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Read the book: «I pescatori di balene», page 9

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– Indietro, fermi tutti! Il banco si apre!

Infatti, a tribordo della nave, dal lato dei magazzini, proprio nel momento in cui i marinai stavano per slanciarsi giù, si era aperta una larga fenditura in fondo alla quale si vedeva spumeggiare furiosamente il mare.

– Indietro – ripetè il capitano, respingendo violentemente i più vicini. – Volete farvi stritolare dai ghiacci?

– Ma la nave affonda! – disse un gabbiere.

– Non ancora! – gridò il tenente. – Tutti a poppa!

Mastro Widdeak e Koninson spinsero i loro camerati verso poppa.

– Signor Hostrup, – gridò il capitano, cercando di dominare colla voce lo sfracellarsi dei ghiacci – scendete nella stiva. Forse, coll’aiuto di Dio, potremo resistere fino a domani.

Il tenente sparve nel ventre del legno seguito dall’inseparabile Koninson e poco dopo riappariva sul ponte.

– Ebbene? – chiesero i marinai correndo verso di lui. – È finita per il «Danebrog»?

– Non ancora! – rispose egli.

– Non affondiamo?

– No, almeno per ora.

– Cos’è che ha ceduto? – chiese il capitano.

– I fianchi del nostro povero legno sono stati sfondati dai ghiacci che ora si riuniscono attraverso la stiva.

Il capitano lanciò un’imprecazione, ma riacquistando tosto la sua calma disse, volgendosi verso l’equipaggio che lo circondava.

– Non scoraggiamoci, amici. La costa americana non è lontana e noi sapremo guadagnarla a dispetto dei ghiacci. Che ognuno rechi in coperta più viveri e più coperte che può, e si tenga pronto a lasciare la nave. Tenente, credete che potremo resistere sino a domani?

– Si, se i ghiacci non cedono sotto il peso della nave.

– L’acqua entra?

– L’ho udita precipitare nella sentina.

– Speriamo in Dio. Ditemi, tenente, vi sentireste capace di guadagnare i magazzini?

– Lo tenterò, capitano, se è necessario.

– È indispensabile, tenente. Là abbiamo le nostre scialuppe, le quali possono venire ingoiate da un momento all’altro.

– Allora andrò ai magazzini, dovessi perdere ambo le gambe. Tu, Koninson, mi accompagnerai, se non hai paura.

– Sono ai vostri ordini, sig. Hostrup! – rispose il coraggioso fiociniere. – Ma vi faccio osservare che fra la nave e i magazzini si è aperta una larga fenditura.

– La attraverseremo, Koninson.

– Affrettatevi dunque, signor Hostrup! – disse il capitano. – Un ritardo di pochi minuti potrebbe esserci fatale.

– Vieni, Koninson – disse il tenente.

Si diresse verso l’albero di maestra armato di una scure e con ma vigorosi colpi staccò la boma che poi, aiutato dal fiociniere, gettò sul campo di ghiaccio.

– Ci servirà per passare il crepaccio! – disse al capitano che lo guardava senza comprendere. – Arrivederci ai magazzini, signor Weimar.

– Dio vi guardi, signor Hostrup! – rispose il capitano con voce commossa.

Poi gli si slanciò contro e gli strinse energicamente la destra.

– Non so, – disse con un tono di voce in cui risuonava un triste accento – io mi sento in questo momento profondamente commosso. Che vi succeda qualche disgrazia?

– Non lo credo – rispose il tenente sforzandosi, ma senza riuscirvi, di sorridere. – Addio, capitano, addio!

Anche lui, senza sapere il perchè, era profondamente commosso.

– Si direbbe che una disgrazia mi minaccia – mormorò, guardando con inquietudine i ghiacci che continuavano a oscillare e a rovesciarsi fra mille fragori.

Si gettò ad armacollo il fucile, raccolse il sacco contenente le sue vesti e scavalcata la murata discese sul banco dove già lo attendeva Koninson, completamente equipaggiato.

