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Read the book: «I pescatori di balene», page 8

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XIV. LO SVERNAMENTO

Sì, questa volta per il «Danebrog» era proprio finita. Non gli restava più alcuna speranza di potersi liberare da quella formidabile cerchia di ghiacci che lo stringevano come in una morsa di ferro, impossibile a spezzarsi, anzi tendente a chiudersi sempre più, forse fino a stritolarlo.

Bisognava attendere il ritorno dell’estate, non meno di sei mesi, se non anche più.

Sei mesi fra i ghiacci! Sei interminabili mesi fra le tempeste di neve; sei interminabili mesi fra le nebbie, avvolti in una continua oscurità, giacchè il sole fra breve doveva tramontare.

E quali freddi da sopportare! E quali pericoli da sfidare! C’era di che spaventare il più intrepido baleniere dei mari artici; c’era di che far rabbrividire il più intrepido esploratore delle regioni polari.

Quando l’equipaggio del «Danebrog» s’avvide che il gran banco di ghiaccio non si era spezzato, come aveva dapprima sperato, fu preso da una violenta collera che si tramutò ben presto in un profondo scoraggiamento. Dinanzi ai suoi occhi erano passate tutte d’un colpo le orribili sofferenze che porta con sè lo svernamento.

Fortunatamente il capitano Weimar, dotato di un’audacia senza pari e di un sangue freddo ammirabile, quantunque avesse compreso che la sua nave aveva novanta probabilità su cento di venire stritolata, non aveva perduta la testa.

Con un gesto energico chiamò attorno a sè i marinai e disse:

– Non scoraggiatevi, amici. Altri balenieri, rinchiusi come noi fra i ghiacci del polo, hanno riveduto la loro patria. La nostra nave è solida, le nostre provviste abbondanti, i nostri cuori sono forti, i nostri corpi agguerriti contro i freddi più intensi. Perchè non riusciremo anche noi vincitori della terribile prova? Forse che i Danesi sono da meno degli altri? Animo, amici, diamo coraggiosamente mano ai preparativi di svernamento, e guardiamo serenamente in faccia i freddi del polo e gli assalti dei ghiacci. Mastro Widdeak, fa portare sul ponte un barile di «gin», e poi tutti all’opera.

– Bravo capitano! – gridò Koninson. – Li affronteremo, questi ghiacci, e li sfideremo, questi freddi del polo. Siamo danesi e per di più balenieri danesi.

Mastro Widdeak fece portare in coperta il bariletto di «gin», il quale in pochi istanti fu perfettamente asciutto.

I marinai, riscaldati e rinvigoriti dall’ardente liquore, si misero febbrilmente al lavoro parte sotto la direzione del capitano e parte sotto quella del tenente, ambedue uomini cui lo svernamento non era nuovo.

Fu dapprima condotta la nave entro un «fiord» aperto nel banco e colà solidamente assicurata sia a prua che a poppa, con grossi cavi girati attorno agli «hummocks» e con ancore ben infisse nei crepacci delle sponde.

Ciò fatto, vennero staccate le vele, calate le antenne e gli alberelli e le cime dei travi ben avviluppate onde il freddo non le guastasse. Disarmata la nave, si pensò di cambiare la sua coperta in una comoda sala onde tenere gli uomini al riparo e anche per mantenere vieppiù il calore nelle sottostanti cabine.

Costruirono un tetto di tavole, con una certa pendenza verso la prua e la poppa della nave e al disopra delle murate vennero collocate altre tavole in modo che si unissero al tetto, formando una sala lunga quanto quasi la coperta della nave. Quattro finestre furono aperte per la luce e per la ventilazione e le fessure lasciate fra tavola e tavola vennero coperte da carta incatramata per impedire il passaggio dell’aria.

Fu da ultimo sparsa della cenere sul ponte affinchè i marinai non scivolassero.

– È una sala magnifica! – esclamò Koninson, che aveva lavorato forse più di tutti. – Passeremo, qui sotto, delle belle giornate.

– Organizzeremo delle feste! – disse il capitano.

– Da ballo?

