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Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3

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CANTO DECIMOTERZO

I
Senso letterale

«Non era ancor di lá Nesso arrivato», ecc. Assai leggiermente si vede qui la continuazione del presente canto col precedente: in quanto nella fine del precedente dice che, avendo Nesso mostratogli quali fossero alquanti di quegli che nel sangue bollivano, indietro se ne ritornò e ripassossi il guazzo; e nel principio di questo mostra come essi, non essendo ancora Nesso dall’altra parte del fiume, entrano per un bosco, della qualitá del quale esso procedendo dimostra. E dividesi questo canto in quattro parti: nella prima dimostra la qualitá del bosco, nel quale dice che entrarono; nella seconda dimostra una ammirazione, la quale ebbe l’autore e dalla quale per lo ammaestramento di Virgilio si solvette, e parla con uno spirito il quale gli manifesta chi egli è, e come quivi e perché in piante salvatiche mutati sieno; nella terza dimostra una spezie di tormenti strana dalla primiera, data a certi peccatori, le cui colpe non furono con quelle medesime de’ primi equali; nella quarta dimostra per le parole d’uno spirito che spezie di tormentati sieno questi nuovi, e chi fosse lo spirito che parla. La seconda comincia quivi: «E ’l buon maestro»; la terza quivi: «Noi eravamo»; la quarta quivi: «Quando ’l maestro».

Dice adunque: «Non era ancor di lá», cioè all’altra riva del fiume, «Nesso arrivato, Quando noi ci mettemmo per un bosco, Che da nessun sentiero era segnato». E per questo si può comprendere il bosco dovere essere stato salvatico e per conseguente orribile, poiché alcuna gente non andava per esso; peroché, se alcuni per esso andati fossero, era di necessitá il bosco avere alcun sentiere. [E chiamansi «sentieri» certi viottoli, li quali sono per li luoghi salvatichi, per antiphrasim, quasi dica «sentiere», cioè pieno di spine e di stecchi, li quali in latino sono chiamati «sentes», conciosiacosaché in essi sentieri alcuno stecco non sia; o vogliam pur dire che si chiamin «sentieri» dirittamente, percioché in essi sieno stecchi e pruni, conciosiacosaché tra’ luoghi spinosi sieno, e non paia quegli potere esser senza stecchi e spine.]

«Non fronda verde, ma di color fosco», cioè nero, era in questo bosco; e questa è l’altra cosa per la quale vuole l’autore si comprenda questo bosco essere spaventevole, cioè dal color delle frondi, il quale il dimostra oscuro e tenebroso: «Non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti»; alla qual cosa appare non essere in esso alcuno cultivatore o abitatore, per lo quale essendo il bosco rimondo e governato, fossero i rami andati diritti e schietti; «Non pomi v’eran, ma stecchi con tosco», cioè velenosi, e questo ancora dá piú piena chiarezza della salvatica qualitá del bosco.

Le quali cose quantunque assai dimostrino della miserabile essenza d’esso, nondimeno, per dimostrarlo ancora piú odioso, induce due dimostrazioni: e l’una mostra da certe selve molto solinghe e piene di fiere salvatiche, conosciute dagl’italiani; e l’altra mostra dalla qualitá degli uccelli che in esso bosco nidificano. E dice: «Non han sí aspri sterpi, né sí folti», cioè sí spessi, «Quelle fiere selvagge», le quali stanno nelle selve poste tra’ due confini, li quali appresso disegna; «che ’n odio hanno Tra Cecina e Corneto i luoghi colti», cioè lavorati.

