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Racconti politici

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XIII

Due giorni sono trascorsi. Una immensa folla di popolo sta adunata dinanzi alla stazione della ferrovia.

Un giovane abbigliato di rosso si ferma presso gli sportelli di una antica carrozza – i cristalli si abbassano – una mano lunga e sottile viene ad incontrare quella del giovane – il tumulto della piazza affollata copre il susurro di quell'addio misterioso e sublime.

Chi bada agli episodii laddove c'è un popolo intero che si abbraccia nei santi fremiti dell'amore e della patria? Volgete intorno lo sguardo – e dappertutto vedrete delle eroiche madri, delle spose gagliarde, che si separano senza piangere dai figli e dai mariti! – Dove fiammeggia una camicia rossa, quivi si aggruppano dei cuori di amanti e di sorelle, quivi la canizie dei padri rifulge di nobile orgoglio e le rughe dei volti materni sembrano irradiarsi di giovinezza.

Il segnale che richiama i viaggiatori al convoglio è suonato. Edoardo si stacca dalla carrozza stemmata, e slanciandosi nelle braccia di una donna che sta in un lato a rimirarlo con occhio di invidia – mia buona madre! – esclama – l'ultimo bacio è per te… perdonami ciò che mio padre ti fa soffrire per cagion mia!

– Oh, nulla!.. Che la mia benedizione ti accompagni!

E poichè gli occhi di quella madre aveano lasciato scorrere una lacrima – Edoardo la asciugò con un bacio – e s'immerse nella folla per entrare nella stazione.

Dopo alcuni minuti, al fischio della locomotiva rispose dalla piazza e dai portici un urlo di acclamazioni. Le donne agitavano i fazzoletti… i fanciulli battevano le mani – i vecchi si drizzavano sulla persona coll'impeto dei loro venti anni.

Frattanto il convoglio si involava, lasciando indietro un'onda di canti.

Il torrente della folla si riversava nella città. – Tutte le parole suonavano ammirazione ed entusiasmo.

Due uomini in sulla età si incontrarono a poca distanza dal sottopassaggio.

L'un d'essi era là da alcuni minuti, quasi rannicchiato dietro uno stipite, e pareva assistere a quella scena da spettatore indifferente o sdegnoso.

– To'!.. chi vedo! anche voi, signor De Mauro!.. – esclamò l'altro che veniva dalla stazione. – Si è mai dato uno spettacolo più sublime di questo?.. Scene da far piangere i sassi… e nessuno piangeva!.. Che giovani!.. che faccie!.. che slancio!.. Voi li avrete veduti quando montarono nei vagoni… Pareva che prendessero d'assalto una fortezza!..

– Se li ho veduti! – rispose il De Mauro a voce alta – come volete che io non li abbia veduti, mentre c'era anche lui… quel bel mobile di Edoardo!

– Come! vostro figlio?..

– Sicuramente! mio figlio… Non avevo che quello… e non potevo dare di più… io!

Alcuni, che si erano fermati ad udire, si partivano esclamando:

– Anche lui! un figlio unico!.. un milionario!

E il signor De Mauro, per la prima volta in sua vita, si illuse a tal segno da credersi un grande patriota, un martire della indipendenza italiana.

PARTE TERZA
Entusiasmo

I

La piccola città di… non aveva dato che cinque volontarii, avanzi anche questi dell'illustre drappello di Palermo e di Milazzo. – Era apatia? era diffidenza? Fatto è che una volta partiti quei cinque valorosi soprannominati i cinque abbonati delle vittorie garibaldine, non si ebbe più sentore in città che altri intendesse seguirli. A spegnere l'ardore della gioventù erano giunte – dicevasi – due lettere: l'una da Como, l'altra da Gallarate, nelle quali veniva dipinta coi più sinistri colori la situazione dei volontari già accorsi ai depositi. I preti e i così detti cittadini di senno esageravano le dicerie, fors'anche le sopracaricavano di calunnie, a quale scopo si intende.

La popolazione di… nelle prime settimane di giugno presentava ancora il suo aspetto normale. Alla stazione della ferrovia, malgrado il quotidiano passaggio delle truppe che traevano al Mincio, il concorso dei curiosi non era di molto accresciuto.

