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Read the book: «I Mille», page 5

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CAPITOLO XVII
ANCORA IL TENTATORE

 
Quel sottile velen – che nel virgineo
Cuore s’instilla – e paradiso umore
Ti sembra – E poi micidïali e tetre
Le miserie del mondo a te dischiude.
 
(Autore conosciuto).

Era la una della mattina, nel fatale 27 maggio del 60, e qualche cosa di fatale veramente pesava nell’atmosfera. – Tu ne sentivi la soma e ne andavi irrequieto. – Non era, come abbiam detto, l’alito appestato del Simoùn15, giacchè venti non se ne sentivano. – Afa? – non la so descrivere! – Io l’ho sentito però quel fatale mal essere, perchè anch’io in quella notte che precedeva un giorno di tempesta popolare contro la tirannide, anch’io respiravo l’atmosfera di Palermo e l’ho respirata coll’ansia di scorger l’alba che io bramavo – come la presenza della fanciulla amata – e che presentivo liberatrice.

Se soffocati dal malore noi, all’aria aperta, e marciando a dovere santo – a liberazioni di schiavi – che non soffrirebbero in quella pesante notte i rinchiusi nell’afa micidiale di un carcere?

In Palermo certo i dormenti eran pochi. E i detenuti? – molti! Gl’infelici precipitati nel fondo delle loro bolgie – senza colpe – e sostenuti solo dall’intemerata coscienza, languivano privi d’alimenti e d’un soffio d’aria libera!

Tiranni! a che tanto chiasso coi vostri cagnotti, se lo schiavo – raramente, ma però qualche volta – dopo di aver tastato i solchi troppo profondi che incisero i vostri ferri nelle sue carni, vi scaraventa sopra un palco che si chiama guigliottina o nei fossi delle casematte di Queritaro? Voi!.. che tanto faceste e fate soffrire l’umana famiglia di umiliazioni, di torture e d’omicidii!

Ed eran rinchiusi nelle celle della tirannide le nostre eroine, che lasciammo nelle mani della polizia all’Albergo d’Italia. – Rinchiuse nelle carceri più recondite dell’ergastolo di Castellamare – esse morivano di quella morte lenta, lenta, che appassisce, appassisce sino ad inaridire e troncare l’esistenza più florida e più robusta.

Esse furono prive del consorzio e divise ciascuna nella sua cella. Gl’interrogatorî di queste famose delinquenti dovevano essere presi a parte. Il despotismo nulla ignora di questa morte morale delle anime: l’isolamento e le torture dello spirito.

Il selvaggio cavallo delle Pampas, i suoi primi passi verso l’addomesticamento li fa con due giorni di corda corta e nessun alimento od acqua. Tali sono tutte le specie di padroni, e la tirannide ben conosce esser l’avvilimento dell’anima compagno dell’avvilimento del corpo.

Era dunque la una della mattina del 27 maggio 1860, quando la cella della Marzia fu semiaperta e l’orrida figura del tentatore – che già abbiamo fiutato in Piazza Reale nel peristilio dell’Albergo d’Italia ed in fondo di una carrozza alla passeggiata pubblica sulla sponda del Tirreno – mostravasi alla derelitta.

Orrida figura, dico, perchè sapeva scendere nei penetrali di quell’anima di Lucifero – e come Lucifero adorna di belle esterne forme.

Tale era questo demone a cui natura era stata prodiga di favori per sventura dei suoi simili.

E qui col ginocchio piegato davanti alla bellezza umana, io, vecchio e senza pretensione, devo un rimprovero o piuttosto un avvertimento alla donna: essa sarebbe assai meno infelice, se si occupasse un po’ più di discernere sotto l’involto d’un bell’uomo, l’anima di un Lucifero!

Marzia trasalì, ebbe dei brividi – come le successe sul marciapiede di Piazza Reale – riconobbe nell’ombra le sembianze del suo tentatore, e sull’impeto primo essa fu per lanciarsi contro di lui e sbranarlo.

«Marzia!» esclamò il Gesuita. «Marzia» ricominciava il prete, e quella voce risvegliando forse nella memoria della fanciulla chissà quali reminiscenze, essa ricadde sul suo lettuccio con immobilità disperata, «io sono venuto a liberarti, e tu sarai libera in questo momento, se vorrai seguire i miei consigli.

