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Read the book: «I pescatori di balene», page 12

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XXI. TRASCINATI DAI GHIACCI

Tutta la notte i ghiacciai della montagna furono in continuo movimento empiendo l’aria di interminabili fragori e scagliando nella sottoposta valle immense quantità di massi di cui taluni del peso di migliaia di tonnellate.

Il tenente e Koninson, quantunque al sicuro, più volte lasciarono la tenda e si spinsero verso la valle che ormai era interamente coperta, presentando un indescrivibile caos di valanghe, di «icebergs» rovesciati e di massi che, di quando in quando, urtati, spinti da altri ghiacci e da altri ammassi di neve, si agitavano e rimbalzavano come se fossero esseri viventi.

Alle 6 del mattino, dopo una magra colazione, i due balenieri che vedevano i loro viveri scemare rapidamente e sapevano di aver dinanzi una grande estensione di terra, prima di giungere ai luoghi abitati, piegata la tenda e attaccatisi alla slitta, si rimettevano in cammino onde intraprendere la traversata della catena dei monti.

Il caso li aveva guidati in un buon passaggio, formato da una specie di strettissima valle che s’arrampicava fra due colline e che pareva si prolungasse fino alla cima.

Per di più quel passaggio pareva che non offrisse ostacoli, poichè si vedeva salire senza roccie e senza accumulamento di nevi, le quali cose avrebbero reso difficilissima la via alla slitta che, quantunque di molto alleggerita, pesava ancora un centinaio e più di chilogrammi.

Aiutandosi coi bastoni forniti dai pennoni della vela, i balenieri, riunendo tutte le loro forze, si cacciarono nella stretta valle che poteva anche chiamarsi una semplice spaccatura e cominciarono a salire tenendo però sempre gli occhi volti verso le cime delle due vicine colline dalle quali poteva, da un istante all’altro, cadere qualche valanga e seppellirli.

La slitta, quantunque avesse sotto di sè un buon strato di solido ghiaccio che la faceva scivolare abbastanza bene, diventava pesante a causa del pendio che cresceva sempre più, ma i due marinai, che avevano fretta di uscire da quel pericoloso passo, non si arrestarono e incoraggiandosi vicendevolmente colla voce e coll’esempio, continuavano a salire, aggrappandosi alle pareti rocciose quando si sentivano trascinare indietro e piantando profondamete i bastoni nella neve.

Dopo aver fiancheggiato dei profondi abissi da cui saliva una densa nebbia sotto la quale si udivano ululare i lupi, dopo aver arrischiato venti volte di fiaccarsi il collo, dopo aver sollevato, con uno sforzo sovrumano, più di una volta la loro slitta per superare certe creste ove nessuna mano di uomo aveva aperto un passaggio, verso le dieci del mattino giunsero dinanzi ad una specie di caverna che occuparono per prendere un pò di riposo.

Mentre Koninson, che non poteva star fermo, s’ingegnava ad accomodare la slitta che in quei trabalzi aveva sofferto non poco, il tenente fece un’ampia provvista di lichene di roccia con cui contava di regalarsi una eccellente zuppa.

Fu in quella raccolta che egli scoprì una strana pianticella che prima d’allora non aveva mai vista e della quale non aveva mai udito parlare.

– Vieni, Koninson, – disse. – Ho messo la mano su una rarità che i botanici ancora ignorano.

– Roba da mangiare? – chiese il fiociniere, che pensava al pranzo.

– No, ma sono contento di averla scoperta.

Il fiociniere raggiunse il tenente che gli mostrò un bizzarro fiore, piantato in mezzo alla neve e cresciuto fra i gelati soffi del vento settentrionale, formato di tre sole foglie del diametro di circa tre pollici coperte di microscopici cristalli di neve e d’una stella, i cui petali, lunghi quanto le foglie e larghi un mezzo pollice, mostravano dei piccoli punti lucenti come diamanti e della grossezza di capi di spilli.

– È meraviglioso! – disse il fiociniere. – Un fiore che nasce in mezzo ai ghiacci!

– Ne hai visto di simili?

– Mai, signor Hostrup, eppure ho viaggiato assai nelle regioni polari. Tò! E cos’è quella roba rossa che vedo laggiù, presso quel masso di ghiaccio?

– Un’altra pianta meravigliosa forse?

– Non credo, signor Hostrup. Io la direi…

– Neve rossa, vuoi dire.

– Precisamente.

– E lo è infatti.

– Come? Forse che c’è anche della neve rossa?

– Altri viaggiatori artici l’hanno veduta più a nord.

Si diressero verso quello strato rosso che non occupava però più di tre o quattro metri quadrati e si convinsero che era proprio neve colorata di rosso.

– Ma come diventa di questo colore? – chiese Koninson, meravigliato. – Forse per la presenza di vegetali coloranti microscopici?

– Lo si è creduto, Koninson: ma il viaggiatore Scoresby, che l’ha studiata, non è di questo parere. Secondo lui, il principio colorante deriverebbe da migliaia di piccoli infusorii che si muoverebbero con rapidità vertiginosa.

– Che abbia differente sapore della bianca?

– Non credo; del resto puoi…

– Zitto, signor tenente!

– Cosa c’è ancora?

– Udite!