– Affrettiamoci tenente! – disse il fiociniere. – Qui corriamo il pericolo di essere ingoiati. Sento che il ghiaccio si spezza attorno alla nave.

Si caricarono della boma e, camminando con precauzione e guardandosi ben bene d’attorno, si diressero verso la fenditura che non distava più di venti metri.

Il gran banco sotto i loro piedi vibrava fortemente e si alzava e si abbassava come se sotto di esso il mare fosse diventato tempestoso. Di quando in quando dei lunghi segni bianchi, che annunciavano prossime spaccature, correvano da una estremità all’altra del banco con sinistri crepitii seguiti da sordi boati e tutto d’un tratto s’innalzavano delle colonne di ghiaccio in cerchi concentrici che tosto strapiombavano con indescrivibile fracasso.

Dopo aver corso dieci volte il pericolo di venire sfracellati o ingoiati, i due intrepidi balenieri giunsero sull’orlo della frana attraverso alla quale gettarono l’albero.

Il tenente vi si avventurò sopra, tenendosi solidamente aggrappato e raggiunse in breve l’opposta riva. Il fiociniere lo seguì e ben presto si trovarono dinanzi ai magazzini che erano coperti da un ammasso di neve indurita.

– Mi sembra che non abbiano sofferto – disse il tenente dopo una rapida occhiata.

– È vero – confermò il fiociniere.

– Mano alla scure e non perdiamo tempo, amico Koninson. Sento dei fremiti correre sotto il ghiaccio, e ciò indica che può aprirsi un abisso sotto i nostri piedi.

Dotati entrambi di una forza poco comune, in breve aprirono nella massa nevosa una specie di galleria, entro la quale arditamente si cacciarono finchè giunsero alla parete del magazzino che con due o tre colpi di scure sfondarono.

– Le scialuppe? – chiese il fiociniere al tenente che lo aveva preceduto.

– Eccole lì! – rispose l’interpellato, che si era cacciato in mezzo alle casse e ai barili che ingombravano il magazzino.

– Saremo capaci di spingerle fuori?

– Lo spero, Koninson, poichè poggiano sopra i curli.

In quell’istante udirono sotto i piedi crepitare fortemente il ghiaccio e al di fuori raddoppiare le urla e le detonazioni. Alcune grida umane, che partivano senza dubbio dal «Danebrog», giunsero pure ai loro orecchi.

– Presto, presto, Koninson! – gridò il tenente. – Forse la nave sta per affondare.

– Eccomi, signore! – rispose il fiociniere, che era diventato pallido, pensando al grave pericolo che correvano il capitano Weimar e tutti gli altri.

Afferrarono i bordi della grande baleniera e si misero a spingerla con disperata energia, mentre le detonazioni si succedevano con spaventevole frequenza facendo oscillare le pareti del magazzino.

Dapprima non riuscirono a muoverla essendosi i curli saldati al ghiaccio, ma poi, dopo alcune vigorose scosse, la spinsero attraverso il magazzino cercando di dirigerla all’imboccatura della galleria.

Il tenente, in preda ad una forte inquietudine che non riusciva a vincere, faceva sforzi sovrumani ed eccitava il suo compagno che non ne aveva proprio bisogno, poichè anche lui spingeva con una specie di rabbia, invaso da una vaga paura che ad ogni istante cresceva.

Avevano già spinto la grande baleniera nella galleria, quando in mezzo all’orribile baccano prodotto dai ghiacci che le pressioni spaccavano e rovesciavano, s’udirono delle urla disperate venire dal luogo ove si trovava la nave.

– Koninson! – esclamò il tenente con voce soffocata dall’emozione.

– Tenente! – rispose il fiociniere che era diventato pallido come un cadavere.

– Aiuto! Si salvi chi può! – s’udì urlare al di fuori.