«I tuoi sono consigli di Satana» rispondeva la giovine rinvenuta dalla prima impressione e ritornando al suo essere eroico, «via, tentatore nefando, l’esistenza mi pesa solo per aver avuto la sventura di conoscerti. E la libertà, per cui io darei cento vite, datami da te la calpesterei come orribile dono, e me ne servirei soltanto per uscir da una vita che tu hai reso infame.

«Eppure io t’ho salvata da una fede di perdizione, Marzia, e t’ho posta sulla via del Signore e della santa sua Religione.

«Sappi, impostore, per confusione tua, ch’io tornai col pentimento alla fede d’Israele, alla fede dei miei padri. Solo alla mia innocenza io non potrò tornare – scellerato! – E tu ben lo sai; e sai quanti raggiri, quante menzogne e seduzioni tu adoperasti per ingannare una giovinetta tredicenne – prostituirla, e, quando sazie le tue libidini, chiuderla in uno di quei postriboli da voi chiamati conventi, per isbarazzartene.

«Via, assassino dell’anima! la tua presenza mi è mille volte più insopportabile di questo duro carcere».

A queste parole Marzia s’era rialzata, e l’occhio suo scintillava nell’oscurità come quello della tigre. – Il Gesuita, con una lanterna sorda nella sinistra, teneva colla destra la posterla semiaperta, pronto a chiuderla in caso che la fanciulla si fosse precipitata su di lui – azione di cui la credeva capace.

E veramente, dopo aver misurata la distanza collo sguardo, concentrate le spossate sue forze, Marzia fu d’un balzo contro la porta, che trovò chiusa dalla robusta mano del prete, ed il malvivente fu sollecito a dar un giro di chiave per non esporsi una seconda volta all’assalto della fanciulla.

Egli però aprì poco dopo una graticola da dove probabilmente si conferiva coi prigionieri pericolosi, e da dove vi si faceva passare il miserabile alimento.

«Marzia!» ripigliò la voce stridula del loiolesco, «il vecchio tuo padre…»; qui si udì uno di quei lamenti che non si ponno descrivere, e che l’antico fondatore della lingua italiana si contenta di accennare con quei suoi versi immortali:

 
E se non piangi, di che pianger suoli!
 

Non era il rantolo del morente, ma uno di quegli accenti di dolore che noi uomini non conosciamo, o di cui non racchiudiamo il tesoro. Solo la donna e forse solamente la madre, il di cui cuore è il vero santuario dell’amore, è capace di sì incomparabile dolore! – Ed il tonfo del corpo di Marzia stramazzante si udì nel fondo della cella.

Un sepolcrale silenzio seguiva, e solo quando l’impassibile ministro dell’inferno s’accorse che la vittima sua non era preda della morte, esso ricominciò: «Marzia! il vecchio tuo padre, lo sai, giace tuttora nei sotterranei dell’Inquisizione, sottoposto a giornaliere torture, e basterebbe una tua parola per liberarlo, e renderlo alla sua primitiva agiatezza».

Singhiozzi d’un’anima veramente travagliata erano la risposta dell’infelice.

«I tuoi Mille, Marzia, su cui speri ancora per liberarti, sono annientati. Essi furono distrutti dai generali Bosco e Van Michel: questa notte istessa avrai intesa le salve d’artiglieria, e le grida di vittoria, che echeggiarono dovunque in Palermo».

«Bugiardi! Bugiardi!» urlava la giovine profetessa, «i Mille passeggeranno vittoriosi sui cadaveri dei vostri mercenarii, sino alla distruzione della fucina infernale che mantenete in Roma, nel cuore d’Italia, per la sventura di questo infelice paese, e del mondo».

L’ultima parte della profezia potea avverarsi, ove i nostri concittadini fossero stati più solerti ad accorrere in sostegno dei Mille.

Nuovo silenzio seguì le ultime parole di Marzia, e raffreddato il parossismo di sdegno, di collera, e di dolore che sinora l’aveva invasa, essa ricadde spossata sul miserabile pagliericcio dominata dalle più sinistre riflessioni. – Suo padre! suo padre nei sotterranei del Sant’Officio! Questo pensiero l’uccideva! – Coi Mille che essa avrebbe accompagnati a Roma, la liberazione del genitore era possibile. Ma ora, rinchiusa in questa malefica bolgia, ove pochi giorni avrebbero bastato a distruggerla!

