassero in tormento de’ dannati in quel luogo; e dice: «Quali Alessandro», re di Macedonia, del qual di sopra dicemmo piú distesamente, «in quelle parti calde D’India vide sovra lo suo stuolo Fiamme cadere infino a terra salde».

Due province sono in Asia chiamate ciascuna India. È il vero che l’una è detta India superiore, e l’altra India inferiore; e voglion questi, che il mondo discrivono, che i confini della superiore sieno col mare Oceano orientale, e sia caldissima provincia, e dinominata da un fiume chiamato Indo, il quale dopo lungo corso mette nel mar di Persia; e l’altra India essere contermine a questa superiore, ma piú occidentale, e non tanto fervente quanto la superiore: e Alessandro macedonico fu in ciascheduna di queste. Ora, per cosa la quale io abbia letta o udita, non m’è assai certo dove quello, che l’autor discrive qui, gli avvenisse, né se ciò gli avvenne per la natura del luogo ardentissima, la quale accendesse i vapori tirati sú in alto da’ raggi solari, e quegli accesi poi ricadessero sopra lo stuolo d’Alessandro, o se per alcuna arte de’ nemici queste fiamme fossero saettate sopra l’esercito d’Alessandro. E però, lasciando stare la istoria, la quale io non so (come io abbia non una volta ma piú veduto Quinto Curzio, che di lui assai pienamente scrive, e Guiglielmo d’Inghilterra e altri), e riguardando all’effetto, possiam comprendere l’autor per questo ingegnarsi di dimostrarci quello che in quella parte dello ’nferno avvenía sopra la rena, e sopra i miseri peccatori che in quel luogo dannati sono.

Poi segue parole spettanti piú alla provvidenza d’Alessandro che alla presente materia, se non in quanto dice che la rena s’accendeva come esca, da quelle fiamme che sú vi cadeano: «Perch’e’ provvide», Alessandro, «a scalpitar lo suolo Con le sue schiere»; e questo fece «accioché ’l vapore», acceso, che cadeva sopra la rena, «Me’ si stingueva», cioè spegneva, «mentre ch’era solo», cioè prima che con l’altre parti accese si congiugnesse. «Tale scendeva l’eternale ardore», quale mostrato è nell’esemplo di sopra detto, «Onde la rena s’accendea com’ésca Sotto fucile». D’assai cose e diversamente si compone quella materia la quale noi chiamiamo «ésca», atta ad accendersi da qualunque piccola favilla di fuoco; e il fucile è uno strumento d’acciaio a dovere delle pietre, le quali noi chiamiamo «focaie», fare, percotendole, uscir faville di fuoco. E l’accender di questa rena avveniva, per «addoppiare il dolore» de’ miseri peccatori che sú vi stavano.

«Senza riposo mai era la tresca». È la «tresca» una maniera di ballare, la qual si fa di mani e di piedi, a similitudine della quale vuol qui l’autore che noi intendiamo i peccatori quivi le mani menare, e però dice: «Delle misere mani»; e poi dimostra in che, dicendo: «or quindi, or quinci», cioè ora da questa parte del corpo, ora da quella, «Iscotendo da sé l’arsura fresca», cioè il fuoco che continuamente di nuovo piovea.

 

«Io cominciai: – Maestro». Qui comincia la terza parte del presente canto, nella quale, poi che l’autore ha discritta la pena de’ peccatori che quivi son dannati, ed esso domanda d’alcun di quegli dannati chi el sia, e il dannato medesimo gli risponde in parte. Dice adunque: «Io cominciai: – Maestro, tu che vinci Tutte le cose, fuor che i dimon duri, Ch’all’entrar della porta», di Dite, «incontro uscinci». Dice questo l’autore, percioché infino a quel luogo Virgilio avea con le sue parole vinto ogni dimonio che incontro gli s’era fatto, se non quegli che in su la porta di Dite sentirono: dove allegoricamente si dee intendere la ragione ogni cosa vincere, se non l’ostinazione, la quale sola la divina potenzia vince e matura, come di sopra è stato mostrato. «Chi è quel grande, che non par che curi Lo ’ncendio», di queste fiamme, negli atti suoi, «e giace dispettoso e torto», quasi non doglia senta del tormento, ma dispetto dell’esser tormentato, «Sí che la pioggia», delle fiamme, che continuamente caggiano, «non par che ’l maturi»? – cioè l’aumili.