Volete di più? – Una compagnia comica era venuta ad installarsi nell'unico teatro della città, e mentre nelle capitali più popolose d'Italia si chiudevano tutti i luoghi di pubblico divertimento per mancanza di spettatori – quella piccola compagnia coglieva applausi e danaro.

Come vedete, la città di… rappresentava un anacronismo di storia contemporanea.

Nullameno, le produzioni drammatiche del piccolo teatro non mancavano di riflettere l'attualità co' suoi colori appassionati e vivaci – e gli avvisi quotidiani, da oltre una settimana, non avevano mai cessato di promettere un dramma bellicoso, scritto appositamente da penna concittadina per la benefiziata della prima attrice. Questo nuovo dramma si annunziava col titolo: La partenza dei Volontari.

In una città più infervorata di patriottismo poteva bastare un tal titolo a chiamare in teatro un insolito concorso. Ma qui la maggiore attrattiva dello spettacolo era riposta nella circostanza dell'autore concittadino. Un istinto maligno di curiosità e di invidia si era manifestato all'annunzio del nuovo dramma. La rappresentazione era attesa con ostile impazienza.

Non vi è città così meschina, starei per dire non vi è in Italia borgata o paese, che non abbiano il loro poeta disconosciuto e tribolato, qualche volta detestato dalla intera popolazione. – Gli è già molto che nei grandi e popolosi centri, il poeta e l'uomo di lettere vengano tollerati per la compassione che ispirano. Nelle piccole città predominate dalla crassa possidenza, nei borghi ove è sindaco il droghiere, dove i consiglieri della Giunta sono anche membri della fabbriceria, il poeta e il letterato rappresentano l'abbominio.

Povero Lanfranchi! – L'autore del nuovo dramma La partenza dei Volontari si chiamava Eugenio Lanfranchi – E all'età di venticinque anni egli aveva lasciato la sua piccola città per recarsi a Milano, dove sperava co' suoi talenti e col suo sviscerato amore per le lettere di raccogliere simpatia e protezione. – Era partito con due romanzi nella valigia e circa duecento franchi nel portamonete. Tornando, dopo un mese, alla terra natale, egli possedeva ancora i due romanzi, ma i suoi duecento franchi erano rimasti a Milano. Quand'egli scese alla stazione, taluni ebbero a notare con infinita compiacenza ch'egli era alquanto dimagrato, che indossava il medesimo abito col quale era partito, e che una delle sue scarpe mostrava la lingua. – La città prima di sera fu tutta piena di tale avvenimento – e la gioia fu universale. Due mesi dopo, egli fu costretto ad accettare un posto da scrivano nel consiglio del Comune. Nel deliberargli quell'impiego, al quale andava annesso lo stipendio di lire quaranta al mese, il Sindaco fece inserire nel resoconto della seduta che ciò si faceva onde togliere dall'inopia un giovane di condizione civile, il cui padre si era reso benemerito della città dirigendo per oltre venticinque anni le apparature per la funzione del Corpus Domini.

II

La rappresentazione del nuovo dramma era imminente. I comici, nel corso delle prove, si erano mostrati oltremodo soddisfatti dell'autore, preconizzandogli il più felice successo. Nullameno, all'avvicinarsi di quell'ora solenne e terribile nella quale il pubblico è chiamato a proferire il suo verdetto, Eugenio Lanfranchi sentì il bisogno di sottoporre il suo lavoro drammatico al giudizio di un amico. – Ma dove trovare un amico? – In città non vi era che uno solo, cui il Lanfranchi osasse dare questo nome – un altro poeta più giovine di lui e meglio favorito dalla fortuna, in quanto non avesse bisogno di esercitare la letteratura per vivere, o di subordinarsi, per necessità dell'impiego, alla dispotica albagia dei suoi concittadini.

Questo giovane poeta si chiamava Carlo De Santi. Toccava appena i venti anni, e faceva il suo corso di studi all'università di Pavia; ma da qualche tempo era tornato alla città natale per rimettersi da una grave malattia che l'aveva condotto a filo di vita.

La famiglia De Santi non aveva mai veduto di buon occhio l'intrinsichezza dei due giovani. Come abbiamo veduto, il Lanfranchi passava per un cervello matto, per un discolo. Ma forse la sua povertà più che la sua cattiva fama lo facevano reputare un soggetto pericoloso. Carlo ed Eugenio, all'epoca delle vacanze autunnali, si vedevano rare volte, di nascosto, attratti da quella omogeneità di caratteri e di studii che esercita un potere irresistibile negli anni della giovinezza.

