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I Vicere

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Teresa, adesso vicina ai dodici anni, formava il suo orgoglio, per la bellezza della persona e la bontà dell’animo. Mai un dispiacere da quella bambina; lo stesso principe, che a giorni pareva cercasse col lanternino i pretesti per andare in collera, non la coglieva mai in fallo. Bastava che le dicessero una volta: «Teresina, ciò dispiace a tuo padre», oppure: «Tuo padre vuole così», perché ella chinasse il capo senza fiatare. Per l’obbedienza esemplare, per la dolcezza del cuore, ella raccoglieva dovunque lodi e premi. Cresciuta negli anni, non la mettevano più nella ruota per farla passare tra le monache, a San Placido, ma la conducevano spesso al parlatorio della badìa. Ella che aveva frenato, piccolina, la paura di restar chiusa nello spessore del muro, e il terrore del crocifisso nero, preferiva anche ora, in cuor suo, le belle passeggiate all’aria aperta; ma poiché ai parenti faceva piacere che andasse dalla zia monaca, ella stessa sollecitava quelle visite dietro le grate. Ella passava per prove ancora più forti. La vigilia dei Defunti, tutti gli anni, la famiglia recavasi nelle catacombe dei Cappuccini, a visitare gli avanzi della principessa Teresa, per ordine del principe, il quale da canto suo restava in casa temendo che la vista dei morti gli portasse iettatura. La bambina tremava da capo a piedi. Che spavento, tutti quei morti pendenti dalle pareti, chiusi nelle casse, vestiti come in vita, con le scarpe ai piedi e i guanti alle mani; certuni con la bocca contorta come se urlassero dallo spasimo, altri che ridevano d’un riso sgangherato; la nonna, tutta nera in viso, nella bara di vetro, vestita da monaca, con la testa sopra una tegola e le mani aggrappate disperatamente a un crocifisso d’avorio!… Tremava tutta, la bambina, dallo spavento, dall’orrore, e la notte sognava tutti quei morti che le danzavano intorno; ma nascondeva il proprio spavento poiché il confessore le aveva detto che i poveri morti non possono far male, che è dovere visitarli, che bisogna continuamente pensare ad essi perché un giorno anche noi moriremo e andremo dinanzi al Giudice eterno. Quasi in tutte le chiese, del resto, ella aveva un senso di fredda paura; alla Madonna delle Grazie c’era una parete piena di doni votivi: gambe, teste, braccia, mammelle di cera sulle quali erano dipinte orribili piaghe paonazze; ai Cappuccini, nella cappella della Beata Ximena, vedevasi la bara dove custodivano il suo corpo. Dicevano che si conservasse così fresca, dopo secoli, come se fosse spirata da un’ora; ad ogni centenario della beatificazione scoperchiavano il feretro; ella pensava con terrore che fra dodici anni, nel 1876, sarebbe capitato il terzo centenario. Ma poiché faceva sempre forza a se stessa e niente traspariva delle sue paure, e la vedevano stare lunghe ore in quelle chiese, inginocchiata, pregante, tutti lodavano la sua pietà; alcuni dicevano perfino: «Cresce come la Beata; santa come lei!» E queste lodi, sì, l’inorgoglivano; per guadagnarsele sopportava tutto in pace. Anch’ella, come tutte le altre sue amichette, desiderava le belle vesti nuove, dai colori gai, dalle ricche guarnizioni, o le prime buccole, un anellino; ma suo padre diceva che queste cose guastano le ragazze; e invece di piangere e di gridare, come facevan tante, ella chinava il capo, confortata dalla sua mamma che le prometteva all’orecchio: «Vedrai, amorino mio, quando sarai grande!…»