Hanno le fiere salvatiche i luoghi lavorati ed espediti in odio, in quanto gli fuggono, percioché né vi truovano pastura come nelle selve, né gli truovano atti alle loro latebre, né sicuri come le selve; o hannogli in odio, in quanto talvolta, uscendo delle selve, e vegnendo ne’ luoghi colti, tutti gli guastano, come massimamente fanno i cinghiari. E dice «tra Cecina e Corneto», percioché tra queste due ha d’oscure e pericolose selve e solitudini, e massimamente sopra un braccio d’Appennino, il quale si stende verso il mezzodí insino nel mare Tireno, il quale i moderni chiamano il monte Argentale, nel quale appare che giá in assai parti abitato fosse, ove del tutto è oggi quasi abbandonato. E non solamente in questo monte, ma per le pianure tra’ due predetti termini poste, ha selve antiche e spaventevoli, nelle quali dice l’autore non essere «sí aspri sterpi», percioché sono spinosi come sono i pruni, e altre piante ancora piú pericolose ch’e’ pruni: e i due termini, tra’ quali dice esser queste selve cosí orribili, sono Cecina e Corneto. È Cecina un fiume di non gran fatto, il qual corre a piè o vicino di Volterra, dal qual pare si cominci quella parte di Maremma che piú è salvatica; e l’altro è Corneto, il quale è un castello alla marina, non molte miglia lontano a Viterbo, il quale alcun credono che giá fosse chiamato Corito, e fosse la cittá del padre di Dardano, re di Troia.

Appresso, mostrata l’una cosa, per la quale ne vuol dare ad intendere il bosco, nel quale entrato è, essere oscuro e malagevole, ne mostra l’altra, quella discrivendo dalla qualitá degli uccelli che in esso fanno i lor nidi; e dice: «Quivi», cioè in quel bosco, «le brutte arpie lor nido fanno»; e, accioché d’altra spezie d’uccelli non intendessimo, ne scrive di quali arpie voglia dire, e dice esser di quelle «Che cacciâr delle Strofade i troiani Con tristo annunzio di futuro danno». E, accioché meglio per la lor forma conosciute sieno, discrive come sien fatte, dicendo che queste arpie «Ale hanno late, e colli e visi umani, Piè con artigli e pennuto ’l gran ventre; Fanno lamenti in su gli alberi strani», di quel bosco, li quali chiama «strani», percioché son d’altra forma che i nostri dimestichi, come di sopra è dimostrato.

Ma, avanti che piú si proceda, è da vedere quel che voglia dire che i troiani fossero cacciati da questi uccelli delle Strofade. Ad evidenza della qual cosa è da sapere che, partito Enea da Creti e venendo verso Italia, pervenne ad isole le quali sono nel mare Ionio chiamate Strofade; e in quelle co’ suoi disceso, e trovatovi bestiame assai, e fattone uccidere e cuocere, avvenne che, mangiando, sopravvennero uccelli, li quali sono chiamati «arpie», li quali rapivano i cibi posti davanti ad Enea e a’ suoi; e non solamente gli rapivano, ma ancora bruttavano sí quegli li quali toccavano, che egli erano in abominazione a coloro che gli vedevano: per la qual cosa Enea comandò che con le spade in mano fossero cacciate via. Per la qual cosa una di loro, chiamata Celeno, postasi sopra un alto albero, sopra di loro disse: – Voi, troiani, per l’averne uccisi i buoi nostri, ci movete anche guerra, e volete della loro patria cacciare l’arpie: ma io, secondo che io ho da Apollo, v’annunzio che non vi fia conceduto prima di potere in Italia comporre alcuna cittá, che per vendetta dell’ingiuria, la quale n’avete fatta, voi sarete da sí crudel fame costretti, che per quella voi mangerete le mense vostre. – Col quale «tristo annunzio di futuro danno», Enea, quasi cacciato, si partí di quelle isole, verso Italia navicando. E sono quelle isole, le quali solevano essere nominate Plote, però chiamate Strofade, percioché insino a quelle furono le dette arpie, essendo state cacciate dalla mensa di Fineo, re d’Arcadia, seguite da Zeto e d’Achelai; e, percioché essi quivi, per comandamento, fecero fine alla caccia e tornaronsi indietro, sono l’isole chiamate Strofade, il qual nome suona in latino «conversione». Di queste arpie si dirà alquanto piú distesamente, lá dove il senso allegorico del presente canto si dimostrerá.