– E perchè no? Harwey ha una fisarmonica, mastro Widdeak in fondo alla sua cassa deve avere una vecchia chitarra e il gabbiere Tomshoë una tromba. Come vedi, l’orchestra non manca.

– Allora non ci annoieremo più.

– Poi organizzeremo qualche altro divertimento.

– E quale mai?

– Pianteremo un teatro.

– Superba idea, capitano. Ma chi reciterà?

– Voi altri, e se avrete una discreta voce vi faremo anche cantare.

– Il nostro svernamento diventa un carnevale, capitano.

– Sì, se il freddo, le pressioni e lo scorbuto non ci annoieranno.

– E intraprenderemo delle caccie, anche?

– Formeremo una squadra di cacciatori e una di pescatori. La carne fresca è necessaria per tener lontano lo scorbuto.

– Ma non vedo selvaggina, capitano.

– Non dirlo così presto, Koninson. Fra poco giungeranno gli orsi bianchi.

– Da quell’isolotto forse?

– Dall’isolotto e anche dal mare.

– Faremo loro buona accoglienza, capitano. Abbiamo delle buone carabine e le munizioni abbondano.

L’indomani il capitano e il tenente rivolsero le loro cure all’interno della nave.

La stiva venne accuratamente raschiata e lavata con acqua mescolata a calce, onde il legname non soffrisse troppo durante i grandi freddi e sotto il gran boccaporto fu collocata la stufa munita di un tubo assai curvato affinchè il calore non si espandesse troppo al di fuori. Sopra di essa venne pure collocato un doppio cilindro di ferro galvanizzato destinato allo scioglimento della neve, per aver sempre acqua per la cucina e per la pulizia dell’equipaggio.

Anche le cabine furono prima raschiate e lavate con acqua mescolata a calce e a tutte fu aperto un foro dal sotto in alto per lasciar entrare e uscire liberamente l’aria, la quale combatte efficacemente il congelamento e l’umidità.

Da ultimo fu munito lo scafo della nave di un rivestimento verticale di grosse travi destinato a difenderla dagli urti e a sollevarla durante le pressioni impedendole così lo schiacciamento.

Il 30 settembre il capitano lo destinò al lavoro più faticoso e nel medesimo tempo più indispensabile: l’erezione di un magazzino sul banco di ghiaccio onde, nel caso molto probabile che la nave venisse frantumata dalle pressioni dei ghiacci, l’equipaggio non si trovasse sprovvisto di viveri e dei mezzi necessari per guadagnare la costa americana.

Fu scelto a tale uopo un rialzo, una specie di terrazza, che si trovava a non più di sessanta braccia dalla nave e là sopra fu costruito con legname e con blocchi di ghiaccio il magazzino, fornendolo di un’ampia provvista di legna e di carbone, di una stufa, di alcune casse di vestiti, di vele, di remi, di munizioni e di una grossa partita di viveri sufficienti a nutrire per un mese l’intero equipaggio del «Danebrog». A tutto ciò furono aggiunte due delle più grandi baleniere, armate completamente.

Compiuti questi ultimi provvedimenti, il capitano e i suoi marinai attesero coraggiosamente i rigori dell’inverno polare. E questi purtroppo non si fecero attendere.

Il 2 ottobre il termometro, che da qualche giorno era in moto, scese al mattino a 15 gradi. L’acqua del canale in meno di mezz’ora gelò, stringendo la nave in un cerchio così solido che la scure a mala pena era capace di spezzare.

– Addio autunno! – disse Koninson che era uscito con il tenente dalla sala costruita sopra coperta. – Fra qualche giorno tutto il mare che ci circonda sarà gelato.

– È probabile! – rispose il tenente.

– E poi verranno le pressioni a farci passare dei brutti quarti d’ora.

– Delle brutte giornate, Koninson.

– Resisterà il «Danebrog»?

– Chi può dirlo?

– Avete svernato altre volte voi, signor Hostrup?

– Sì, una volta a bordo dell’«Albert» e una seconda volta a bordo dell’«Islanda».

– Si sono salvate le navi?

– No, Koninson. La prima è andata a picco in seguito ad una falla apertasi per la caduta di un «iceberg», la seconda fu frantumata dalle pressioni come fosse stata una semplice noce.