Consalvo non aveva lo stesso carattere della sorella; tutt’al contrario; ma la principessa, scusandolo, lo esortava ad essere buono. Le esortazioni della mamma non davano molto frutto. Sperato invano di tornare a casa pei torbidi del Sessantadue, egli aveva visto passare gli anni uno dopo l’altro senza che il padre mantenesse la promessa di toglierlo dal Noviziato. Tutte le volte che era venuto al palazzo, il ragazzo l’aveva rammentata al principe; ma questi rispondeva invariabilmente: «Più tardi… in primavera… in autunno… non tocca a te pensarci!…» Così rodeva il freno, aspettando la primavera e l’autunno che lo ritrovavano ancora in quella prigione, smaniante, irrequieto, buttato a un tratto col partito dei liberali, nella speranza della soppressione dei conventi. Giovannino Radalì, che, durando la madre nel proposito di fargli pronunziare i voti, nutriva anche lui quest’unica speranza per tornare al secolo, lo aveva convertito; ma l’annunzio della soppressione somigliava alle promesse del principe: ripetute sempre, non si trovavano mai confermate dai fatti. Perciò, continuamente irritato dall’ostinazione del padre, pieno di invidia per quei compagni che ad uno ad uno se ne tornavano in famiglia a godersi la bella libertà, egli diventava il tormento dei maestri, dei fratelli, dei camerieri, di tutto il convento, e rifiutava anche di andare a casa, o, se vi andava, non salutava nessuno, non parlava, stava tutto il tempo della visita con tanto di muso. Ora che al palazzo non si rimoveva una seggiola senza il beneplacito della cugina, costei prestava mano forte al principe, giudicava che il ragazzo, pel momento, stava bene dov’era; gli diceva, con tono d’affetto materno, mentr’egli fremeva d’odio contro quest’altra: «Non dubitare; verrai via a suo tempo; per ora bisogna studiare… Vedi la mia figlioccia’! Anche lei va messa in collegio…»

La signorina Teresina in collegio?… Nella corte, tra la parentela, la notizia, appena risaputa, fu commentata in mille modi: «E perché?… Non sta bene in casa?… Il duca ha voluto così… E che c’entrava il duca?… No, è stato il principe… No, la cugina… La principessa piange da mattina a sera…» Ciascuno diceva la sua, qualcuno soffiava che forse la decisione era stata presa perché un giorno la signorina, entrata inavvertitamente nella Sala Rossa, aveva trovato il principe e la madrina in troppo intimo colloquio… Ma Baldassarre, col suo tono d’autorità che troncava tutte le chiacchiere, dava la versione schietta e genuina: tutte le grandi famiglie di Palermo e di Napoli, al giorno d’oggi, stillano di mettere le signorine in collegio, nei collegi a chic, dove imparano la lingua italiana e anche la francesa: il barone Cùrcuma ci aveva messo la sua ragazza, dunque la figlia del principe di Francalanza doveva andare anche lei in uno di quei collegi. Il signor duca conosceva che quello dell’Annunziata, a Firenze, era il più a chic di tutti, perché infatti costava più caro; e anche il signor don Raimondo e la contessa donna Isabella, che a Firenze c’erano stati di casa, dicevano altrettanto e approvavano che la principessina ricevesse l’educazione conveniente!…

Egli non diceva che donna Ferdinanda, alla notizia della decisione presa a sua insaputa, s’era scagliata con più violenza contro il principe e aveva perdonato a Chiara l’allevamento del bastardo per andare a sfogarsi con lei contro queste stupide novità dei collegi fiorentini, quando ai suoi tempi le ragazze nobili imparavano in famiglia a filar seta e non s’impinzavano di sciocchezze italiane e forestiere; non diceva che don Blasco girava per le case dei nipoti predicando la crociata contro le porcherie che si commettevano al palazzo… Pel Baldassarre, il principe era Dio, e tutto ciò che il padrone faceva era ben fatto. Rispettava anche gli altri parenti e perciò le voci di quelle guerre in famiglia lo contristavano positivamente; voleva che tutti andassero d’accordo per il buon nome, per il prestigio della casata. E negava i piccoli dissidi, scemava importanza ai grandi, imponeva silenzio al basso personale sempre con l’orecchie tese per acchiappare a volo qualche notizia piccante, attribuiva all’invidia delle altre case meno nobili e ricche le voci maligne che circolavano tra i servi. Esse non dovevano a nessun costo arrivare al padrone; se costui domandava perché il tale o tal altro guattero era stato congedato, egli trovava un buon pretesto, oppure diceva che era stato il signor Marco. Stimava pertanto l’amministratore, che era come lui geloso del buon nome della casa e pieno di rispetto verso il principe e di giusta severità verso i dipendenti.