E cosí avendo per molte cose l’autor dimostrata la qualitá di questo bosco, séguita: «E ’l buon maestro»; dove comincia la seconda parte di questo canto, nella quale l’autore scrive un’ammirazione la quale ebbe, e dalla quale per lo ammaestramento di Virgilio si solvette; e parla con uno spirito, il quale gli manifesta chi egli è, e come quivi e perché in piante salvatiche mutati sieno. E dividesi questa parte in nove: nella prima Virgilio gli dimostra in qual girone egli è; nella seconda si maraviglia l’autore d’udir trar guai e non vede da cui; nella terza Virgilio gli mostra come da questa maraviglia si solva; nella quarta l’autore fa quello che Virgilio gli dice; nella quinta lo spirito schiantato si rammarica; nella sesta Virgilio il consola e domandalo chi egli è; nella settima lo spirito dice chi egli è; nella ottava il domanda Virgilio come in quelle piante si leghino e se alcuna se ne scioglie mai; nella nona lo spirito risponde alla domanda. La seconda comincia quivi: «Io sentia»; la terza quivi: «Però disse»; la quarta quivi: «Allor porsi»; la quinta quivi: «E ’l tronco suo»; la sesta quivi: «S’egli avesse»; la settima quivi: «E ’l tronco: – Si»; la ottava quivi: «Però ricominciò»; la nona quivi: «Allor soffiò».

Dice adunque: «E ’l buon maestro», disse: – «Avanti che piú entre», infra questo bosco, «Sappi che se’ nel secondo girone», – cioè nella seconda parte del settimo cerchio, nel quale si punisce la seconda spezie de’ violenti, cioè coloro li quali o se medesimi uccisero, o li lor beni mattamente [disparsero e] dissiparono; «Mi cominciò a dire, – e sarai, mentre Che tu verrai nell’orribil sabbione», sopra ’l quale si punisce la terza spezie de’ violenti; «Però riguarda bene, e sí vedrai Cose che torrien fede al mio sermone», se tu non le vedessi; e ciò sono gli spiriti essere divenuti piante silvestri e in quelle piagnere e dolersi.

Per le quali parole l’autore divenuto piú attento, dice: «Io sentia d’ogni parte». Qui comincia la seconda parte della parte seconda principale di questo canto, nella quale l’autore si maraviglia d’udire trar guai, e non vedere da cui; e però dice: «Io sentia d’ogni parte», di quel bosco, «trarre guai, E non vedea persona che ’l facesse, Per ch’io tutto smarrito m’arrestai». E questo smarrimento avvenne, percioché immaginar non potea che i guai, li quali udiva, uscissono di que’ bronchi, li quali vedea. E quinci scrive quello che estimò che Virgilio credesse, quando si mosse ad aprirgli donde quegli guai venivano, dicendo: «Io credo ch’ei credette», Virgilio, «ch’io credesse, Che tante voci», dolorose, «uscisser tra que’ bronchi. Da gente che per noi si nascondesse».

 

«Però disse il maestro». Qui comincia la terza parte della seconda principale di questo canto, nella quale Virgilio gli mostra, come da questa maraviglia si solva, e dice: «Però disse il maestro» (per lo credere che esso credesse ecc.): – «Se tu tronchi Qualche fraschetta d’una d’este piante, Li pensier c’hai», cioè che quegli che traggono i guai, li quali tu odi, sian gente che per noi si nasconda; «si faran tutti monchi», cioè senza alcun valore, sí come è il membro monco, cioè invalido e impotente ad alcuna operazione.

«Allor». Qui comincia la quarta parte della parte seconda di questo canto, nella quale l’autore fa ciò che Virgilio gli dice, e però segue: «Allor», mosso dal consiglio di Virgilio, «porsi la mano un po’ avante, E colsi un ramicel da un gran pruno». Chiamal «pruno», percioché era, come di sopra ha mostrato, pieno di stecchi.

«E ’l tronco suo». Qui comincia la quinta parte della parte seconda di questo canto, nella quale lo spirito schiantato si rammarica; e però dice: «E ’l tronco suo», cioè quel pruno, donde còlto avea, o ver troncato il ramuscello; o, secondo che spongono altri, il tronco suo, cioè quella particella tronca da quel gran pruno; «gridò: – Perché mi schiante?». – E queste parole paiono assai dimostrare la parte schiantata esser quella che parlò, e non quella donde fu schiantata, comeché appresso paia pure aver parlato e parlare il pruno. «Da che fatto fu poi di sangue bruno», cioè tinto, il quale usciva del pruno, per quella parte donde era stato schiantato il ramuscello: «Ricominciò a gridar: – Perché mi scerpi? Non hai tu spirto di pietade alcuno?». Quasi voglia qui l’autore mostrare avere i dannati compassione l’uno delle pene dell’altro; e questo mostra, in quanto questo pruno non sapeva che l’autor fosse piú uomo che spirito. Poi segue e mostragli nelle sue parole perché di lui doveva avere alcuna pietá, dicendo: «Uomini fummo», nell’altra vita, «ed or siam fatti sterpi», in questa; «Ben dovrebb’esser la tua man piú pia», in ritenersi di non avermi schiantato, «Se stati fossimo anime di serpi», le quali, peroché crudeli animali sono, forse parrebbe che meritato avessero che verso loro non s’usasse alcuna pietá.