Il tenente e il fiociniere, atterriti, cogli occhi stravolti, si precipitarono fuori della galleria le cui pareti cadevano a larghi pezzi. Un grido sfuggì dai loro petti.

Il «Danebrog», schiacciato dalle pressioni, andava rapidamente a picco. Già la sua prua era scomparsa e l’acqua del mare, alzatasi sopra il banco, saliva spumeggiando l’inclinato ponte del vascello, strappando tutto ciò che incontrava sul suo passaggio.

I marinai, pazzi di terrore, dopo essersi rifugiati a poppa stavano saltando sul campo di ghiaccio dirigendosi a tutte gambe verso il crepaccio.

– Capitano! Capitano! – gridò il tenente.

– Accorriamo! Accorriamo! – esclamò Koninson, Stavano per slanciarsi verso il crepaccio, quando una scossa formidabile seguita da uno scoppio inaudito, paragonabile solo all’esplosione di una immensa polveriera, fece traballare il gran campo di ghiaccio che dapprima si curvò in alto e che poi si spaccò aprendo qua e là dei profondi baratri dai quali irruppe furioso il mare.

Il tenente e il fiociniere, violentemente scossi, stramazzarono in mezzo alla neve. Quando si alzarono, il «Danebrog» e il suo valoroso equipaggio erano scomparsi!

Il banco di ghiaccio, prima apertosi e poi richiusosi, li aveva per sempre inghiottiti!

XVI. LA CAPANNA DI GHIACCIO

La terribile convulsione dei ghiacci, che ha sfondato i fianchi della valorosa nave baleniera, è cessata; una calma assoluta regna su quella regione perduta al di là del circolo polare, dove ha trovato la morte il disgraziato equipaggio danese.

Un silenzio profondo, triste, che impressiona per la sua grandiosità, impera sull’immenso campo di ghiaccio; non una voce umana attraversa gli strati gelidi dell’aria, non un grido d’uccello echeggia, non un mormorio di ruscello, non un frangersi d’onda, non uno scricchiolìo, non un gemito. È un silenzio d’orrore; il silenzio della regione disabitata e inabitabile.

Il cielo nondimeno è sgombro da quei fitti nebbioni che formano il terrore degli audaci naviganti che sfidano quelle regioni maledette. Una splendida luna, contornata da miriadi di scintillanti stelle, versa sul grande campo una luce azzurrina, illuminandolo come in pieno giorno. Gli «icebergs», gli «hummocks», le cupole, le piramidi, i picchi aguzzi, le colonne, tramandano per ogni dove mille sprazzi di luce come se una generosa fata avesse sparso su di loro diamanti a piene mani, d’una enorme grossezza.

Ad oriente una pallida luce si stende, indicando il luogo ove è scomparso il sole; luce che le lontane montagne di ghiaccio raccolgono e che tramandano in cielo formando un «ice-blink» così limpido da gareggiare con lo splendore dell’astro notturno.

Due uomini si trovavano sul gran campo, seduti su in un piccolo «hummock». L’uno ha la testa fra le mani e pare che mediti; l’altro guarda mestamente i ghiacci che gli si stendono dinanzi. Sono il tenente Hostrup e il fiociniere Koninson, i due superstiti del naufragio della nave baleniera.

Per due interi giorni, pazzi di dolore per quell’inaspettata catastrofe che li aveva privati d’un sol colpo della nave e dei loro compagni avevano percorso in tutti i sensi il banco sfidando ogni specie di pericoli, rovistando le nevi, spaccando ghiacci quando udivano un rumore insolito e scendendo nei crepacci nella speranza di ritrovare qualche loro camerata vivo o morto, ma tutto era stato vano.

Il mare non aveva più restituito la preda. Nave ed equipaggio erano scomparsi sotto quel gelido lenzuolo, scendendo negli inesplorati abissi dell’oceano polare.

Sfiniti, semigelati, abbattuti, si erano fermati ai piedi dell’«hummock». Ormai avevano perduta ogni speranza.