Del resto, alla lunga, gl’invidiosi si stancavano di sparlare. Prima di tutto, alcuni dei parenti andarono via e perciò i motivi di lite scemarono. Il contino Raimondo un bel giorno, senza aver detto niente a nessuno, fece i bauli e se ne partì con la moglie per Palermo, lasciando a Pasqualino l’incarico di vendere la mobilia comperata un anno prima. Poi partì il duca diretto a Firenze e conducendo via anche la principessina Teresa, per metterla al collegio, com’erasi stabilito. La bambina, nel congedarsi, piangeva dirottamente dal dolore di lasciar la sua casa, di entrare nel collegio di Firenze, tanto lontano, dove neppure la domenica, neppur dietro a una grata, come a San Placido, avrebbe potuto vedere la sua cara mamma. La comare però le diceva:

«Non piangere così; non vedi che fai male a tua madre?…» e allora ella inghiottiva le sue lacrime, si ricomponeva. Il giorno della partenza, la principessa ebbe una convulsione di pianto, abbracciando furiosamente la figlia; e la stessa cugina aveva gli occhi rossi, ma faceva coraggio a tutti: «Teresina tornerà fra qualche anno; e poi ogni autunno l’andremo a trovare, è vero, Giacomo?… Verrò anch’io; sei contenta così?… Vedrai poi, quando tornerai istruita ed educata come si conviene, quanto tutte t’invidieranno!… Vedrai anche tu, Margherita, quanto sarai orgogliosa della mia figlioccia!…» La bambina allora chinò il capo, s’asciugò gli occhi, e disse alla sua mamma, seria e composta com’era sempre stata: «Non t’angustiare, mamma mia bella; ci scriveremo ogni giorno, ci rivedremo presto… Vedi che sono ragionevole?..» Un amore di figliuola, quella lì; vera razza dei Viceré!

Poi partì anche il cavaliere don Eugenio per Palermo. La ragione di questa partenza qui non si seppe molto bene. Il cavaliere aveva detto che certe grandi case palermitane lo avevano chiamato per associarlo in grandi e nuove speculazioni dove c’era da arricchire in poco tempo; ma le male lingue, che non tacciono mai, volevano dare a intendere che egli era scappato perché, mangiatisi i quattrini degli zolfi presi a credenza, contro cambiali che non poteva più pagare, correva rischio di prendersi qualche soma di sante legnate… Comunque andasse la cosa, fatto sta che, partite tutte queste persone, la pace tornò a regnare in famiglia. La cugina, affezionatissima, veniva giorno, sera e notte a tenere compagnia e a dare una mano alla principessa, che le era gratissima di tante attenzioni; venivano anche gli altri parenti, non più inviperiti come un tempo; gridavano, è vero, ogni tanto: don Blasco, per esempio, a motivo della soppressione dei conventi annunziata nel programma della nuova legislatura, o la signora donna Lucrezia contro il marito e i liberali; ma niente di positivo. Il principe, da canto suo, badava agli affari dell’amministrazione, ma senza più affaticarsi troppo, senza più tenere le interminabili sedute d’un tempo col signor Marco.

 

Ora un giorno, che fu giusto il 31 dicembre 1865, Baldassarre corse ad una chiamata del padrone il quale era nel proprio scrittoio in compagnia del notaio.

«Accompagna il notaio dal signor Marco e consegnagli questo biglietto,» gli disse il padrone.

«Eccellenza,» rispose Baldassarre, «è andato fuori mezz’ora addietro…»

«Va bene; metterai dunque il biglietto sul suo tavolino. E voi, notaio, mi farete il piacere d’aspettare un poco… Tu va’ a prendere un cartellino col si loca, di quelli delle botteghe; ce ne deve essere, nel magazzino… E attaccalo al balcone della sala del signor Marco.» Baldassarre, nonostante la sua abituale passività nell’obbedienza, restò un momento a guardar per aria. «Il si loca nel balcone della sala: hai capito?» ripeté il padrone che non amava dire due volte le cose.