Appresso queste parole del pruno, per una comparazion dimostra in che maniera le parole uscissero di questo pruno, e dice: «Come d’un stizzo verde, ch’arso sia Dall’un de’ capi, che dall’altro», capo, «geme», acqua, come spesse volte veggiamo; e non solamente geme acqua, ma ancora cigola, cioè fa un sottile stridore, quasi a modo d’un sufolare: «E cigola per vento che va via».

Egli è vero che ogni animale vegetativo in nudrimento di sé attrae con le sue radici quella parte d’ogni elemento che gli bisogna; e perciò quella parte, che trae dal fuoco e dalla terra, consiste nella soliditá del legno; e, senza alcun sentore, ardendo il legno, si riprende il fuoco quello che di lui è nel legno, e similmente quello, che v’è terreo, converte in terra. Ma dell’umido e dell’aere non avvien cosí, percioché, essendo l’umido, si come da suo contrario, cacciato dal fuoco, ricorre a quella parte donde noi il veggiamo uscire, e per li pori del legno ne geme fuori. Ma questa umiditá non fa nel suo uscire fuori alcun romore: l’aere, ancora per non esser dal fuoco risoluto, gli fugge innanzi, e, quando tiene la via che fa l’umido, volendo tutto insieme esalare, e trovando i pori stretti, uscendo per la strettezza di quelli, fa col suo impeto quello stridore o «cigolare» che dir vogliamo; e, convertito dall’impeto in vento, va via.

Dice adunque che «Cosí di quella scheggia», cioè di quel legno, «usciva insieme, Parole e sangue», come dello stizzo acqua e vento; «ond’io lasciai la cima», cioè il ramuscello che schiantato avea, «Cadere, e stetti come l’uom che teme», parendogli aver fatto men che bene. Ma Virgilio, vedendolo spaventato, supplí prestamente quanto bisognava, e a sodisfare all’offeso e a rassicurar l’autore, dicendo:

– «S’egli avesse». Qui comincia la sesta parte di questa seconda parte principale, nella quale Virgilio il consola, e domandalo chi egli è. Dice adunque: – «S’egli avesse potuto creder prima», che egli avesse schiantato questo ramuscello – «Rispose il duca mio, – anima lesa», cioè offesa, «Ciò c’ha veduto», con lo schiantare il ramuscello, «pur con la mia rima», cioè con le parole mie sole: e vuolsi questa lettera cosí ordinare: «Il duca mio rispose. – O anima lesa, se egli avesse prima potuto pur con la mia rima credere ciò che ha veduto, Non avrebbe egli in te la man distesa», a cogliere il ramuscello: «Ma la cosa incredibile», cioè che di voi uscissero i guai, li quali esso sentiva, «mi fece Indurlo ad ovra, ch’a me stesso pesa», cioè a schiantare quel ramo dalla tua pianta. «Ma digli chi tu fosti, sí che, invece», cioè in luogo, «D’alcuna ammenda», all’offesa la qual fatta t’ha, «tua fama rinfreschi», cioè rinnuovi, col dire alcuna cosa laudevole di te, «Nel mondo sú, dove tornar gli lece», – cioè è lecito, sí come ad uomo che ancora vive e non è dannato.

«E ’l tronco: – Sí». Qui comincia la settima parte della seconda principale di questo canto, nella quale lo spirito dice chi egli è, e però comincia: «E ’l tronco: – Sí col dolce dir», cioè con la soavitá delle tue parole, «m’adeschi», cioè mi pigli, e spezialmente in quanto m’imprometti di rinfrescar la fama mia nel mondo. «Ch’io non posso tacere», che io non ti manifesti quello di che tu mi domandi; e però «e voi non gravi», cioè non vi sia noioso, «Perch’io un poco a ragionar m’inveschi», cioè mi distenda, mostrandovi quello, per che meritamente potrá rinfrescare la fama mia.