– Brutti esempi tenente.

– Ma non devi spaventarti, Koninson. Molte altre navi hanno sopportato uno svernamento senza essere danneggiate, e qualcuna ne ha sopportati anche due senza venire fracassata.

– E usciremo di qui quando avverrà lo scioglimento dei ghiacci?

– Sì, se il banco si sfonderà. Certi anni la stagione estiva è così pessima da non finire lo scioglimento dei campi di ghiaccio, e allora la nave che si è lasciata prendere in mezzo è costretta ad aspettare un altro anno.

– Se a noi tocca ciò, moriremo di fame.

– Speriamo che la sorte non sia così crudele, Koninson

– Ditemi, tenente, dove siamo precisamente ora?

– Il punto che feci ieri mi diede 72° 05’ di latitudine e 140° 15’ di longitudine ovest di Greenwich.

– Siamo dunque assai vicini alla costa americana.

– Non ci dividono più di centoquaranta o centocinquanta miglia.

– E sapete che scoglio sia, questo?

– Non tutti gli isolotti che sorgono presso la costa americana hanno un nome, Koninson.

– Se non ci avesse arrestati, forse a quest’ora saremmo in vista della terraferma.

– Certamente, fiociniere. La corrente…

Un fortissimo scroscio, partito dal grande «iceberg» che ostruiva il canale, gli mozzò la parola.

– Cosa sta per succedere? – chiese Koninson, che involontariamente fece due passi indietro.

– Che stia per crollare l’«iceberg»? – si chiese il tenente. – Se ciò accade frantumerà il banco.

– No, tenente, non è lui che crolla, bensì la sua torre. Guardate! Guardate!

La torre infatti si era smossa, facendo inclinare, colla sua mole, la montagna intera e oscillava lievemente facendo piovere al basso migliaia e migliaia di ghiacciuoli.

Ben presto si udì uno scroscio ancora più forte, seguito da una serie di detonazioni paragonabili allo scoppio di piccole mine; poi la torre scivolò lentamente in mare lasciando sempre cadere una grande quantità di ghiacciuoli.

Ad un tratto si staccò dalla montagna e sparve tutta intera nell’abisso spalancato, mandando in aria uno sprazzo immenso. Restò sottacqua cinque secondi, poi in mezzo alla spuma nuovamente apparve, dapprima lentamente, poi con un balzo improvviso, rovesciandosi subito su di un fianco.

Un’onda mostruosa si alzò e si slanciò muggendo sul ghiaccio del canale che in un attimo fu sollevato e sminuzzato e balzato sopra i banchi. Il «Danebrog», investito a poppa, si alzò spaventosamente rovesciando l’equipaggio che era uscito fin dai primi scrosci, poi s’inchinò gemendo e tendendo gli ormeggi.

– Ventre di foca! – esclamò Koninson, risollevandosi prontamente. – Un’altra onda come questa e il «Danebrog» sarà sfracellato.

– Ai buttafuori! – si udì tuonare in quel momento la voce del capitano.

La gran torre, spinta innanzi da una seconda ondata, minacciava di investire la nave e di sfondarle i fianchi.

I marinai corsero a prendere i buttafuori e si disposero a tribordo, pronti a respingerla. Fortunatamente incontrò sulla sua via un lastrone di ghiaccio staccatosi dal banco a causa dell’ondata e si arrestò un momento. Ciò bastò perchè una terza ondata la facesse deviare verso una delle due rive alla quale si cementò solidamente.

Dieci soli minuti dopo, l’acqua del canale, essendosi calmata, era nuovamente coperta da uno strato di ghiaccio dello spessore di tre pollici!

L’equipaggio si affrettò a rientrare nella sala ove la stufa aveva sparso un dolce tepore.

Il 3 ottobre il freddo discese a 17 gradi e il tempo si cambiò. Dapprima un nebbione assai fitto si estese al disopra del grande banco e dello scoglio, poi cominciò a cadere la neve ed a soffiare un vento fortissimo ed eccessivamente freddo. L’equipaggio non osò mostrarsi all’aperto.