«Subito, Eccellenza.»

Corso a prendere il cartellino, il maestro di casa salì a quattro a quattro le scale dell’amministrazione, entrò nel quartierino del signor Marco e, lasciato il biglietto sulla tavola, aperse la vetrata e si mise ad attaccar l’appigionasi. Non capiva bene che cosa significasse quell’ordine né quel che stesse per succedere; ma sentivasi inquieto. Giusto mentre finiva di legare la tavoletta, apparve, giù nella via, il signor Marco. Si fermò un istante a guardare in alto, poi cominciò a gesticolare, domandando al maestro di casa che diamine facesse, e Baldassarre gli rispondeva additando le finestre del padrone, per fargli intendere che obbediva ad un suo ordine. A un tratto il signor Marco si mise quasi a correre, e dopo pochi minuti gli arrivò dinanzi pallido e col fiato ai denti.

«Che fai? Perché il si loca? Chi diavolo t’ha detto?»

«Il principe, il signor principe.. c’è anzi una lettera… lì, sulla tavola…»

Leggendo il biglietto, le mani e le labbra tremavano al signor Marco, come se gli stesse per prendere un accidente; e Baldassarre, impaurito, si tirava un poco indietro, pronto a chiamare soccorso; quando, strappato malamente il foglio, l’altro gridò, con voce rotta:

«A me?… Il congedo?… Come a un guattero? L’ultimo del mese? Ladro schifoso! Principe porco!»

«Don Marco!…» balbettò Baldassarre, atterrito.

«A me il congedo?… E il notaio per la consegna?… Credeva forse che gli volessi portar via i suoi denari?… Quelli che ha rubati ai fratelli e alle sorelle?… O le sue carte? Le prove delle sue ruberie? Delle sue falsità? Ladro, ladro, ladrone! E più porco io che gli tenni mano!… Mi manda via perché non ha più da spogliare nessuno?…»

Con le mani in capo, Baldassarre scongiurava: «Don Marco!… Signor Marco!… per carità!… possono udirvi!…» ma l’altro, fuori della grazia di Dio, tremando dall’ira, buttava fuori quel che aveva in corpo contro il padrone e tutta la sua razza:

«Dieci anni! Dieci anni di studio per rubare i suoi parenti! quegli altri pazzi e furbi, scemi e birbanti!… E non mangiava, non beveva, non dormiva, studiando il modo di accalappiarli, facendo il moralista, fingendo l’affezione, il rispetto alle volontà di sua madre; pezzo di Gesuita più di quell’altro Sant’Ignazio del Priore, pezzo di porco più di quell’altro maiale di don Blasco! Ah, crede che la gente non sappia quant’è porco, con la ganza in casa, adesso che non ha più nessuno da rubare, con la ganza sotto gli occhi di sua moglie, sotto gli occhi di sua figlia, fino all’altr’ieri?…»

«Don Marco!» gridò Baldassarre, minaccioso finalmente anche lui, per tentar d’arrestare quella fiumana di male parole che i gesti disperati di preghiera e di paura non erano valsi a frenare. E il signor Marco lo guardò stralunato, quasi accorgendosi in quel punto della sua presenza.

«Mi meraviglio!» continuava il maestro di casa, fermo e contegnoso. «La volete finire, una buona volta?…»

Allora l’altro gli tirò sul muso un’amara sghignazzata.

«Zitto, tu! Prendi le parti di tuo fratello, bastardo?»

Giusto in quel momento comparve il notaio che saliva dal quartiere del principe:

«Signor Marco…» ma l’altro non lasciò dire:

«Venite per la consegna, eh?» riprese a tonare. «Che cosa volete che vi consegni? le carte false del vostro padrone? gli atti carpiti? le transazioni strozzate?… Ecco qui, prendete!…» E cominciò a buttare all’aria tutto ciò che si trovava sulla scrivania, sugli scaffali. «Temete che io li porti via? Non ne ho bisogno. Lo sanno tutti che razza d’imbroglione, di ladro e di falsario è il vostro principe! Voi lo sapete, che ha rubato la sorella monaca e la badia col cavillo dell’approvazione regia, e quell’altra pazza per consentire al suo matrimonio, e il Babbeo perché è babbeo e il contino per dargli mano a quelle altre vergogne!… Voi le sapete meglio di me tutte le trame che ha ordite, le cambiali vecchie pagate dalla madre, fatte ripagare due volte, prima ai legatari, poi al coerede; e i debiti supposti, la procura carpita…»