Il Lanfranchi non aveva mai osato presentarsi alla casa dell'amico, dacchè questi era venuto da Pavia per rassodare la sua convalescenza. Il prepotente bisogno di interrogare il di lui giudizio sulla nuova produzione drammatica, prima di affrontare quello del pubblico, gli ispirò il coraggio di dirigersi a quelle soglie, malgrado il pericolo di vedersi respinto.

Entrò col cuore trepidante – salì le scale a celere passo – e ottenne di presentarsi all'amico, il quale non aveva ancora abbandonata la sua camera da letto.

Poichè i due giovani furono lasciati soli, essi presero a parlare con quell'enfasi esuberante, che fa sorridere gli scettici incalliti nella apatia, ma che è pure la espressione più naturale della giovinezza che sente e che crede.

III

– Ti sei fatto aspettare – cominciò Carlo con accento di mite rimprovero. – Son qui da dieci giorni, e il buon Giuseppe ti avrà portato i miei saluti e ti avrà detto come io desiderassi… una tua visita…

– Non ebbi coraggio… Mi avevano detto che la tua famiglia… il medico… che so io… non permettevano ai tuoi amici di venirti a trovare… Come stai?.. Molto debole, a quanto pare…

– Sì… debole ancora… molto debole!.. Ma tu ricordi la visita di Bruto a Ligario… Se tu vieni a invitarmi perchè io ti accompagni laddove in questi giorni debbono accorrere tutti gli Italiani che sentono amore di patria, fammi vedere una camicia rossa ed un fucile – A quella vista… io riacquisterò in un momento le forze perdute… sarò guarito completamente… e marceremo, perdio!.. e ci batteremo anche noi come si battono i leoni!

 

Le guancie di Carlo si erano animate di quel fuoco febbrile che è proprio dei convalescenti allorquando vengano assaliti da una emozione troppo viva. Eugenio arrossì a sua volta, ma il rossore di lui accusava l'imbarazzo e la vergogna di chi per la prima volta sente rinfacciarsi dalla propria coscienza un fallo inavvertito.

– Ah! tu vorresti partire per il campo? farti garibaldino? – prese a dire il Lanfranchi con qualche esitazione… Ebbene: io ti ho portata la camicia rossa… ho pensato a te…

– Davvero?!

– Un momento… Non bisogna… per ora… prendere il discorso alla lettera… Prima che la guerra incominci noi avremo tempo di indossare la santa divisa del garibaldino e di recarci sul luogo dell'azione… Frattanto io ho creduto di far bene adoperandomi a suscitare negli altri quell'ardore che pur troppo nella città nostra è condiviso da pochissimi. A tale scopo ho scritto un dramma che domani dev'essere rappresentato all'anfiteatro…

– E questo dramma porta per titolo?..

– La partenza dei Volontari!..

– Me ne avevano parlato, ma ero lontano dall'immaginare che tu ne fossi autore… Bravo! Ottimamente! A maraviglia!.. Io comprendo il tuo pensiero!.. Tu vuoi scuotere l'apatia dei nostri concittadini… vuoi eccitare la gioventù… trascinarla a seguirti… o piuttosto a seguirci… perchè io… ve'! io l'ho già bello e fissato il mio piano… Fra tre o quattro giorni, sano o malato, con o senza permesso del medico e della famiglia, io troverò ben modo di portarmi al quartiere di Garibaldi e di prendere il mio fucile!

Lanfranchi era umiliato da quell'enfasi, e seco medesimo si maravigliava di non aver concepita l'idea di arruolarsi fra le schiere dei volontarii prima che l'amico gli ricordasse, col suo vigoroso e nobile linguaggio, un tale dovere.

Ma il giovane convalescente aveva accolta colla massima buona fede la giustificazione dell'amico. Si era lasciato convincere che il pensiero di scrivere un dramma per suscitare l'entusiasmo bellicoso dei concittadini era degno di un'anima grande e fieramente patriotica.

Dopo qualche esitazione, il Lanfranchi si levò di tasca il manoscritto, e diede principio alla lettura.