«Dio mio! che m’importa morire! non son io capace di affrontar la morte le mille volte come a Calatafimi! – La morte! – cos’è la morte? Ma la tortura! Dio mio! il mio povero padre sì amoroso, sì buono! alla tortura! colle sue carni strappate! la veneranda sua chioma insozzata, aggrumata da mortale sudore, e da sangue! in patimenti indescrivibili!»

Povera giovane! – tale era il soliloquio che ti straziava. – Ed il tuo tentatore?..

Eppure avea delle belle forme, quel mostro – quel parto dell’inferno! – Il tuo tentatore? come se avesse tenuto la mano sul tuo cuore, egli ne contava le pulsazioni egli, come nel giorno in cui ti prostituiva il corpo, non disperava a forza di diabolica pertinacia, di prostituirti l’anima!

Piangi – singhiozza – struggiti – che importa a gente di tal tempra! Tu commoverai le iene, ma costui! non rinnegò egli i sensi più squisiti della natura – ogni affetto di figlio, di padre, di congiunto? – Costui, che vedrà con sangue freddo distruggere dalle fiamme un’infelice creatura, chi deve sperare di vederlo intenerirsi, commuoversi alla tua disperazione?

Maledetti coloro che non ripugnano di vivere su questa terra venduta! nel consorzio di questi corruttori, barattieri di popolo! Maledetto chi non si risente degli oltraggi e delle umiliazioni a cui abbassano l’Italia, questi impostori in connivenza colla tirannide!

«Io chiedo poco, Marzia: dimmi soltanto ciò che tu sai di quei disgraziati che si chiamavan Mille, e che ora son morti per la maggior parte, o fuggenti verso l’Africa».

Spossata la sventurata fanciulla dalle privazioni, dalla scellerata scena, e più dall’aura mefitica dell’angusto e putrido suo carcere, non rispondeva alle infami insinuazioni del Gesuita, che con alcune mal articolate maledizioni. Poi tacque assolutamente per ciarlar che facesse lo iniquo.

Il prete – colla perseveranza che distingue questa razza di lupi – credendo Marzia sopita, o svenuta, riapriva; e diretto il chiarore della lanterna, verso il volto di lei, credè veder gli occhi chiusi da sonno, o da sincope, e si avventurò nella cella – non certo con onesto divisamento.

Ma il fulmine non colpisce con più velocità l’altiera quercia od il campanile della bottega, quanto colpì la nostra eroina il malvivente tentatore. – Essa volò sulla parte superiore del gesuita, lo squilibrò, rovesciollo, e come se fossero d’acciaio, conficcò le sue dita nel collo del giacente.

Era bello e spacciato monsignor Corvo, se un baccano che successe quasi contemporaneamente, non gettava l’allarme tra la dormente guarnigione di Castellamare. – E veramente una grandine di fucilate udivasi in tutte le parti del castello, dal di dentro però al di fuori. E chi ha fatto la guerra sa che ove basterebbe una fucilata, di notte se ne tirano mille.

Un diavolío poi, un correre con lanterne, e senza per ogni dove. E ciò valse al gesuita, poichè anche nella cella di Marzia capitarono birri che liberarono quello scellerato, con gli occhi già fuori dell’orbita.

Marzia da quella svelta e coraggiosa che era, non si smarrì di mente, ma presentendo che qualche cosa di nuovo dovea accadere al di fuori, con tale finimondo di fucilate, cannonate, grida, ecc. – e fiutando l’odor della polvere – come i generosi della sua specie – elettrizzata, precipitossi sulla posterla semiaperta, e frammischiossi nella turba confusa, che correva in ogni direzione.

CAPITOLO XVIII
L’ASSALTO DISPERATO

 
Alle donne Italiane, che noi
Vinceremo, o morremo, direte!
 
(Autore conosciuto).