«Di grazia, signor Marco… un po’ di misura…»

«Misura? Sono misuratissimo, sono! O credete che mi dolga del posto perduto?… Ne troverò un altro, non dubitate!… E da per tutto sarò trattato meglio che tra questi arlecchini finti principi… Forse temevano che io li rubassi, eh? Che io m’arricchissi a spese loro?… Lo disse una volta, quel maiale del monaco: vi pare che non l’abbia risaputo?… Io che ci ho rimesso di sacca mia? perché se trovavano un centesimo mancante gridavano un mese durante!… Casa munifica, in verità, da poterci fare il nido!…» E spalancando gli armadi e le cassette riprendeva: «Qui!… Prendete, vi consegno ogni cosa!… Venite a guardare sotto il letto, se c’è il cantero!… Frugatemi addosso, se gli porto via qualche cosa… A voi, chiappate: sono le chiavi delle casse e degli armadi; ditegli che se le…» E le lasciò correre per terra. A un tratto, vide, nell’armadio spalancato, appesa a un uncino di rame dorato, quella della bara della principessa, l’unico regalo fattogli dalla defunta oltre le vecchie tabacchiere, dopo quasi trent’anni di servizi. Afferrarla e scaraventarla contro il muro, fu tutt’uno.

«E questa con l’altre…» gridò, con una mala parola da far arrossire la morta, laggiù, nelle catacombe dei Cappuccini.

6

Per la via polverosa, sotto il cielo di fuoco, un’interminabile fila di carri colmi di masserizie: stridevano le ruote, tintinnavano i sonagli, e i carrettieri seduti sulle stanghe o appollaiati in cima al carico voltavano tratto tratto il capo, se uno scalpitar più frequente e un più vivace scampanellìo di sonagliere annunziavano il passaggio di qualche carrozza. Allora la fila dei carri serravasi sulla destra della via, e il legno passava, tra una nugola di polvere e lo schioccar delle fruste, mentre le facce spaventate dei fuggenti apparivano agli sportelli.

«Il castigo di Dio!… Tutta colpa dei nostri peccati!… Eran più di dieci anni che vivevamo tranquilli! Assassini del governo!…» La povera gente seguiva a piedi i carrettelli carichi di due magri sacconi e di quattro seggiole sciancate; e nelle brevi soste fatte per riprender fiato, per asciugar il sudore grondante dalle fronti terrose, scambiava commenti sulle notizie del colera, sull’origine della pestilenza, sulla fuga universale che spopolava la città. I più credevano al malefizio, al veleno sparso per ordine delle autorità; e si scagliavano contro gl’«italiani», untori quanto i borboni. Al Sessanta, i patriotti avevano dato a intendere che non ci sarebbe stato più colera, perché Vittorio non era nemico dei popoli come Ferdinando; e adesso, invece, si tornava da capo! Allora, perché s’era fatta la rivoluzione? Per veder circolare pezzi di carta sporca, invece delle belle monete d’oro e d’argento che almeno ricreavano la vista e l’udito, sotto l’altro governo? O per pagar la ricchezza mobile e la tassa di successione, inaudite invenzioni diaboliche dei nuovi ladri del Parlamento? Senza contare la leva, la più bella gioventù strappata alle famiglie, perita nella guerra, quando la Sicilia era stata sempre esente, per antico privilegio, dal tributo militare? Eran questi tutti i vantaggi dell’Italia una?… E i più scontenti, i più furiosi, esclamavano: «Bene han fatto i palermitani, a prendere i fucili!…» Ma la rivolta di Palermo era stata vinta, anzi la pestilenza, secondo i pochi che non credevano al veleno, veniva di lì, importata dai soldati accorsi a sedare l’insorta città… E sui monticelli di breccia disposti lungo la via, al filo d’ombra proiettata dai muri, dalla cui cresta sporgevano le pale spinose dei fichi d’India, i fuggenti sedevano un poco, discutendo di queste cose, mentre continuava la sfilata delle carrozze, dei carri e dei pedoni non ancora stanchi. Alcuni tra questi, i più poveri, avevano caricato tutta la loro roba sopra un asinello, e uomini, donne e bambini seguivano a piedi, con fagotti di cenci in capo, o sotto il braccio, o infilati ad un bastone, la bestia lenta e paziente. I conoscenti si fermavano, notizie e commenti erano scambiati anche tra sconosciuti, con la solidarietà del pericolo nella comune miseria. Le donne ripetevano ciò che avevano udito dire dai preti: il colera era la pena dei tempi peccaminosi: gli scomunicati non avevano fatto la guerra al Papa? La Chiesa non era perseguitata? E adesso, per colmar lo staio, c’era la legge che spogliava i conventi! La fine del mondo! L’anno calamitoso! Chi avrebbe creduto una cosa simile! Tanti poveri monaci buttati in mezzo a una via? I luoghi santi sconsacrati? Non c’è più dove arrivare!… Queste erano sciocchezze, giudicavano invece gli uomini. I monaci avevano assai scialato senza far nulla! Mangiavano a ufo! E i muri dei conventi, se avessero potuto parlare, ne avrebbero dette di belle. Era tempo che finisse la cuccagna! L’unica cosa fatta bene dal governo!… Però, tanti santi Padri, che ce n’erano, costretti a vivere con una lira al giorno! I Benedettini, per esempio, avevano di che scialare con una lira il giorno, dopo aver fatto la vita di tanti Re! «E i quattrini che si sono divisi?»