– Orsù, tutto è finito! – esclamò il tenente, lasciandosi cadere sul ghiaccio – I miseri sono tutti periti, tutti, tutti! Povero capitano, Poveri compagni che non rivedrete mai più le sponde della patria vostra!

Un rauco suono che sembrava un singhiozzo soffocato si spense in fondo alla gola di quell’uomo che forse non aveva mai pianto, mentre due grosse lacrime gli si gelavano sulle brune gote.

– Soli, soli in quest’immenso deserto di ghiaccio! – riprese egli dopo qualche istante, come se parlasse a sè stesso. – Chissà se anche noi torneremo a rivedere la nostra Danimarca!

– Signor Hostrup! – disse il fiociniere con voce commossa.

– Ti comprendo, Koninson! – rispose il tenente alzandosi – Non bisogna scoraggiarsi, hai ragione, amico mio.

– Siamo in due, signor tenente, e, ringraziando Iddio, siamo e tutti e due solidi.

– È vero, Koninson.

– Contate di rimanere ancora su questo dannato banco?

– È necessario.

– Non vorrei che ci toccasse la sorte del povero capitano e dei suoi uomini.

– Penso che se la Provvidenza ci ha risparmiati, non l’avrà fatto per farci morire domani o fra qualche mese.

– Infatti, lo credo anch’io, tenente. Ma se si potesse lasciare questo banco sotto cui dormono i nostri disgraziati compagni sarei ben lieto.

– E dove vorresti recarti? Chi oserebbe sfidare i terribili freddi della regione polare sotto una tenda? No, Koninson, se vogliamo salvarci bisogna svernare qui. Ci costruiremo una capanna di ghiaccio e attenderemo la buona stagione.

– E poi, dove andremo?

– Cercheremo di guadagnare la costa e di là qualche stabilimento della compagnia della Baia di Hudson. Orsù, all’opera, Koninson, non perdiamo tempo o il freddo ben presto ci ucciderà.

– Cosa si deve fare? Io sono pronto a tutto.

– Costruirci il ricovero.

– E dove?

– A fianco dei magazzini onde essere sempre vicini alle scialuppe.

– Disponete di me; mi sento assai forte in questo momento,

– Tu preparerai i materiali e io costruirò. Vieni, amico mio, che forse abbiamo tardato anche troppo.

Si diressero verso i magazzini che erano poco lontani e che occupavano la cima di una collinetta da cui si dominava un gran tratto di paese e si fermarono dinanzi ad un «iceberg» che pareva solido quanto una rupe.

– Ci proteggerà dai venti del nord – disse il tenente, dopo averlo osservato attentamente per assicurarsi della sua stabilità.

Si levò dalla cinta il coltello e tracciò nel ghiaccio, fra i magazzini e l’«iceberg», un circolo del diametro di cinque metri che poi approfondì a colpi di scure formando un canale destinato, in seguito, a raccogliere l’umidità scendente dalle pareti della capanna.

– Ora, – disse rivolgendosi a Koninson – tagliami dei blocchi di ghiaccio.

Il fiociniere non se lo fece dire due volte e manovrando abilmente la scure in breve tempo preparò un grande numero di grossi pezzi di ghiaccio, che il tenente dispose in bell’ordine intorno al canaletto, cementandoli con neve.

Sopra quel primo strato il tenente ne sovrappose un secondo, lasciando verso sud un’apertura piuttosto stretta, indi un terzo, un quarto e via via, sempre restringendoli in maniera da formare una specie di cupola la cui elevazione non superava i tre metri.

Una famiglia d’eschimesi non avrebbe domandato di più e si sarebbe fermata lì, ma il tenente era più esigente e non voleva correre i pericoli ai quali si espongono spesso gli abitanti di quelle gelide regioni, cioè all’acciecamento prodotto dal fumo ed al congelamento per mancanza di circolazione d’aria.