Il capitano, verso mezzogiorno, essendosi un po’ calmata la bufera, fece scendere sul banco una decina d’uomini armati di picconi e di scuri, e fece tagliare il ghiaccio attorno alla nave onde le pressioni, sopraggiungendo improvvisamente, il che poteva accadere, non la stritolassero.

Fu constatato che il ghiaccio del canale aveva già raggiunto uno spessore di trenta centimetri.

– Bisognerà tagliarlo ogni mattina attorno al «Danebrog» – disse il capitano al tenente. – Sento per istinto che le pressioni non sono lontane.

– Se questo freddo cresce ancora un pò, tutto il mare gelerà e allora le pressioni ci daranno addosso! – rispose Hostrup.

– Però un buon tratto è ancora libero. Non vedete laggiù che il cielo è cupo?

– Lo vedo, capitano. È segno che il mare è ancora libero.

– Ma pur troppo lo sarà per poco. Temo che questo inverno sia rigidissimo.

– Lo sosterremo con coraggio, capitano.

– Purchè lo scorbuto non venga a fiaccare le nostre forze. Voi sapete che questo terribile male è un nemico che trova buon terreno nelle regioni polari.

– Lo so e farete bene anzi a prendere delle precauzioni contro di esso, fin d’ora.

– Avete ragione, tenente. Cominciando da domani dispenseremo a colazione una fetta di patata e qualche pò di sugo di limone.

– Farete bene anche a lanciare dei cacciatori sul banco. La carne fresca è pure efficace per tener lontano quello spietato male.

– Anche questo faremo, quando il tempo lo permetterà. Voi, che siete un sì abile tiratore, vi metterete alla testa dei cacciatori.

– Domani allora farò una visita allo scoglio. Forse incontrerò qualche orso e delle foche.

Disgraziatamente il tempo, che pareva dapprima volesse rimettersi al bello, l’indomani fu orribile. La neve cadde in siffatta abbondanza da coprire il banco d’uno strato alto un buon mezzo metro e soffiò tutto il giorno un vento così freddo e così impetuoso da rendere pericolosa anche la più piccola marcia.

L’equipaggio, che cominciava già a soffrire il freddo, quantunque avesse indossato le vesti più pesanti, non abbandonò un solo istante la sala ove ardeva senza posa la stufa.

Il capitano, onde non mantenerlo in ozio, fece purificare una certa quantità d’olio di balena. Questa operazione però diede poco frutto, essendo cosa non facile lo sgelare il grasso.

Il 5 il tempo non migliorò, anzi divenne più orribile. La neve continuò a cadere attraverso un nebbione fitto assai, che il vento non era capace di scacciare. A mezzogiorno il termometro segnò 19° sotto lo zero, ma dopo ridiscese a 15° essendosi calmata la burrasca.

Il capitano fu costretto a far sgomberare il tetto della sala dalla neve che lo copriva, onde non finisse col crollare. Per meglio riparare, poi, la nave dal vento che ammucchiava contro di essa una grande quantità di neve e ghiaccioli, fece alzare a breve distanza quattro alte muraglie di ghiaccio, quattro veri bastioni con due uscite.

Il 6 il sole apparve all’orizzonte, ma era un sole senza forza, d’un giallo pallido assai. Poco dopo scomparve dietro al nebbione che pareva non volesse più abbandonare il gran banco di ghiaccio.

XV. L’INVERNO POLARE

Molti e molti giorni sono trascorsi dopo quella notte in cui le prime pressioni dei ghiacci si sono fatte sentire.

L’inverno polare è piombato con tutti i suoi orrori sulla nave danese che non aveva più potuto districarsi dalla cerchia dei ghiacci. Il sole dopo essersi mostrato per qualche giorno ancora sul fosco orizzonte, sempre più smorto e sempre più freddo, ha definitivamente abbandonato quei paraggi e sugli immensi campi di ghiaccio, riuniti dalle correnti prima e dal freddo poi, si è stesa un’oscurità quasi perfetta che ben di rado la luna riesce a rompere.

Nebbioni pesanti, che i venti più furiosi non riescono a disperdere, si succedono gli uni agli altri accompagnati da spaventevoli tempeste, i cui ruggiti formidabili gelano l’anima dei più intrepidi marinai e orribili nevicate.