IV

Il nuovo dramma non era un capolavoro d'arte; l'intreccio non brillava di originalità, i dialoghi riboccavano di quelle iperboli comuni che si fanno applaudire egualmente in teatro e alla Camera dei deputati. Il giovane autore mirava all'effetto. I suoi personaggi ritraevano con brutale naturalezza i tre partiti politici dell'Italia contemporanea, i quali, sulla scena, soglionsi ordinariamente raffigurare in un prete reazionario, in un sindaco moderato e servilmente ligio al potere, e in un gruppo di popolani, di poeti e di artisti infervorati di principii democratici e sempre disposti ad agire. Ma il carattere più spiccato, e diciamolo pure, il più falso, era quello di una eccentrica madre, la quale, avendo un unico figlio di età giovanissima e per giunta infermiccio, era pronta ad immolarlo sui campi di battaglia, dividendo con lui i disagi ed i pericoli. Questa madre spartana era la protagonista del nuovo dramma, e l'attrice benefiziata contava a buon dritto di suscitare immenso entusiasmo presentandosi colla divisa garibaldina ad insegnare a suo figlio la manovra del fucile.

Sublimi trasporti della giovinezza! Slanci maravigliosi dei vergini cuori, ai quali è dato sorvolare a quella pesante atmosfera di positivismo che è la caratteristica dell'epoca attuale! – Se la dolorosa esperienza della realtà ci obbliga qualche volta a sorridere di questi illusi sublimi, è anche vero che noi siamo costretti molto spesso ad ammirarli e ad invidiarli! – Noi dubitiamo, essi credono – ecco la differenza. Ciò che è falso per noi, considerato nei rapporti di un ignobile realismo – per essi, che vedono il creato attraverso al prisma abbagliante della giovane fede, è un ideale che somiglia al possibile. Leggendo Plutarco, noi disperiamo che il secolo parolaio produca dei nuovi giganti e dei magnanimi fatti – essi, come il Carlo Moor del poeta alemanno, si illudono di veder rivivere l'età degli spiriti gagliardi e dell'eroismo disinteressato.

Chi ha ragione? chi ha torto? – Qual è di noi che vede più giusto? – Curviamo la testa dinanzi a questi martiri predestinati che profondono il loro sangue. A ben considerare, essi non hanno che un solo torto, quello di esser pochi. Non per questo abbiamo noi diritto di ammonirli che essi spendono il loro entusiasmo e la loro vita a profitto di una turpe ed ignobile maggioranza che, pure disconoscendoli, farà traffico dei loro sacrifizii per amplificare la propria potenza. La società è orribilmente viziata e incadaverita. Essi rappresentano l'avvenire.

V

Alla lettura di quelle scene concitate e frementi, sul volto di Carlo si alternavano i pallori e le fiamme vivaci dell'entusiasmo.

Il dramma toccava la fine. Eravamo al punto in cui l'eroina dell'azione, strappato il figlio dalle branche di uno zio paolotto che si era attentato di impedirgli la partenza pel campo, fa sventolare una bandiera tricolore, e si volge alle madri italiane per animarle a seguire il di lei esempio.

Il Lanfranchi declamava quel brano drammatico coll'enfasi di un autore che si attende l'applauso: «Tu sei come me, Edoardo!.. La voce di tua madre ha trionfato sulle arti dei rettili immondi che ti stringevano al piede… Essi non sono riusciti a contaminare la tua giovinezza… La voce di una madre ha parlato al tuo cuore più fortemente che non quella di un falso Dio! – Volevano farti credere di non essere abbastanza vigoroso per sopportare i disagi e le fatiche del campo! Ma io… tua madre… io che ti ho data la vita… saprò ben io infonderti la forza che ti abbisogna!..»

– Sublime! interruppe Carlo, balzando dalla seggiola, e percorrendo la camera a passo agitato.

– «Noi andremo insieme dove ci chiama la voce del cannone… la vera voce di Dio!.. Tua madre ti starà a lato… per sorreggerti, per infonderti coraggio… e se una palla nemica colpisce il tuo petto… io raccoglierò il tuo cadavere con orgoglio… e lo porterò di città in città, di villa in villa, di contrada in contrada, e griderò alle madri italiane: vedete! era il mio unico figlio!.. egli è morto per la patria… egli è morto combattendo… Vendicatelo, o madri italiane! e che tutti i vostri figli seguano il di lui esempio!»