«E quel medesmo, che si fu accorto Ch’io domandava il mio duca di lui, Gridò: – Qual io fu’ vivo, tal son morto». Possonsi per le predette parole, e ancora per le seguenti, comprendere quali sieno i costumi e l’animo dell’ arrogante; e primieramente in quanto dice che giace «dispettoso e torto», segno di stizzoso e d’orgoglioso animo, e poi in ciò che egli non domandato rispose gridando: percioché sempre i presuntuosi prevengon colle risposte, senza esser chiamati, e, volendo mostrare sé non aver paura d’alcuno, per essere uditi parlan gridando; e, oltre a ciò, confessando le lor medesime colpe, estimano di commendarsi maravigliosamente. E perciò dice che egli è tal morto quale egli fu vivo, cioè che, come vivendo fu dispettatore e bestemmiatore della divina potenzia, senza curarla, cosí dice che, ancora che dannato sia e pruovi quanto sia grave il giudicio di Dio, s’è similmente orgoglioso, superbo e bestiale.

E, per mostrare piú pienamente che cosí sia, segue: «Se Giove», cioè Iddio, secondo l’opinione erronea de’ gentili, «stanchi» cioè infino all’ultimo della lor forza fatichi, «i suoi fabbri, da cui», cioè da’ quali, «Crucciato prese la fólgore acuta, Onde l’ultimo dí», della mia vita, «percosso fui»; percioché, come appresso si dirá, fu fulminato: «O s’egli stanchi gli altri», fabbri, «a muta, a muta», cioè facendogli, poi che alcuni stanchi ne fieno, fabbricar gli altri, e cosí que’ medesimi, poi che riposati fieno, né altro faccian che folgori per ferirmi; «In Mongibello alla fucina negra», lá dove i fabbri di Giove fabbricano le fólgori, le quali Giove fulmina; ed, oltre a quegli, «Chiamando: – O buon Vulcano, aiuta, aiuta!», – a’ fabbri miei a far delle fólgori; «Siccom’el fece alla pugna di Flegra», nella quale esso fulminò i giganti; «E me saetti di tutta sua forza», con tutte queste fólgori le quali avrá fatte fabbricare; «Non ne potrebbe aver vendetta allegra», – del dispettarlo, che io feci, essendo io vivo.

[Ora a piú piena dichiarazion dare delle cose predette, è da sapere che, secondo le fizioni poetiche, come altra volta è stato detto, Giove fu re del cielo, e dicono che in luogo di rea! verga egli portava nella destra mano una fólgore, la quale aveva tre punte, e con questa dicono che esso fulminava chiunque l’offendeva; e, oltre a ciò, perché egli molte fólgori gittava, percioché assai erano i nocenti, gli attribuiscono piú fabbri, e in diversi luoghi. E il principale di tutti dicono esser Vulcano, iddio del fuoco, e sotto lui i ciclopi, uomini di grande statura, e robustissimi e forti, de’ quali Virgilio, nell’ottavo dell’Eneida, nomina tre, cioè Brontes e Steropes e Piragmon, li quali tutti fabbricano fólgori, e nell’isola di Vulcano, e in Etna (il quale volgarmente è chiamato Mongibello), e in altre parti. Oltre alle predette cose, scrivono i poeti che una spezie d’uomini chiamati «i giganti», di maravigliosa grandezza e statura di corpo, e di forza maggiore assai che umana, nati del sangue de’ Titani (li quali Giove aveva uccisi, quando liberò Saturno, suo padre, e la madre, della prigione di Titano), si levarono incontro al detto Giove, e, per volergli tôrre il cielo, posero piú monti l’uno sopra l’altro, e intorno a ciò grandissime forze adoperarono: contro a’ quali Giove combattendo in una parte di Tessaglia chiamata Flegra, tutti gli fulminò e vinse, e in quella battaglia gittò molte fólgori; per la qual cosa furono fieramente faticati i fabbri suoi. E questo è quel che vuol dire: «O s’egli stanchi gli altri a muta a muta», ecc.]