«Io son colui che tenni ambo le chiavi». Qui dimostra lo spirito chi egli è, ma nol dichiara per lo propio nome, ma per alcuna circunlocuzione, nella quale egli intende di dimostrare la preeminenza la quale ebbe in questa vita, e, oltre a ciò, la cagione che da quella il togliesse, e fosse cagione della sua morte; e ancora dimostra la innocenza sua, credendo per questa circunlocuzione essere assai ben conosciuto. E però, accioché con men fatica s’intenda questa sua circunlocuzione, è da sapere che costui fu maestro Piero dalle Vigne della cittá di Capova, uomo di nazione assai umile, ma d’alto sentimento e d’ingegno; e fu ne’ suoi tempi reputato maraviglioso dettatore, e ancora stanno molte delle pistole sue, per le quali appare quanto in ciò artificioso fosse; e per questa sua scienza fu assunto in cancelliere dell’imperador Federigo secondo, appo il quale con la sua astuzia in tanta grazia divenne, che alcun segreto dello ’mperadore celato non gli era, né quasi alcuna cosa, quantunque ponderosa e grande fosse, senza il suo consiglio si deliberava; per che del tutto assai poteva apparire costui tanto potere dello ’mperadore, che nel suo voler fosse il sí e il no di ciascuna cosa. Per la qual cosa gli era da molti baroni e grandi uomini portata fiera invidia; e, stando essi continuamente attenti e solleciti a poter far cosa, per la quale di questo suo grande stato il gittassero, avvenne, secondo che alcuni dicono, che avendo Federigo guerra con la Chiesa, essi, con lettere false e con testimoni subornati, diedero a vedere allo ’mperadore questo maestro Piero aver col papa certo occulto trattato contro allo stato dello ’mperadore, e avergli ancora alcun segreto dello ’mperadore rivelato. E fu questa cosa con tanto ordine e con tanta e sí efficace dimostrazione fatta dagl’invidi vedere allo ’mperadore, che esso vi prestò fede, e fece prendere il detto maestro Pietro e metterlo in prigione: e, non valendogli alcuna scusa, fu alcuna volta nell’animo dello ’mperadore di farlo morire. Poi, o che egli non pienamente credesse quello che contro al detto maestro Piero detto gli era, o altra cagione che ’l movesse, diliberò di non farlo morire, ma, fattolo abbacinare, il mandò via. Maestro Piero, perduta la grazia del suo signore, e cieco, se ne fece menare a Pisa, credendo quivi men male che in altra parte menare il residuo della sua vita, sí perché molto gli conosceva divoti del suo signore, e sí ancora perché forse molto serviti gli avea, mentre fu nel suo grande stato. Ed essendo in Pisa, o perché non si trovasse i pisani amici come credeva, o perché dispettar si sentisse in parole, avvenne un giorno che egli in tanto furor s’accese, che disiderò di morire; e, domandato un fanciullo il quale il guidava, in qual parte di Pisa fosse, gli rispuose il fanciullo: – Voi siete per me’ la chiesa di San Paolo in riva d’Arno; – il che poi che udito ebbe, disse al fanciullo: – Dirizzami il viso verso il muro della chiesa. – Il che come il fanciullo fatto ebbe, esso, sospinto da furioso impeto, messosi il capo innanzi a guisa d’un montone, con quel corso che piú poté, corse a ferire col capo nel muro della chiesa, e in questo ferí di tanta forza, che la testa gli si spezzò, e sparseglisi il cerebro, uscito del luogo suo; e quivi cadde morto. Per la quale disperazione l’autore, sí come contro a se medesimo violento, il dimostra in questo cerchio esser dannato.