A tali parole, il giovane convalescente che non avea cessato di passeggiare per la camera a grandi passi – si avvicinò all'amico, gli strinse la mano con trasporto, e gli disse:

«Fissami un luogo… dove possiamo trovarci assieme… domani a sera… dopo la rappresentazione.»

– Che? tu vorresti uscire di casa?.. Nello stato in cui ti trovi?

– Non badare, Eugenio… Il tuo dramma mi ha ridonato la salute e il vigore… Io sono guarito, capisci? io sono guarito perfettamente – e dopodomani, all'alba, colla prima corsa intendo partire… Voglio ben credere che tu non avrai difficoltà ad accompagnarmi!..

Il Lanfranchi non poteva esitare. Egli era rapito di orgoglio in vedere la concitazione dell'amico; gli pareva che quell'entusiasmo fosse un effetto del suo dramma, fosse opera sua.

I due giovani si concertarono sul da farsi. A Carlo erano necessarie delle precauzioni per deludere la sorveglianza dei parenti. Fu convenuto, che dopo la rappresentazione, egli si sarebbe recato alla casa di Eugenio, e quivi sarebbero montati insieme in una vettura per trasferirsi alla più prossima stazione di ferrovia ad attendervi il convoglio del mattino. Questi concerti furono presi a bassa voce, senza spreco di parole. Infiammati dal medesimo ardore, quei due giovani cuori si indovinavano, si comprendevano a maraviglia.

– Un'ultima parola, disse Carlo all'amico nel momento in cui stavano per separarsi – ai mezzi penso io… la mia borsa è a tua disposizione. Solamente vorrei pregarti… ma temo che ciò non sia possibile… Mi dicono che ai depositi vi sia mancanza di camicie rosse… ed io muoio d'impazienza di indossare quella nobile divisa…

– Ci avevo già pensato! rispose Eugenio trionfalmente. – Io credo che domani a sera noi saremo tutti e due provveduti della nostra camicia. Per la rappresentazione del mio dramma ne furono ordinate sei… Gli è l'ultima recita della compagnia… e i comici… tu mi intendi… non avranno difficoltà a cederci per poco danaro questa parte del loro equipaggio!

Carlo, per tutta risposta si gettò nelle braccia dell'amico, e indi a poco i due giovani si separarono coll'animo tripudiante di sublimi emozioni.

Quel giorno il Lanfranchi doveva pranzare cogli artisti della compagnia drammatica.

Verso le ore quattro, egli si recò dunque ad un modesto alberghetto a poca distanza dal teatro, dove era atteso dalla scapigliata comitiva.

Quando Eugenio pose il piede nella sala da pranzo, uno degli attori stava leggendo ad alta voce in un foglio teatrale, giunto quella mattina da Milano la seguente notizia:

«Le compagnie drammatiche hanno fornito all'armata dei volontari italiani un numeroso contingente. Fra i molti che disertarono dall'arte per militare sotto le insegne gloriose si citano gli attori: Francesco Benincasa ed Enrico Brissoni, Pagani, Belli-Blanes, Schmit, Lavaggi, De-Martini, Bozzo, Pesaco, Mazzoni, Bajesi e Bisi. A questi voglionsi aggiungere Tito Taddei e Napoleone Straccia, G. Mozzidolfo, Carlo Zannini, Luigi Mazzoli ed Antonio Bellotti. Anche dal Circolo Ciniselli di Milano è disertato il fratello di Achille Majeroni. Quest'ultimo ha già dato un figlio al contingente dell'esercito. I grandi esempi di Gustavo Modena non andarono perduti. Questa eletta generazione di artisti che crebbe alla scuola dell'attore insuperabile, doveva necessariamente ispirarsi alle tradizioni patriotiche lasciate da lui.»

– Viva Gustavo Modena!

– Viva gli artisti italiani!

– Viva la guerra!

– Viva l'Italia!..

Tali furono i gridi che proruppero dalla comitiva, appena terminata la lettura di quel breve articolo.

– Eh! sicuro… il giornale ha ragione! – disse la madre nobile con sussiego – tutto quel poco di buono che ci resta nell'arte… e nella politica… è tutto opera di lui… Povero Gustavo!.. E dire che l'Italia non ha pensato ancora ad erigergli un monumento!.. Ma gli era troppo grande quell'uomo… e certa gente che so io… ha perfino paura della sua ombra!