Aiutato dal fiociniere, che si mostrava entusiasta per quella costruzione la cui forma rammentava un mezzo uovo, ma di dimensioni colossali, si arrampicò sulla cupola e apertovi un buco, costruì, servendosi sempre di blocchi di ghiaccio, un tubo alto un buon metro, per dare sfogo al fumo; poi aprì verso est, verso ovest e verso nord tre altre aperture, per combattere efficacemente il congelamento ed anche l’umidità, due nemici pericolosissimi in quei climi. Da ultimo tappezzò il suolo della capanna con pelliccie e con tela da vele, lasciando però in mezzo, proprio sotto il tubo che doveva servire da camino, uno spazio libero.

– Che te ne pare, mio bravo fiociniere? – disse il tenente quando ebbe finito.

– Io dico che staremo benone in questo nido – rispose Koninson – Bisognerà però chiudere le finestre.

– Basterà un pezzo di pelle.

– Spero che non geleremo.

– Se non gelano gli eschimesi che vivono otto mesi dell’anno nelle loro capanne di ghiaccio, non so perchè dovremo gelar noi.

– Ma quando accenderemo il fuoco, le pareti non si scioglieranno?

– Non avere questo timore, Koninson. La fiamma è lontana e i blocchi di ghiaccio che ci hanno servito per la costruzione sono grossi. E poi credi tu che non s’ingrosseranno di più? Alla prima nevicata raddoppieranno e alla seconda triplicheranno il loro volume.

– Purchè la cupola non ceda.

– La sbarazzeremo del soverchio peso.

– E siete persuaso che si starà bene qui dentro?

– Ne sono convinto, Koninson, e aggiungo che prenderemo amore alla nostra casa e che ci dispiacerà l’abbandonarla quando ci metteremo in cammino per il sud.

– Permettetemi di dubitarne, tenente! – disse Koninson. – Non so chi potrà essere quell’uomo che prenderà affezione ad una casa di ghiaccio.

– Gli eschimesi, per esempio, preferiscono le loro capanne gelate ai nostri palazzi d’Europa.

– Voi scherzate, tenente.

– Parlo seriamente, Koninson, e ti so dire che un eschimese condotto a Londra pochi anni fa, dove era trattato come un principe, dopo qualche tempo chiese di tornarsene in mezzo ai suoi ghiacci, dicendo che a tutti i palazzi della capitale inglese preferiva la sua capanna di ghiaccio, e a tutte le barche del Tamigi il suo piccolo canotto di pelle.

– Si direbbe una frottola se non uscisse dalle vostre labbra. Come mai si può desiderare questo deserto di ghiaccio dove tutto manca e dove si corre ad ogni momento il pericolo di venire inghiottiti dal mare?

– Questione di abitudine e d’amore al natio paese, Koninson. Forse che tu lasceresti la nebbiosa Danimarca per i bei paesi dal dolce clima?

– Chissà? Forse, signor Hostrup; ma potrei un bel giorno desiderare di rivedere le sponde del mio paese.

– Sono convinto che presto o tardi questo desiderio verrebbe. Ma facciamo punto ed occupiamoci delle nostre provvigioni.

– Spero che ci basteranno per finire questo dannato inverno.

– Ne avremo anche troppe, Koninson.

Lasciarono la capanna e si diressero verso i magazzini che erano a pochi passi di distanza. La galleria che avevano scavata per entrare, era in parte diroccata a causa delle ultime pressioni, ma i due balenieri non esitarono a cacciarsi in mezzo alla neve e ai massi di ghiaccio che in parte la ostruivano.

Quando furono entro i magazzini, a colpi di scure aprirono un vano affinchè entrasse un pò di luce, poi si misero a fare l’inventario di ciò che possedevano.

Il defunto capitano Weimar aveva accumulate tante provvigioni da bastare per parecchie settimane all’intero equipaggio del «Danebrog» e specialmente alcuni attrezzi che diventavano di un valore inestimabile.