La notizia circolava da un pezzo, e certuni ne davano i particolari come se fossero stati presenti: le economie fatte negli ultimi anni, nella previsione della legge, erano state distribuite a tanto per uno: ogni monaco aveva preso nientemeno che quattromila onze di monete d’oro e d’argento. Poi s’eran spartita l’argenteria da tavola, tutta la roba di valore, e avvicinandosi il momento del congedo avevano venduto una gran quantità delle provviste accatastate nei magazzini: grandi botti di vino, grandi giare d’olio, gran sacchi di frumento e di legumi; altrettanti quattrini intascati – e nondimeno i magazzini parevano ancora colmi! «Han fatto bene! Dovevano forse lasciare anche la cassa ai ladri del governo?…» E le piccole carovane si rimettevano in marcia con le teste riscaldate all’idea dei milioni di milioni d’onze che avrebbe intascato Vittorio Emanuele vendendo i beni di San Nicola e di tutte le altre comunità… Molti mendicanti, profittando del gran passaggio di gente, tendevano la mano dal mucchio di sassi dove stavano sdraiati; i cenciosi bambini che li accompagnavano correvano dietro alle carrozze se da qualcuna di esse cadeva un soldino nella polvere dello stradale. E i pedoni riconoscevano i signori fuggenti, se ne ripetevano il nome, spaventati all’idea del vuoto della città: «il principe di Roccasciano!… La duchessa Radalì!… I Cùrcuma!… I Grazzeri!… Non resterà dunque nessuno?…»