Dice adunque cosí: «Io son colui, che tenni ambo le chiavi Del cuor di Federigo», imperadore. E vuole in queste parole dire: io son colui il quale, con le mie dimostrazioni, feci dire sí e no allo ’mperadore di qualunque cosa, come io volli, percioché, sí come le chiavi aprono e serrano i serrami, cosí io apriva il volere e ’l non volere dell’animo di Federigo. E però segue: «e che le volsi Serrando e disserrando sí soavi», cioè con tanto suo piacere e assentimento, «Che dal segreto suo quasi ogni uom tolsi», in tanto gli erano accette le mie dimostrazioni. E, questo detto, vuoi dimostrare che meritamente avea ogni altro tolto dal segreto dello ’mperadore, dicendo: «Fede portai al glorioso ufizio», cioè d’essere suo secretario, per lo qual quasi si poteva dir lui essere l’imperadore, «Tanta, ch’io ne perdei il sonno e’ polsi». Perdesi il sonno per l’assidue meditazioni, le quali costui vuol mostrare che avesse in pensar sempre a quello che onore e grandezza fosse del signor suo; e in ciò dimostrava singulare affezione e intera fede verso di lui. I polsi son quelle parti nel corpo nostro, nelle quali si comprendono le qualitá de’ movimenti del cuore, e in queste piú e men correnti si dimostrano le virtú vitali, secondo che il cuore è piú o meno oppresso da alcuna passione; e perciò, dicendo costui sé averne perduti i polsi, possiamo intendere lui voler mostrare sé con sí assidua meditazione avere data opera alle bisogne del suo signore, che gli spiriti vitali, o per difetto di cibo o di sonno o d’altra cosa, ne fossero indeboliti talvolta, e cosí essersi perduta la dimostrazione, la quale de’ lor movimenti fanno ne’ polsi.

E, detto questo, dimostra la cagione del suo cadimento e della sua morte, dicendo: «La meretrice», cioè la ’nvidia, la quale perciò chiama «meretrice», perché con tutti si mette, come quelle femmine le quali noi volgarmente chiamiamo «meretrici»; vogliendo in questo che, come quelle femmine hanno alcun merito da coloro a’ quali elle si sottomettono, cosí la ’nvidia aver per merito il disfacimento di colui al quale ella è portata. [Ma, percioché ancora in parte alcuna non s’è singulare ragionamento avuto di questo vizio, percioché ancora al luogo dove si puniscono gl’invidiosi non s’è pervenuto, poiché qui cosí efficacemente in poche parole ne parla, sará utile, secondo quello che di questo vizio sentono i poeti, dire alcuna cosa.]

[Discrive adunque questo pessimo vizio Ovidio nel suo maggior volume in questa forma:

 
… Domus est imis in vallibus huius
abdita, sole carens, non ulli pervia vento:
tristis et ignavi plenissima frigoris et quae
igne vacet semper, caligine semper abundet.
 

E poco appresso séguita:

 
… Videt intus edentem
vipereas carnes, vitiorum alimenta suorum,
invidiam, visamque oculis avertit: at illa
surgit humo pigre, semesarumque relinquit
corpora serpentum, passuque incedit inerti.
 

E poco appresso:

 
Pallor in ore sedens, macies in corpore toto,
nusquam recta acies, livent rubigine dentes,
pectora felle virent, lingua est suffusa veneno:
risus abest, nisi quem visi fecere dolores;
nec fruitur somno, vigilantibus excita curis:
sed videt ingratos, intabescitque videndo,
successus hominum; carpitque et carpitur una:
suppliciumque suum est, ecc.]
 

[Nella quale discrizione se noi sanamente riguarderemo, assai appieno vedremo i pestiferi effetti di questo vizio. Essa, secondo che noi veggiamo da Ovidio scritto, abita nelle valli, cioè, secondo il giudicio dello ’nvidioso, nelle piú misere fortune, percioché allo ’nvidioso pare sempre che coloro, alli quali esso porta invidia, sieno in maggiore e migliore e piú rilevata fortuna di lui; e, oltre a ciò, nell’abitazione dell’invidia, cioè nel petto dello invidioso, non luce mai sole, né vi spira alcun vento, cioè non v’entra mai alcuna cognizione di veritá, né buon consiglio, né parole salutifere d’alcuno, ma sempre è pieno di tristizia, ed è freddissimo, si come quello nel quale stare non può alcun caldo di caritá. E in quanto dice i suoi cibi essere carni di vipere, dobbiamo intendere la crudeltá de’ suoi pensieri e de’ suoi divisi appetiti, de’ quali, miseramente aspettando, esso pasce la dolorosa anima.]