Il tenente, aiutato dal suo bravo compagno, che rimuoveva ogni cosa con grande ardore, contò sei casse contenenti non meno di duecento chilogrammi di biscotto, due barili di carne secca ridotta in pemmican col sistema indiano, un barile di farina, due di lardo, una non piccola quantità di cioccolata, parecchie scatole di tè, un centinaio di chilogrammi di pesce secco e un barilotto di acquavite, nonchè alcune bottiglie di succo di limone per combattere i disastrosi effetti dello scorbuto. Scoprì altresì una piccola provvista di patate, due pentole di ferro della massima importanza per loro, una cassa con vesti di pelle di foca e alcune grosse coperte di lana e una provvista abbondante di polvere e di palle con tre fucili, una. vecchia pistola e alcuni coltelli.

Mancava assolutamente il legname e il carbone, cose necessarie per resistere ai grandi freddi dell’inverno polare, ma c’erano dodici barili di spermaceto di balena e alcuni d’olio e parecchio canape. Per di più possedevano due baleniere e un canotto, che dovevano fornire una provvista di legna non piccola.

– Abbiamo più di quanto ci occorre! – disse il tenente quand’ebbe finito l’inventario. – Passeremo l’inverno senza incomodi e senza sofferenze.

– Una cosa ci manca, signor Hostrup.

– Quale, mio bravo fiociniere?

– Una stufa da porre nella nostra capanna.

– Non occorre.

Koninson lo guardò con sorpresa.

– Forse che nella nostra capanna farà caldo quando all’esterno avremo 40° sotto lo zero?

– Non dico questo ma surrogheremo la stufa con qualche cosa di meglio. Hai visto delle stufe nelle capanne degli eschimesi?

– No, tenente, e mi sono sempre meravigliato.

– Ma avrai veduto ardere giorno e notte una gran lampada.

– Sì, me ne ricordo.

– Ebbene, anche noi accenderemo una gran lampada in mezzo alla nostra capanna e vedrai che ci darà sufficiente calore.

– Se dite ciò, deve essere vero. Ed ora cosa facciamo?

– Porteremo alcune provviste nella nostra casupola per non essere obbligati ad aprire ogni giorno i nostri magazzini.

– Li chiuderemo dunque?

– E per bene, Koninson. Non dimenticare che al polo nord vi sono degli orsi bianchi sempre in lotta colla fame. Se si spingono fin qui e scoprono le nostre provviste, faranno un gran vuoto in sole poche ore. Orsù, al lavoro, fiociniere.

Si caricarono entrambi di diverse provvigioni, delle armi, delle pentole e di alcune coperte ed uscirono per recarsi alla capanna.

Erano appena usciti dalla galleria, quando il tenente si arrestò bruscamente guardando verso nord.

– Cosa vedete? – chiese Koninson, che si era affrettato a sbarazzarsi del carico per afferrare il fucile. – Degli orsi forse?

– No, guarda laggiù.

Koninson volse lo sguardo nella direzione indicata e scorse una nube nerissima che si staccava vivamente sul fondo stellato del cielo e il cui lembo superiore descriveva una specie di arco.

– Una tempesta che si approssima, forse? – chiese.

– No, è l’aurora boreale che sta per sorgere! – rispose il tenente. – Guarda, ecco che la nube si allarga e con grande rapidità.

Infatti la nube prendeva grandi proporzioni come se fosse stata spinta da un formidabile vento, e al centro a poco a poco diventava più chiara, quasi trasparente, attraversata di quando in quando da rossastri bagliori.

D’improvviso successe un cambiamento magnifico, sorprendente. Parve che la nube volasse in mille scheggie, come se nel suo seno fosse saltato un magazzino di polveri e qua e là guizzarono per l’orizzonte colonne di fuoco d’una tinta superba, cangiando i ghiacci in altrettanti massi infuocati.

– Stupendo! – esclamò Koninson, che pure aveva osservato moltissime volte quel meraviglioso fenomeno.