Verso sera, quando l’ardore della giornata si temperò, tre carrozze padronali scappanti una dietro all’altra sollevarono una gran nuvola di polvere dalla città al Belvedere. Nella prima c’era il principe di Francalanza, donna Ferdinanda e la cugina Graziella, invitata alla villa perché non poteva andar sola alla Zafferana, e il principino Consalvo a cassetta, che brandiva trionfalmente la frusta, quantunque portasse ancora la tonaca benedettina perché suo padre s’era deciso a riprenderlo in casa proprio all’ultimo momento, quando i monaci s’eran dispersi e don Blasco e il Priore avevano anch’essi chiesto ospitalità al palazzo. Nella seconda carrozza stava la principessa, senza nessuno a fianco né dirimpetto e solo la cameriera nell’angolo opposto. Il contatto d’una spalla l’avrebbe fatta cadere in convulsione, perciò s’era dichiarata contentissima che il principe accompagnasse la cugina. L’altra carrozza era invece stipata: c’erano il marchese e Chiara, Rosa col bambino e finalmente don Blasco. Questi aveva rifiutato per la campagna l’ospitalità del principe e accettata quella del marchese, allo scopo d’evitare la sorella Ferdinanda; l’avversione non cedeva neppure dinanzi al pericolo del colera, gli faceva preferire la compagnia del bastardello. Il Priore, invece, era rimasto in città, al Vescovato, dove Monsignore lo aveva accolto a braccia aperte: tutte le preghiere e gli inviti dei parenti non erano valsi a farlo fuggire; il suo posto, diceva, era al capezzale degli infermi, accanto a Monsignore. Le maggiori insistenze gli erano venute dal principe, il quale sosteneva, come sempre, che in tutte le circostanze gravi e solenni la famiglia doveva tenersi unita; perciò gl’incresceva di lasciare in mezzo al pericolo qualcuno dei suoi. Che cosa si sarebbe detto? Che egli pensava solamente a se stesso?… Ma, come non era riuscito a rimuovere il Priore, così aveva fatto fiasco con Ferdinando, il quale, preso gusto alla vita cittadina, non voleva sentir parlare neppure di rifugiarsi alle Ghiande. Lucrezia era già partita nella mattina pel Belvedere col marito, il suocero e la suocera. Quanto allo zio duca, era a Firenze, vicino alla nipote Teresina, e poiché il colera non infieriva e non metteva tanto spavento quanto in Sicilia, così egli era e voleva che sua moglie fosse tranquilla. Al cavaliere don Eugenio, che se ne stava ancora a Palermo, nessuno pensava.

 

Ricominciò al Belvedere la vita allegra della villeggiatura, tanto più che l’allarme destato dalle prime notizie della pestilenza si dimostrò presto ingiustificato: in città c’era appena qualche caso sospetto di tanto in tanto. Il principino, lasciata finalmente la tonaca per gli abiti di tutti gli altri cristiani, cominciò a prendersi quegli spassi che aveva sognati. Prima di tutto, con uno schioppo vero, se ne andava a caccia sui monti dell’Elce o dell’Urna, a sterminare conigli, lepri, pernici ed anche passeri, se non trovava altro; poi faceva attaccare ogni giorno per imparare a guidare, e il suo calessino divenne in breve il terrore di chi girava per le vie di campagna: sempre addosso ai carri ed alle carrozze, lanciato a tutta corsa per lasciare indietro ogni altro veicolo a costo di ribaltare, di fracassarsi, d’ammazzare qualcuno. Quando non guidava, se ne stava nella scuderia a veder governare le bestie, a imparare il linguaggio speciale dei cocchieri, dei cozzoni e dei maniscalchi, a criticare gli animali degli altri signori rifugiati al Belvedere o nei dintorni, gli acquisti recenti di Tizio, gli equipaggi di Filano, e donna Ferdinanda, udendolo parlare con sempre maggior competenza intorno a tali nobili argomenti, s’inorgogliva ammirando: «Queste son le cose che devi imparare!…» Anche la principessa, sebbene piangesse ancora per la lontananza di Teresina, si mostrava orgogliosa dei progressi del figliuolo, ma più la cugina, che prodigava al giovanotto continue carezze, benché Consalvo non solamente non le rispondesse con eguale effusione, ma si studiasse anche di evitarla. Non l’aveva perdonata d’essersi opposta al suo più pronto ritorno nella casa paterna; e adesso, vedendola domiciliata lì come una persona della famiglia, prendere il posto della sua mamma, la sua antipatia cresceva. Donna Graziella, in verità, più che da ospite si diportava da padrona: bisognava vederla la sera, quando veniva gente, come faceva gli onori di casa, specialmente se la principessa sentivasi indisposta E questo accadeva spesso; senza soffrire precisamente di nulla, donna Margherita, dopo la partenza della figliuoletta, accusava un sordo malessere, dolori di capo, una certa difficoltà di digestione. E felice di poter evitare la folla, le vicinanze infette, le strette di mano contagiose, se ne andava a letto, mentre nel salone la gente conversava animatamente, giocava, scioglieva sciarade. Lucrezia, lasciando la villa Giulente, partecipava con la cugina alla direzione delle faccende domestiche. Lei che in casa propria non metteva un dito all’acqua fresca, veniva a darsi un gran da fare per la vanagloria di riprendere il proprio posto nella casa del fratello principe. Chiara tirava su a zuccherini il bastardello, lo vezzeggiava molto più del marchese, il quale provava sempre un certo disagio e una certa vergogna a riconoscere pubblicamente quella paternità, mentre sua moglie quasi se ne gloriava. Se la principessa, o donna Ferdinanda, o qualche altro parente non faceva buon viso al piccolino, ella mostravasi offesa ed era capace di non metter piede per una settimana alla villa, se le passava pel capo che qualcuno incominciasse a criticare quella specie di adozione. Viceversa, era adesso tutt’una cosa con lo zio Blasco, il quale, stando con lei, la approvava implicitamente.