I banchi di ghiaccio, pochi giorni innanzi popolati di foche, di trichechi, di volpi e di qualche orso bianco, sono diventati deserti e così pure hanno disertato in massa gli uccelli che si sono affrettati a raggiungere climi meno rigidi. È già molto se qualche procellaria o qualche ardito gabbiano solca il nebbione e viene a volteggiare attorno alla nave.

L’equipaggio, vinto dal freddo che talvolta scende fino ai 40° sotto lo zero, da molto tempo non osa più affrontare l’aria esterna e vive costantemente sotto la tolda ove circola ancora un po’ di calore, in preda ad una viva inquietudine che prende proporzioni angosciose ad ogni tremito della nave, ad ogni crollo di un «iceberg», ad ogni fischio più acuto del vento polare.

Non è più il baldo equipaggio di prima. I marinai più audaci hanno perduto il loro coraggio; i più forti la loro vigoria; i più allegri il loro buon umore. Lo stesso sig. Hostrup è diventato pensieroso e di umore nero; perfino il capitano Weimar, che pur ha dato tante prove di ardire e di grande fiducia, è abbattuto.

I loro sforzi per mantenere vivo lo spirito dell’equipaggio, non riescono più.

Le cacce sono finite perchè nessun cacciatore osa abbandonare la stufa; le danze ed i concerti sui quali tanto avevano contato, sono pure cessati, perchè nessuno ha più buon umore; i lavori più o meno faticosi che mantenevano vive le forze sono pure finiti, poichè nessuno più obbedisce nè si sente in grado di intraprendere il minimo sforzo. Più nulla vale a strapparli da quell’abbattimento, da quello snervamento, da quello scoraggiamento che ogni giorno guadagnano maggior campo, minacciando di produrre effetti disastrosi, incalcolabili.

Eccoli tutti là, stretti accanto alla stufa che funziona senza posa e che non abbandonano se non spinti da un motivo imperioso e dopo molte preghiere e anche minaccie dei loro superiori. Hanno i visi pallidi, gli occhi infossati, le barbe ispide e coperte sempre di ghiacciuli; i loro movimenti sono incerti, le loro parole sono mozzate da un incessante tremolio delle labbra, la loro volontà è paralizzata, i loro pensieri sono tardi. Il freddo li ha piombati tutti in una specie di torpore che invano cercano di vincere.

L’acquavite che bevono già è gelata formando un blocco color del topazio, la carne e il pane che mangiano più non si spezzano che a colpi di accetta, poichè hanno acquistato la durezza del ferro; la legna che bruciano è diventata così resistente dal non potersi quasi rompere, le ferramenta, le armi, gli attrezzi di metallo di cui si servono sono diventati, per l’eccessivo freddo, così roventi che posandovi sopra la mano nuda la pelle vi rimane aderente e la carne riporta dolorosissime bruciature; i bicchieri sono diventati pure tali, e a segno che per servirsene bisogna vuotare il liquido in gola onde le labbra non li tocchino; persino le pipe non funzionavano più, poichè a poco a poco la bocca di chi le fuma si riempie di ghiaccio; persino l’aria che respirano cagiona dolorose sensazioni alla gola e ai polmoni e, strano fenomeno, l’alito si trasforma in piccoli aghi di ghiaccio che cadendo ricordano il rumore che produce un pezzo di velluto che si laceri!

Ma è giunto Natale. Dopo una notte burrascosa il gelido vento del nord ha cessato di soffiare e il nebbione si è alzato lasciando liberi i campi di ghiaccio.

Una luce biancastra prodotta dall’«ice-blink» e dal luccichio degli astri che ormai sono visibili anche a mezzodì essendo il sole scomparso per parecchi mesi, si è diffusa ovunque e permette di vedere ad una non piccola distanza. Per di più il termometro da 40° sotto lo zero è disceso con un brusco salto a soli 14°.

L’equipaggio, strappato al suo torpore da quel raddolcimento di temperatura, si è scosso e ha cominciato a lasciare la camera comune ove la stufa divora continuamente carbone e legna e interi barili di grasso e d’olio di balena.