– Ma pure – sorse a dire il caratterista – anni sono si era aperta una soscrizione all'ufficio di non so qual giornale di Milano… ed io so di aver versato cinque lire…

– Cinque lire…! c'era ben altro che cinque lire nella cassa…! – entrò a dire un altro comico – la sommetta era abbastanza tonda… ma poi… chi ne ha saputo qualche cosa? Dove è andato a finire quel denaro? – Indovinalo grillo!.. Si sono fatti dei monumenti per certi zucconi… Basta! Lasciamo là queste storie! Povera Italia! Povera arte! Ma lui, non era cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro, il povero Modena!

– Ci vuol altro che innalzare dei monumenti! – esclamò il secondo brillante della compagnia – bisogna imitare gli esempi che i grandi ci hanno trasmessi!.. Quel giornale, ove sono registrati i nomi dei nostri colleghi d'arte già partiti per il campo, quel giornale ci insegna la via che noi tutti dovremmo seguire!

A questo punto due giovani attori che sedevano vicini in un angolo della tavola, si scambiarono una occhiata di intelligenza.

– Basta! farà ciascuno ciò che gli piace meglio! disse il capocomico. – Domani sera finiscono le recite… e per ora io non ho stipulato verun contratto, nè saprei dove recarmi a dare delle rappresentazioni. Frattanto parliamo d'altro… Se non mi inganno, sarebbe ora che ci servissero da pranzo… Ci siamo tutti?..

– Non manca che il primo amoroso…

– È strano!.. Cherubini non si fa mai aspettare all'ora del pranzo – disse il capocomico… Ma eccolo! Mettiti al tuo posto, Cherubini! La compagnia è completa… Signor oste, voi potete servire la minestra!

Il Cherubini, appena entrato nella sala, erasi avvicinato al poeta per domandargli non so quale avviso sul modo di abbigliarsi, nella nuova produzione. Finito quel breve colloquio, egli andò a sedere presso la prima donna, e mentre il direttore della compagnia dispensava la minestra:

– Signori e signore – prese a dire – scommetto che questa volta io sono il primo a darvi la grande notizia!

– Una notizia! sentiamo! – esclamarono tutti ad una voce.

– E quale!.. Si vuole nientemeno… Ah! il signor poeta dovrà essere ben soddisfatto di quanto io sono per dire… Si vuole nientemeno che Garibaldi abbia lasciato Caprera…

 

– La bella novità!.. Il Pungolo l'ha già data non meno di dieci volte… Io non crederò che Garibaldi sia realmente partito da Caprera se non quando l'avrò veduto coi miei proprii occhi!

– Ebbene: se altro non vi abbisogna per rimanere convinti, non avrete che a recarvi domani alle due pomeridiane presso la stazione della ferrovia, e di là vedrete passare il generale che si reca col suo stato maggiore a visitare i depositi di Como e di Varese.

– Egli!..

– Garibaldi!..

– Domani!

– Egli… Garibaldi… domani… Alle due pomeridiane e cinque minuti sarà visibile alla stazione, dove probabilmente si arresterà un quarto d'ora.

Tutti i volti si animarono come se una favilla elettrica avesse percorso la comitiva. Quelle mascelle da comici atrocemente fameliche sostarono improvvisamente in segno di stupore e di venerazione. Le guancie degli attori più giovani impallidirono. Il brillante mormorò delle parole incomprensibili – i due, che poco dianzi si erano scambiati delle occhiate di intelligenza, questa volta si parlarono all'orecchio e parvero accordarsi in una mutua promessa.

– A costo di passare attraverso le inferriate, questa volta nessuno mi torrà di vederlo – esclamò la madre nobile che era una grassona di sessant'anni.

– Darei l'intiero prodotto della mia benefiziata di domani pur di accostarmi al suo vagone e baciargli la mano! – soggiunse la prima donna.

Ciascuno esprimeva il proprio entusiasmo con quel frasario iperbolico che è proprio degli artisti da teatro. Durante il pranzo uno solo fu il tema della conversazione. Il nuovo dramma fu obliato completamente – il poeta, gli attori, il padrone dell'albergo, i camerieri, i guatteri, il mozzo di stalla non ripetevano che un nome. Nelle sale, nella cucina, nel cortile, tutti i cuori e tutti i labbri inneggiavano ad un uomo.