Il monaco, alla notizia della legge che sopprimeva i conventi, durante gli ultimi tempi della vita claustrale e nei primi passati a casa del nipote, aveva fatto cose, cose dell’altro mondo: era parso veramente uno scatenato diavolone dell’Inferno. Le male parole di nuovo conio, le imprecazioni, le bestemmie eruttate contro il governo, a San Nicola, al palazzo, dalla Sigaraia, nelle farmacie borboniche e anche sulla pubblica via, non si poterono neppur noverare; i vituperi evacuati contro il fratello deputato, che aveva dato il suo voto alla legge, si lasciarono mille miglia lontano tutto quello che di più violento gli era mai uscito di bocca. Ma quasi la mostruosità compitasi fosse troppo grande, troppo stordente, egli si ridusse tosto ad un silenzio grave ed incagnato, dal quale non lo toglievano se non le voci, ripetute in sua presenza, della spartizione delle economie, delle quattromila onze toccate a ciascun Padre. Allora ricominciava a tonare: «Spartite sette paia di corna! Toccate quattromila teste di cavolo!… C’era un cavolo da spartire!… E se pure ci fosse stato qualcosa, nessuno avrebbe toccato niente! Per rendersi complici dei ladroni, ah? del rifiuto delle galere? del sublimato della briganteria?…» Egli parlava così dinanzi agli estranei, alla gente di poco affare, alle persone di servizio; in famiglia, tra gli intimi, confessava la spartizione, ma riduceva la sua quota a poche centinaia di onze, a due posate, a un paio di lenzuola, tanto da non restar sulla paglia. Da San Nicola era venuto via con due casse, delle quali non lasciava mai le chiavi; e il principe, in città, le aveva covate con gli occhi, quasi pesandole e fiutandole, con nuovo rispetto per quello zio che adesso possedeva qualcosa; ma tutto il suo studio per trovare il destro di guardar dentro alle casse era stato inutile, giacché il monaco si sprangava in camera, ogni qualvolta aveva da frugarvi.

Adesso, al Belvedere, anche Chiara e Federico parlavano spesso tra loro di questi famosi quattrini che doveva possedere don Blasco. Il marchese, temendo che li sciupasse con la Sigaraia, avrebbe voluto proporgli di metterli al sicuro, di comperarne altrettanta rendita se il monaco fosse stato un altro, se ogni semestre, avvicinandosi la scadenza delle cedole, don Blasco non l’avesse vessato, punzecchiato, tormentato, profetandogli il subisso di quel titolo. Il corso forzoso, la guerra, il colera, tutte le pubbliche calamità erano stati altrettanti argomenti di giubilo pel monaco, il quale si fregava ogni volta le mani, gridando al nipote: «Addio, la carta sporca! È fritto, il tuo governo! Tu non mi hai voluto ascoltare, ben ti sta!…» Ma il marchese incassava sempre la sua rendita il giorno stabilito, fino all’ultimo centesimo. Cessato del tutto il pericolo del colera, un giorno egli scese in città per qualche affare e per riscuotere il semestre; tornato al Belvedere e passeggiando, dopo pranzo, sulla terrazza, mentre Chiara giocava col bastardello, egli riferì allo zio l’impiego della sua giornata.