Il tenente ha ripreso il suo buon umore e fa tuonare ovunque la sua voce.

– Animo, scuotetevi, poltroni; svegliatevi, dormiglioni. Natale ci porta una buona giornata e vi prometto di farvi passare la malinconia con un lauto banchetto. Non è vero, capitano?

– Sì, sì! – risponde Weimar, che ha ripreso la sua fiducia. – Solennizzeremo il Natale con un banchetto.

– E pianteremo anche l’albero.

– Con dei regali per tutti.

– Sì, con dei regali.

In breve tempo la camera comune è diventata vuota. Tutti sono saliti in coperta per vedere come stanno le cose al di fuori, sperando forse che quel cambiamento di tempo abbia portato anche una variazione alla situazione pericolosa in cui si trova il «Danebrog».

Il campo di ghiaccio, durante quegli interminabili giorni di intensissimo freddo, ha subito delle modificazioni, ma non in meglio per i disgraziati prigionieri.

La sua estensione, già prima considerevolissima, si è reduplicata per il continuo avanzarsi dei ghiacci trascinati dalla corrente polare verso la costa americana. Fin dove giunge lo sguardo non si vedono altro che altissimi «iceberg» di tutte le forme possibili ed immaginabili: alcuni ritti, tutti d’un pezzo e terminanti in una punta aguzza che scintilla stranamente fra quella semi-oscurità; altri pericolosamente inclinati e che parevano lì lì per piombare sul campo di ghiaccio, qua e là fessi o traforati come se vi fosse penetrato un immenso cuneo; poi più oltre strane cupole, alcune intere ed altre in parte diroccate dalla potente pressione dei ghiacci, e poi svelte colonne mantenentisi ritte per un prodigio di equilibrio; coni strani e piramidi elevate quanto quelle d’Egitto e poi archi, e finalmente massi enormi accatastati confusamente che parevano le rovine di grandiosi edifici diroccati da un tremendo cataclisma.

Del mare nessuna traccia. Forse al di là di quella grande barriera di ghiacci ancora si frangeva sollevato dagli ultimi uragani, ma la distanza era tale che sarebbe stata una vera follia il volersi spingere fino laggiù attraverso a tutte quelle pericolanti guglie.

– Siamo proprio accerchiati, e come! – esclamò il tenente. – Ci vorrebbero cento tonnellate di dinamite per aprirci una via.

– Fortunatamente la nave resiste sempre! – disse il capitano.

– Infatti non mi sembra che abbia sofferto; non ha fatto altro che sollevarsi un pò.

– Speriamo che continui, se i ghiacci tornano a restringersi attorno a noi.

– E i nostri magazzini avranno sofferto? – interrogò Koninson, guardando a babordo.

– Non mi sembra – disse il capitano. – La neve li ha coperti ma non vedo alcuna fessura attorno ad essi. Domani, se il tempo ci permetterà, li visiteremo.

– Sì, domani! – affermò il tenente. – Oggi non ci occuperemo che di festeggiare Natale.

– E voi vi incaricherete del pranzo, signor Hostrup.

– Grazie, capitano, cercherò di farmi onore. Ohè, ragazzi, mandate al diavolo i ghiacci e occupatevi di allestire in coperta una tavola che possa servire a tutti.

– Mi metterò io alla loro testa! – disse il fiociniere. – Ehi, mastro Widdeak, al lavoro!

I marinai, che altro non desideravano se non di dimenticare i loro lunghi patimenti, non si fecero pregare dai loro capi e tutti di buona voglia si misero alacremente al lavoro, mentre il tenente assumeva l’alta direzione della cucina.

Alle 4 pomeridiane il ponte del «Danebrog» offriva uno spettacolo senza dubbio mai più visto in quell’alta latitudine.

Koninson e Widdeak, aiutati dai marinai, avevano preparato una lunga tavola che si piegava sotto il peso dei tondi e delle bottiglie di rhum, che il degno tenente conservava da anni per qualche grande occasione.

Tutto all’intorno, bandiere di segnali e bandiere di parecchie nazioni s’intrecciavano artisticamente, mentre verso poppa un piccolo pennone, che voleva essere l’albero di Natale, adorno di variopinte fasce, reggeva a grande stento bottiglie, pipe, pacchi di tabacco, coltelli e focaccie.