 

[Poi dice questa invidia andar con pigro passo: per la qual cosa possiam comprendere il peso e la gravezza del vizio opprimere tanto colui che compreso n’è, che ad ogni altro movimento, che a quel solo al quale il tira il corrotto appetito, esso sia tardo e lento; e che esso sia palido e magro, assai convenientemente è detto, a dimostrare quanta sia la forza della passione, la quale dentro l’affligge, in tanto che, dando impedimento alla virtú nutritiva, causa la pallidezza e la magrezza.]

[E, in quanto scrive la invidia in parte alcuna non guarda diritto, ne dimostra il giudicio dello ’nvidioso esser perverso, e contro ad ogni ragione e dirittura; e l’avere essa i denti rugginosi, ne dichiara il rado uso che allo ’nvidioso pare avere nel poter divorare coloro alli quali porta invidia, quantunque egli in continuo esercizio ne sia; e l’avere il petto verde per lo fiele, il quale è abitacolo dell’ira, ci si dichiara mai nel petto dello ’nvidioso seccarsi o venir meno, ma sempre vivere e starvi verde l’iracundia, la qual sempre, sí come offeso dall’altrui felicitá, lo stimola a vendetta, e al disfacimento di colui a cui invidia porta; e cosí ancora avere la lingua sempre bagnata di veleno, dobbiam comprendere il continuo esercizio dello ’nvidioso, il quale, dove con altro offender non può, non si vede mai stanco di raccontar cose nocive e di seminare scandalo. Oltre a tutto questo, non ride mai lo ’nvidioso, se egli non ride del danno altrui, e sempre vegghia, e sta attento ad ogni cosa colla quale nuocer potesse, con grandissimo suo dolore vedendo coloro alli quali invidia porta e i lieti avvenimenti degli uomini.]

E, percioché nelle corti de’ gran prencipi han sempre di quegli che sono messi avanti, o degni o non degni che sieno, e di quegli ancora che sono lasciati addietro; e questo vizio non è altro che una passione ricevuta per l’altrui felicitá, senza offesa di colui che la passion riceve; par di necessitá le corti doverne esser piene, e tanto piú quanto maggior sono. Per la qual cosa meritamente dice l’autore questa meretrice non aver mai «torti gli occhi», cioè vòlti in altra parte, dall’ospizio dello ’mperadore, e lei esser vizio e morte comune delle corti.

Adunque con cosí fatto nemico ebbe il maestro Piero a fare, sí come qui nel testo si dimostra, dove dice l’autore: «La meretrice», cioè la ’nvidia, «che mai dall’ospizio Di Cesare non torse gli occhi putti», cioè malvagi e disleali; «Morte comune», d’ogni uomo, cioè vizio deducente a morte, «e delle corti vizio; Infiammò contro a me», cioè accese, «gli animi tutti», de’ cortigiani; «E gl’infiammati infiammâr sí Augusto», cioè lo ’mperador Federigo, «Che i lieti onor», posseduti per lo glorioso oficio, «tornâro in tristi lutti», in quanto esso fu privato della grazia dello ’mperadore e dell’uficio e del vedere, e cacciato via. «L’animo mio, per disdegnoso gusto», il quale, come di sopra è mostrato, fu tanto che il fece in furia divenire, e, «Credendo col morir fuggire sdegno», cioè non essere reputato degno d’avere ricevuta la repulsa dello ’mperadore; «Ingiusto fece me», tanto che egli ne meritò esser dannato a quella pena, «contra me giusto»: volendo per avventura in queste parole intendere che, dove egli stimò, uccidendosi, mostrare la sua innocenza, avvenne che molti opinarono lui non averlo per ciò fatto, ma averlo fatto sospinto dalla coscienza, la quale il rimordea del fallo commesso. E però, a purgare questo intendimento, séguita: «Per le nuove radici»; chiamale «nuove», percioché non molto tempo davanti ucciso s’era, e in quel luogo convertito in pianta, «d’esto legno», nel quale voi mi vedete trasformato, «Vi giuro che giammai non ruppi fede Al mio signor, che fu d’onor sí degno». E poi, parendogli con questo giuramento aver certificati della sua innocenza, segue: «E, se di voi alcun nel mondo riede, Conforti la memoria mia», cioè la fama, «che giace Ancor del colpo, che ’nvidia mi diede», – quello apponendomi che io mai fatto non avea.