A Mentana non abbiamo vinto, nè rifiutata la vita! Vi ponno essere dei popoli più steady, direbbero gl’inglesi, e ch’io tradurrò forse male, con impassibili, cioè che marciano in colonna serrata al passo verso delle batterie, che ne fanno macello e quelle colonne si serrano a misura che il ferro ed il piombo nemico le dirada. E sventuratamente per noi, ve ne sono varii, classificando certamente tra i primi i Britanni. Una volta erano i nostri padri di Roma, steady come le loro colonne di bronzo.

Ho detto: vi ponno essere dei popoli più fermi, più impassibili degli Italiani; ma certo nessuno più intraprendente.

Anche in tempi di depressione italiana, tra i più grandi scopritori di mondi nuovi primeggiano certamente Colombo, Americo e Caboto.

Una sola provincia dell’Italia, la Liguria, vessata in tutti i modi, da uno dei governi più abbietti del mondo – mantiene la marina mercantile nostra, fra le prime.

Camogli, paese di cinque mila anime, senza porto, e con poco favorevole posizione nautica, possiede seicento bastimenti d’alto bordo – ciocchè non può millantare paese al mondo.

Il nostro popolo si getta con alacrità inarrivabile a qualunque pericolo, e non smentisce il proverbiale suo valore. La causa ch’ei propugna è santa! Ei va – ne potete esser sicuro. Ma ciò che vorrei dai miei giovani concittadini, sarebbe un po’ più di costanza nei disagi della vita del campo, e nel portare a compimento definitivo questa rigenerazione patria, già per noi vergognosa, lasciata così a metà strada.

Cattivo Governo, infingardía nostra, e massime educazione pretina, sono i motivi del nostro abbassamento fisico e morale. Ma per Dio! ci vuol poi la scienza d’Archimede per capire che un prete è un impostore e che non si deve soggiacere a tanta infamia d’esser il ludibrio del mondo!

Cozzo e i suoi cinquanta assaltavano il forte di Castellamare – la posizione più importante del nemico, perchè proteggeva la comunicazione della flotta col quartiere generale – e lo assaltavano come i Genovesi nel 1746 – i Bolognesi nel 49 – e come i Bresciani assaltavano gli Austriaci dietro i loro baluardi – col pugnale!..

E non avendo altra arma, anche col pugnale ponno assalirsi i mercenari della tirannide!

Ed i cinquanta Palermitani eran giovani degni dei loro antenati – da non indietreggiare davanti a qualunque pericolo. – Ma troppo ineguale era la pugna!

Il fosso e la prima trincea furon varcati dai valorosi figli di Palermo, verso le due del mattino, e le sentinelle colla guardia esterna eran cadute sotto il loro ferro.

Chiuso però il gran cancello, che metteva nell’interno del forte, il procedere avanti divenne impossibile, e ripigliato coraggio, i Borbonici grandinarono sui cinquanta eroi tale una furia di palle, da uccidere la maggior parte, e metter quasi tutti i restanti fuori di combattimento.

Giungevano le fucilate direttamente dal cancello di ferro, dalle feritoie laterali, e da qualunque punto, o finestra, ove potevansi collocare tiratori.

E che potevano i nostri senza armi da fuoco?

In un momento lo spazio occupato dai cinquanta tra la trincea esterna ed il cancello, fu un mucchio di cadaveri e di feriti. – E i mercenari borbonici non cessavan dal fuoco.

Noi abbiam lasciato, nel capitolo anteriore, Marzia furibonda, correndo per i corridoi del castello, ed aprendo, con tutta la sveltezza di cui era capace, tante celle quante ne trovava, e così pervenne a veder i volti amati della sua Lina e di Lia: molti furono pure i detenuti patriotti in tal modo liberati.

Poche furono le parole d’intelligenza tra i liberati, ma quelle poche bastavano per intendersi, e formando un gruppo compatto, precipitaronsi sui difensori del cancello, li assaltarono alle spalle, li disarmarono, ed aprirono al residuo dei compagni di fuori.

Era veramente molto piccolo il residuo dei nostri prodi assalitori. Comunque, non essendo gravemente ferito, Cozzo, ed alcuni dei rimasti, al grido di: Viva l’Italia! che partiva dai liberatori capitanati dalle nostre eroine, si precipitarono sul cancello, riunironsi ai nostri, e tutti insieme, lanciaronsi nell’interno, sulla guarnigione, la quale, benchè numerosa, fuggiva spaventata in tutte le direzioni.