– A tavola! – s’udì tuonare sotto coperta l’allegra voce del tenente.

Il capitano, i fiocinieri, i timonieri, i gabbieri, che non aspettavano che quel segnale, si assisero ai loro posti e poco dopo appariva il tenente seguito da alcuni marinai che portavano fumanti pentoloni e casseruole da cui uscivano appetitosi profumi.

– Evviva al sig. Hostrup! – urlò l’equipaggio.

– Ragazzi miei, lasciate gli evviva in fondo alle vostre gole, – disse il tenente – e invece preparate i vostri denti e il vostro stomaco.

I marinai, ai quali era tornato l’appetito, fecero grandissimo onore al pasto e soprattutto alle bottiglie che sparivano rapidamente. Una pazza allegria regnava fra tutti quei lupi di mare che in quel momento dimenticavano di trovarsi imprigionati quasi all’estremità del mondo abitabile e forse alla vigilia di qualche spaventevole catastrofe.

Verso le 9 di sera, il tenente, che sembrava il più allegro di tutti, diede la stura alle sue due famose bottiglie ed empiendo fino all’orlo il suo bicchiere si alzò.

– Capitano, un brindisi – gridò.

– A chi? – domandarono i marinai.

– Al nostro valoroso «Danebrog»! Amici, capitano, evviva al «Danebrog»!

Il tenente vuotò tutto d’uno colpo la sua tazza, ma nè il capitano, nè i marinai lo imitarono.

Si erano tutti, come un solo uomo, alzati guardandosi in viso con una viva ansietà e più di uno era impallidito.

– Cosa succede? – chiese il tenente che nulla aveva avvertito.

– La nave si è mossa! – disse il capitano, che curvo verso il tribordo, pareva ascoltare i rumori esterni.

– Ed io ho udito un sordo boato – aggiunse Koninson.

– Forse le pressioni? – chiesero i marinai.

Uno scricchiolìo forte, seguito da una scossa che fece oscillare il liquido contenuto nei bicchieri e le lampade sospese al tetto della sala, li rese avvertiti che qualcosa di straordinario accadeva sul grande campo di ghiaccio.

– Sono le pressioni! – esclamò il tenente vibrando un formidabile pugno sulla tavola. – E proprio oggi vengono a disturbarci, sul più bello del banchetto. Al diavolo i ghiacci!

– Zitti tutti! – comandò il capitano. – Udite! Udite!

Ognuno prestò orecchio.

In lontananza si udivano strani muggiti che pareva provenissero da un immenso esercito di buoi, e sordi boati che parevano prodotti da esplosioni sotterranee.

D’un tratto la nave si alzò bruscamente verso poppa e si udirono i corbetti gemere come se fossero stati potentemente stretti da un’immane tenaglia.

– Fuori, fuori tutti! – disse il capitano.

I marinai si slanciarono confusamente all’aperto senza badare al freddo che era bruscamente aumentato d’una buona diecina di gradi e si curvarono sulla murata di poppa spingendo ansiosamente i loro sguardi sul campo di ghiaccio.

Nulla pareva che fosse accaduto attorno alla nave.

Gli «iceberg», le piramidi, i coni e gli obelischi, occupavano le stesse posizioni e conservavano le loro inclinazioni; però al di là di quell’accatastamento di ghiacci si udivano delle sorde esplosioni e degli strani muggiti accompagnati da lunghi scricchiolii i quali, attraversando il campo, venivano a morire sotto la chiglia della nave che subiva delle forti vibrazioni.

Senza dubbio all’estremità del banco succedeva una battaglia tremenda fra i ghiacci che la corrente polare trascinava verso sud e che cercavano di aprirsi la via furiosamente sospinti dagli «iceberg» che venivano dietro di loro.

– Corriamo qualche pericolo? – chiesero i marinai al capitano la cui fronte si era rabbuiata.

– Chi può dirlo? – rispose Weimar. – Temo però che passeremo una brutta notte.

– Cosa dobbiamo fare? – chiese Koninson.