– Aspetta un pò, fiociniere! – disse il tenente, che non staccava gli occhi dall’orizzonte settentrionale.

Le colonne di fuoco continuavano ad innalzarsi ed abbassarsi con le contrazioni dei serpenti, cambiando di frequente tinta che variava dal bianco trasparente al giallo e al rosso ardente e formando delle nebulosità abbaglianti. Poi, a poco a poco, s’innalzò un arco immenso, brillante, il quale sollevando tutti quegli sprazzi di luce variopinta balzò da est ad ovest per poi ritornare, con altro brusco e più rapido salto, ad est.

Il fenomeno era allora nel suo pieno splendore. I raggi che si alzavano sul grand’arco, gli uni sottilissimi e gli altri grossi, rossi alla base, verdastri nel mezzo e biancastri all’estremità, si spingevano sino alla testa dell’Orsa Maggiore, formando una specie di cupola di una bellezza incomparabile.

I campi di ghiaccio, gli «icebergs», gli «hummocks», le piramidi, i coni, le colonne parevano tutti in fiamme e riflettendo quei vigorosi bagliori illuminavano la regione polare fino agli estremi confini.

Ben presto però l’immenso arco fu visto ondeggiare come se fosse stato scosso da un impetuosissimo colpo di vento, formando immense pieghe in senso orizzontale e ben presto sull’orizzonte più non si vide che un ammasso di luce la cui intensità era tale che i due naufraghi furono costretti a difendersi gli occhi colle mani.

– Si direbbe che tutto il polo è in fiamme! – disse Koninson, che non parlava più di rientrare nella capanna. – È uno spettacolo che non si è mai stanchi di vedere, e che non si è mai osservato abbastanza bene.

– È vero, fiociniere! – rispose il tenente. – Pare di assistere sempre ad un fenomeno nuovo.

– Sapreste dirmi, signor Hostrup, da cosa deriva?

– Hum, è un po’ difficile saperlo, mio caro fiociniere, poichè gli scienziati non sono ancora d’accordo, su ciò. Pare che sia causato da un accumulamento di elettricità e per mio conto credo che sia l’ipotesi migliore e più giusta, considerati i pochi uragani e l’estrema siccità dell’aria che s’oppone alla sua dispersione.

– È vero, signor Hostrup, che l’aurora altera le bussole?

– Verissimo, Koninson, e non solo quando esse sono in vista della luce, ma anche quando si trovano lontane dal cerchio luminoso, il che fa supporre che le aurore boreali siano in relazione col magnetismo.

– E sono sempre uguali queste aurore?

– Se ne sono osservate di quelle strane. Mairan ne vide una nel 1726 trovandosi a Breville-Ponte, che era formata da un gigantesco segmento nero traforato regolarmente da punti luminosi.

– Questi fenomeni sono però molto frequenti.

– Secondo gli anni. Lotten, che fece parte della spedizione d’Islanda per studiare i fenomeni della regione polare, nell’osservatorio da lui stabilito a Bossekop ove rimase otto mesi negli anni 1838-39, ne vide ben 143 in 206 giorni e le più frequenti fra il 17 novembre e il 25 gennaio.

– Speriamo di vederne molte anche noi.

– Ne vedremo, Koninson.

Intanto l’aurora continuava le sue oscillazioni e i suoi bruschi salti, ora scemando di proporzioni ed ora ingigantendo. Tre ore durò, poi nuovi raggi apparvero, fra cui uno biancastro altissimo, indi ricominciò ad ondeggiare, a indebolirsi e finì con lo sfasciarsi e scomparire.

Le tenebre, ripreso il loro impero, tornarono a distendersi sui campi di ghiaccio e sull’orizzonte, poco prima infuocato, non rimasero a brillare che gli astri.

Age restriction:
12+
Release date on Litres:
30 August 2016
Volume:
270 p. 1 illustration
Copyright holder:
Public Domain