I liberati in quel trambusto eran pervenuti ad armarsi tutti – chi con armi da fuoco, chi con sciabole, e chi con altre armi tolte ai caduti ed ai fuggenti – e la partita diventava assai sfavorevole ai Borbonici, già disposti di abbandonare il forte, e gettarsi in mare, cercando la protezione della flotta.

Il sinistro genio d’Italia vegliava però sulla sorte della tirannide, e le conservò con le sue malizie per pochi giorni ancora, quel baluardo importante che, perduto il giorno 27 maggio, avrebbe sommamente servito all’impresa dei Mille su Palermo.

Il lettore ricorderà d’aver lasciato il gesuita rovesciato, ed in deplorevole condizione, nella cella di Marzia. Per la sventura del mondo, questa razza di vipere ha la pelle dura, e fattosi riconoscere dal birro che invase la cella, al rumore della lotta che vi era seguíta, questi lo aiutò a sollevarsi e lo accompagnò alla sponda del mare, ove il Monsignor – pezzo grosso – avea sempre un palischermo da guerra a sua disposizione.

Il settario di Loiola, per quanta poca pratica avesse delle cose militari, avea capito che un assalto era stato dato dalla parte di terra al castello, e conoscendo quanta importanza avea lo stesso, come veicolo, e protezione delle comunicazioni tra la flotta ed il quartier generale, corse immediatamente dall’ammiraglio, per prevenirlo del pericolo, e sollecitarlo a non abbandonare Castellamare.

Un avviso del Gesuita valeva un ordine, e ben lo sapeva il comandante della flotta; quindi tutte le compagnie di sbarco di tutti i bastimenti, furono con ogni celerità gettate sul forte per proteggere il presidio.

E ben era tempo! quando le prime barche da guerra approdavano, i fuggenti della guarnigione eran già affollati sul mare per precipitarsi, e tale confusione e trambusto succedeva tra questi mercenari, da far paura.

L’uomo di mare è un essere curioso: assuefatto a disprezzare il pericolo sull’onda, gli sembra che alacremente egli possa affrontar qualunque pericolo, e vi si getta il più delle volte con una gaiezza tutta sua, poi legato dal dovere tra quattro pareti di legno – a lui divenute monotone – egli è sempre contento d’esser inviato in terra, sia anche col pericolo della vita. Dal bordo della sua fregata, o vascello ove trovasi agglomerato con centinaia di compagni poco fortunati come lui, il marino vede sempre in terra un paradiso.

Fatale fu ai nostri valorosi tale propensione marinaresca, e le compagnie di sbarco – colla celerità propria di quella gente – internaronsi nel forte, incontraronsi coi vittoriosi, e per sventura nostra fecero cambiar la sorte delle armi.

Cozzo, ruggendo come un leone, con allato le tre guerriere, e seguito da un pugno di coraggiosi, assalì i nuovi sbarcati, e per più volte li ricacciò indietro; ma questi continuamente sostenuti da gente fresca, finirono per soperchiare i nostri e quasi distruggerli.

CAPITOLO XIX
L’ASSALTO FORTUNATO

 
Datemi l’arme, all’insidioso acume
Delle volpi di corte, i miti accenti,
A me l’acciaro! dell’oppresse genti
Dal furor dei tiranni è questo il nume.
 
(Palmi d’Arezzo).

Dopo alcune scaramuccie coi Borbonici a Renne, i Mille impresero quella famosa marcia di notte verso Parco, che li mise in facili comunicazioni coll’interno, e la parte orientale dell’Isola – marcia che io non ricordo d’aver veduto simile, e tanto ardua, nemmeno nelle vergini foreste dell’America. – Marcia che, senza la cooperazione di quei magnifici picciotti delle squadre siciliane, sarebbe stato impossibile di eseguire, o almeno di trasportare i pochi cannoni nostri e le munizioni.

L’alba del 22 maggio trovava i Mille a Parco, grondanti d’acqua piovana – e molli di fango dalla più disastrosa delle marcie di fianco – e se avessero avuto da fare con un nemico più diligente, quel giorno poteva essere funesto ai nostri Argonauti.