Ma in quanto dice questo superbo spirito che Iddio non potrebbe di lui aver «vendetta allegra», si dee intendere secondo l’opinione di colui che dice, percioché la bestialitá de’ blasfèmi è tanta, che essi estimano troppo bene fieramente offendere Iddio quando il bestemmiano o negano; non avveggendosi che in Dio non può cadere offensione alcuna, e che quella offensione, la quale essi credono fare a Dio, essi fanno a se medesimi; e tanto maggiore, quanto la forza della divina giustizia è maggiore in punirgli, che le lor non sono in bestemmiarlo. È il vero che, guardando alle cose temporali, che, considerata la eccellenza d’uno imperadore e la bassezza d’un povero uomo, non pare lo ’mperadore dover potere allegra vendetta prendere, se da quel cotal povero e di basso stato offeso fosse; e secondo questo intendimento si deono prendere le parole bestiali di questo spirito dannato, del quale è da vedere quello che contro a Dio commettesse. Intorno a ciò è da sapere, secondo che Stazio scrive nel suo Thebaidos, che poi che Edippo, re di Tebe, s’ebbe cacciati gli occhi e rifiutato il reggimento, Etiocle e Pollinice, suoi figliuoli, vennero del reame in questa concordia, che ciascun regnasse il suo anno, e, mentre l’uno regnasse, l’altro andasse a star fuor del regno dove piú gli piacesse. Per la qual cosa toccò il primo anno a regnare ad Etiocle, il quale era di piú dí, e Pollinice se n’andò in esilio ad Argo; dove, ricevuto dal re Adrasto e presa una sua figliuola per moglie, raddomandando al fratello il regno secondo le convenzioni, e non vogliendogli essere renduto, il re Adrasto, per racquistare il reame al genero, andò insieme con sei altri re sopra i tebani, e quivi piú battaglie si fecero. Ed essendovi giá stati morti quattro re, di quegli che con Adrasto andati v’erano, avvenne un dí che, appressatisi alla cittá quegli che con Adrasto eran rimasi, de’ quali era l’uno Campaneo, uomo di statura di corpo grande e di maravigliosa forza, bestiale e arrogante, appoggiata una scala alle mura di Tebe, quantunque d’in su le mura piovessero sopra lui infinite e grandissime pietre e travi e altre cose per vietargli il potere sopra le mura salire; nondimeno, sempre bestemmiando Iddio e dispettandolo, tanta fu la forza sua, che egli pur vi salí, e, occupata una parte del muro, con l’ombra sola della grandezza del suo corpo veduta nella cittá, spaventò i tebani. E quivi, non bastandogli il dispettar gli uomini, e continuamente gittando di sopra al muro pietre a’ cittadini, levato il viso verso il cielo, cominciò a chiamare gl’iddii che venissero a combatter con lui, dicendo: – O iddii, non è alcuna delle vostre deitá, la quale ora adoperi per li paurosi tebani? o Bacco, o Ercule, cittadini di questa terra, ove siete voi? Ma egli m’è noioso chiamare alle mie battaglie i minori iddii: vien’ tu, o Giove, piú tosto che alcuno altro: chi è piú degno di te d’occorrere alle mie forze? Vieni e occorri con tutte le forze tue! sfórzati con tutte le tue folgori contra di me! tu se’ pur forte a spaventare le paurose fanciulle co’ tuoni! – Le quali parole, e forse molte altre, mossero gl’iddii a dolersi; ma Giove, ridendosene, cominciato il cielo a turbare e a tonare, piovendo di forza, e continuamente cadendo fólgori, una ne cadde sopra Campaneo, della quale essendo il corpo suo tutto acceso, stette in piede, e, conoscendo sé morire, guardava in qual parte si dovesse lasciar cadere che piú offendesse, cadendo, i nemici: e in questa guisa cessò ad un’ora la vita e la superbia sua.