«Un poco attese», Virgilio dopo queste parole, «e poi: Dacché ’l si tace, – Disse ’l maestro mio, – non perder l’ora, Ma parla, e chiedi a lui s’altro ti piace», – di sapere.

«Ond’io a lui: – Domandal tu ancora Di quel che credi ch’a me satisfaccia, Ch’io non potrei», domandarlo io, «tanta pietá m’accora», – cioè mi prieme il cuore. Ed è possibile l’autore questa pietá tanto non avere avuta per compassione che avuta avesse dello ’nfortunio dello spirito, ma per se medesimo, il qual conosceva similmente per invidia, non per suo difetto, dover ricevere delle noie, delle quali aveva maestro Piero ricevute, e state gli eran predette, come di sopra appare.

«Perciò ricominciò». Qui comincia la parte ottava di questa seconda parte principale del presente canto, nella quale il domanda Virgilio come in quelle piante si lega, e se alcuna se ne scioglie mai. Dice adunque: «Perciò», cioè per quello che io avea detto, «ricominciò», a parlar Virgilio e dire: – «Se l’uom ti faccia Liberamente ciò che ’l tuo dir priega» (cioè di confortare la memoria tua che giace, ecc.), «Spirito incarcerato», in cotesto tronco, «ancor ti piaccia», oltre alle cose che dette n’ hai, «Di dirne come l’anima si lega In questi nocchi», cioè in questi legni nocchiosi; «e dinne, se tu puoi, S’alcuna», anima, «mai di tai membri», quali sono questi nocchi, «si spiega», – cioè si sviluppa o si scioglie.

«Allor soffiò». Qui comincia la nona parte della seconda parte principale del presente canto, nella quale lo spirito risponde alla dimanda fatta da Virgilio, e dice cosí: «Allor», cioè udita la domanda e volendo rispondere, «soffiò lo tronco forte», per questo dimostrando parergli amaro e noioso, non il dire come l’anime diventin bronchi, ma il rammemorarsi della cagione perché esso fosse tronco divenuto; «e poi», che soffiato ebbe, «Si convertí quel vento», che uscí fuori del tronco nel soffiare, «in cotal voce», cioè: – «Brievemente sará risposto a voi». E, dopo queste parole, séguita la risposta alla domanda fatta, dicendo: «Quando si parte l’anima feroce»: è l’anima di quegli, che se medesimi uccidono, «feroce», cioè di costume e maniera di fiera, in quanto crudelmente e ferocemente contro a se medesima adopera, quel corpo uccidendo, il quale per albergo e per istanza l’è dato dalla natura per insino allo estremo della vita sua; «Del corpo ond’ella stessa s’è divelta», cioè cacciata e separata uccidendolo; «Minos», quel dimonio il quale nel quinto canto scrive l’autore essere esaminatore delle colpe e giudicatore de’ luoghi a quelle convenientisi, «la manda alla settima foce», cioè al settimo cerchio dello ’nferno, nel quale si puniscono i violenti. «Cade», questa anima mandata da Minos, «in la selva», la qual tu vedi qui, «e non l’è parte scelta», una piú che un’altra, nella quale ella debba il supplicio determinatole ricevere; «Ma lá dove fortuna», cioè caso, «la balestra», la gitta o fa cadere; «Quivi germoglia», cioè nascendo fa cesto, «come gran di spelta». È la spelda una biada, la qual, gittata in buona terra, cestisce molto, e perciò ad essa somiglia il germogliare di queste misere piante; e, dopo questo germogliare, dice che «Surge in vermena», cioè in una sottil verga, come tutte le piante fanno ne’ lor principi, «ed in pianta silvestra»: la pianta è maggiore che la vermena, in quanto la vermena non pare ancora atta a trapiantare per la sua troppa sottigliezza, dove la pianta, essendo giá piú ferma e piú cresciuta, è atta a trapiantare; e però è chiamata quella verga degli alberi, che giá ha alcuna fermezza, «pianta».