I cannoni erano smontati, e forse i loro affusti trovavansi a varie miglia di distanza. I cattivissimi moschetti infangati, e molti fuori di servizio, e la spossatezza della gente, avrebbero agevolato ai Borbonici la distruzione dell’egregia schiera.

Il 22 però passò senza novità. – I Mille ebbero tempo di rinfrancarsi, asciugar le loro scarse vestimenta, metter in ordine le loro armi, e prepararsi a qualunque avvenimento.

Solo il 23 mossero da Palermo i nemici, in due colonne: l’una direttamente al Parco per attaccarci di fronte; l’altra girando il nostro fianco sinistro, tentava di impadronirsi delle alture, e minacciava la nostra retroguardia e linea di comunicazione.

Il movimento combinato dal nemico non poteva esser migliore per esso, e mise i Mille nella necessità di abbandonare la posizione di Parco, e ritirarsi per lo stradale verso Piano dei Greci – ciocchè dovettero celeremente eseguire, dovendo fare un circuito assai grande – mentre la colonna nemica di cacciatori, sulla nostra sinistra, senza artiglieria, marciava per i monti, direttamente alla nostra linea di ritirata.

I Carabinieri Genovesi mandati sulla sinistra, per disturbare il progresso di tale colonna, vi pugnarono colla solita bravura, e perdettero alcuni dei loro prodi, tra cui Mosto – uno fra i migliori – fratello del Maggiore dello stesso nome, valoroso milite di cento combattimenti, ed uno dei martiri di Monterotondo. – Mosto ferito gravemente a Monterotondo, fu men felice di Uziel – il prodissimo della colonna Genovese – che vi morì da forte ed ebbe quindi la fortuna di non sorvivere alla sventura di Mentana.

Un distaccamento dei Mille con passo celere avendo preceduto la colonna sullo stradale, guidato dai patriotti della Piana, s’impossessò delle forti posizioni che dominano quel paese, e fermò la colonna dei cacciatori nemici la quale, credendo di soperchiare i Mille e disordinarli, ne fu invece soperchiata e resa incapace di avanzare un passo.

Quella sera s’accampò nelle vicinanze della Piana e s’inviò il generale Orsini sulla via di Corleone, coll’artiglieria, bagagli ed infermi – disposizione che principiata al crepuscolo, ingannò i nemici sulla direzione della colonna principale.

La notte stessa si lasciò il campo della Piana, e c’innoltrammo colla colonna senza impedimento nel bosco Cianeto che divide detto paese da Marineo.

Il 24 di maggio il nemico vedendo che tutta la forza dei Mille si ritirava verso Corleone, la perseguiva con circa cinque mila uomini delle migliori sue truppe, ed ebbe nelle vicinanze di quel paese un impegno col generale Orsini, in cui quest’ultimo si comportò egregiamente, sebbene con numero molto inferiore di uomini.

Qui mi è grato il ripetere: che solo in Sicilia potevasi effettuare un movimento coperto come quello che eseguirono i Mille dalla Piana a Palermo all’insaputa del nemico, il quale aveva il suo quartier generale a poche miglia di distanza.

Il 24 i Mille accampavano a Marineo.

Il 25 a Missilmeri – e tutte queste coraggiose popolazioni acclamavano l’arrivo dei fratelli, come se certi della vittoria.

E veramente il popolare entusiasmo ne era ben il precursore.

Quando si pensa che tutte queste belle popolazioni dell’Italia sono oggi così depresse ed umiliate – 25 milioni d’individui che hanno i ladri in casa – senza aver nemmeno il coraggio di lamentarsene! – Vergogna!

E si millanta valore italiano – capi guerrieri, prodi eserciti. – Via! via! nascondete quella fronte macchiata dagli sputi stranieri!

Il 26, noi raggiungemmo il campo del generale La Masa a Gibilrossa, ove s’erano riunite alcune migliaia d’uomini delle squadre Siciliane. Ed a Gibilrossa si decise di assaltar Palermo nella notte.

15.Vento del gran deserto Africano.
Age restriction:
12+
Release date on Litres:
28 September 2017
Volume:
320 p. 1 illustration
Copyright holder:
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