– Nulla per ora; ognuno però porti il proprio sacco in coperta.

– Perchè mai? – chiesero alcuni.

– Perchè potrebbe darsi che la nave….

Non finì. Un’esplosione formidabile che poteva paragonarsi allo scoppio simultaneo di mille pezzi d’artiglieria era avvenuta al di là della linea dei ghiacci, e il banco, malgrado la sua immensa estensione e il suo enorme spessore, erasi spaccato a metà lanciando in aria giganteschi spruzzi d’acqua ed ingoiando alcuni «icebergs».

L’equipaggio, atterrito, diede indietro mandando un grido di terrore,

– Presto, presto, – gridò il capitano – portate i vostri sacchi in coperta e tenetevi pronti a guadagnare i magazzini e le scialuppe.

I marinai si precipitarono nella sala comune, raccolsero alla oscillante luce delle lampade i loro effetti e le loro armi e riguadagnarono la coperta.

Una scena spaventevole accadeva allora sul campo di ghiaccio. Fra mille detonazioni, fra mille muggiti, fra mille fischi e mille crepitii, «icebergs», «hummocks», piramidi, cupole, coni e colonne s’inclinavano, si rialzavano, si cozzavano e si frantumavano lanciando ovunque i loro pezzi.

Il campo, scosso in tutti i sensi, stretto da ogni parte dalla potente pressione dei ghiacci alla quale nessun corpo resiste, si sollevava or qua e or là fendendosi e vomitando l’acqua del mare. Si sarebbe detto che quella massa enorme, poco prima solida tanto da sostenere una intera città, si fosse tutta d’un tratto convertita in una massa d’acqua agitata da un furioso uragano.

La nave, ora rialzata a poppa ed ora rialzata a prua, oscillava spaventosamente, come si fosse trovata in piena tempesta. I suoi fianchi scricchiolavano e minacciavano di cedere, i puntelli s’incurvavano, il ponte si piegava, la chiglia si spezzava urtata e stretta dall’avanzarsi dei ghiacci.

L’equipaggio, spaventato, coll’angoscia al cuore, impotente a far fronte a quel nuovo genere di assalto, che nessuna forza umana poteva respingere, si teneva aggruppato a poppa, mentre i suoi capi, che anche in quel terribile frangente si studiavano di apparire calmi, curvi sulle murate seguivano ansiosamente l’alzarsi e lo spezzarsi dei ghiacci sotto i fianchi del legno.

Per una mezz’ora, che parve lunga quanto mezzo secolo, il campo fu in piena confusione, poi successe una breve calma interrotta solo dai muggiti che acquistavano maggiore intensità; quindi, quando l’equipaggio cominciava già a sperare, si udì un altro spaventevole rombo seguito da mille scricchiolii, dal rovinare di «icebergs» e di «hummocks» e da una nuova e più formidabile convulsione del campo che parve si piegasse sotto il poderoso sforzo che veniva esercitato sui suoi confini.

Il «Danebrog», che a poco a poco aveva ripresa la sua primiera posizione, si risollevò a poppa, indi cadde pesantemente nel suo cavo la cui crosta, sotto l’urto, s’infranse. S’udì tosto un crepitìo di legnami infranti e pochi istanti dopo, in mezzo al crollare dei ghiacci, ai rombi, ai muggiti e ai fischi, una voce gridare:

– Si salvi chi può! I ghiacci hanno sfondato il «Danebrog»!

Nell’udire quelle grida che annunciavano l’irreparabile perdita della valorosa nave, fiocinieri, timonieri e gabbieri, perduta completamente la testa, si gettarono confusamente verso le murate onde guadagnare i magazzini sotto i quali stavano le scialuppe.

Il capitano e il tenente fortunatamente non avevano perduto il loro sangue freddo. Prevedendo a quale pericolo si esponevano i loro compagni su quel banco ancora in piena convulsione, che qua e là si apriva minacciando d’ingoiare chi si fosse arrischiato di attraversarlo, si slanciarono verso le murate gridando:

Age restriction:
12+
Release date on Litres:
30 August 2016
Volume:
270 p. 1 illustration
Copyright holder:
Public Domain