Il tenente tese gli orecchi e fra i cupi rimbombi dei ghiacci scivolanti dalla montagna, udì delle urla acute che rapidamente sì avanzavano.

– Bah! Sono lupi! – disse.

– Ma mi sembrano molti.

– Abbiamo i nostri fucili, ragazzo mio.

– Non ci assaliranno?

– Forse, ma noi li respingeremo. Entriamo nella caverna e prepariamo la zuppa.

Trascinarono con loro la slitta onde porre in salvo le provvigioni che ancora restavano e raggiunsero il ricovero, dentro il quale potevano difendersi contro l’attacco delle voraci bestie.

Koninson accese la lampada, il tenente sciolse sulla fiamma un pò di neve e mise nella marmitta il lichene raccolto che ben presto cominciò a bollire, spandendo all’intorno un profumo appetitoso.

Quando fu ridotto in una specie di pasta gommosa e nerastra, il tenente invitò il fiociniere ad assaggiarla.

– Il colore non è rassicurante! – disse Koninson. – Ma il profumo è promettente.

E l’assaggiò una, due, tre volte.

– Eccellente! – esclamò. – Rammenta il sapore del manioca. E come si chiama dagli eschimesi, questa zuppa?

– Trippa di roccia.

– Evviva la trippa, adunque!

La marmitta, vigorosamente assalita, fu ben presto vuotata. I due balenieri stavano per porre sotto i denti alcuni biscotti onde completare il pasto, quando un enorme lupo, dagli occhi scintillanti e dal pelo lungo e arruffato, fece il suo ingresso nella caverna emettendo un lugubre ululato.

– Troppo ardito, mio caro! – disse il tenente afferrando il fucile.

All’ululato del lupo fecero eco altri ululati che venivano dal di fuori.

– Diavolo! – esclamò Koninson, prendendo l’altro fucile. – Abbiamo una banda dinanzi alla grotta.

– Hanno fame quelle brutte bestie e forse calcolano di sfamarsi colle nostre polpe.

– È ciò che vedremo.

Il lupo, punto spaventato, non si muoveva e pareva invitasse i compagni a seguirlo; ma il tenente con un colpo di fucile lo abbattè.

Alla detonazione e all’urlo di dolore emesso dal colpito, gli altri lupi invece di fuggire s’affacciarono all’entrata della caverna, mostrando minacciosamente i loro acuti denti e dardeggiando sui due balenieri sguardi ardenti.

Koninson fece fuoco in mezzo al gruppo e fece cadere il più ardito. La banda intera si precipitò sul morto e lo fece a brani contendendoselo ferocemente.

– Ah! – esclamò il fiociniere. – Il proverbio questa volta riceve una solenne smentita.

– È vero! – disse il tenente. – Ora non si dirà più che lupo non mangia lupo. Orsù, mano alla scure e carichiamo quelle canaglie…

Gettando alte grida, si slanciarono in mezzo ai lupi i quali s’affrettarono a battere in ritirata arrestandosi però a breve distanza.

– Pare che non abbiano voglia di lasciarci, signor Hostrup.

– Ma noi partiremo lo stesso. Ho fretta di raggiungere la cima del colle.

– In marcia, adunque.

Caricarono i fucili, s’attaccarono alle corde della slitta e usciti dalla caverna, ripresero la faticosa ascensione. I lupi si misero a seguirli ad una distanza di trenta o quaranta passi, destando tutti gli echi delle montagne coi loro interminabili ululati.

Per due ore, tirando e spingendo rabbiosamente la slitta che pareva diventasse sempre più pesante, seguirono quella specie di passaggio ma, giunti ad una certa altezza, si trovarono dinanzi ad una parete di ghiaccio che chiudeva la via e così elevata da non potersi superare.

Dovettero deviare ed arrampicarsi sui fianchi della montagna più vicina, che erano i meno aspri, ma che tuttavia presentavano delle pendenze che talvolta parevano inaccessibili, lambendo certi burroni che solamente a guardarci dentro venivano le vertigini.

I loro sforzi sovrumani però trionfarono di tutti quegli ostacoli e, verso le otto della sera, rattrappiti dalle immense fatiche e dal freddo che lassù si faceva sentire assai vivo, giunsero finalmente sul versante opposto della montagna dove si fermarono, spaziando gli sguardi sul panorama che si stendeva dinanzi a loro, per un tratto di moltissime leghe.

Proprio sotto di loro la montagna scendeva rapida, affatto liscia, coperta da enormi lastre di ghiaccio sovrapposte a strati altissimi, senza abissi, senza valli, senza alberi. Più oltre, una pianura scintillante si apriva a perdita d’occhio, smarrendo verso sud, senza alture, senza capanne, senza boschi, senza un essere animato.

A destra ed a sinistra, sulle due vicine montagne, due grandi ghiacciai, due veri fiumi di ghiaccio in movimento, scendevano verso la pianura vomitando di quando in quando degli «icebergs» del peso di parecchie centinaia di tonnellate, che il sole imporporava splendidamente.

Una fitta nebbia, che il vento sbatteva a destra ed a sinistra e che talora lacerava, s’alzava dal fondo di profondi abissi, dentro i quali s’udivano muggire degli impetuosi torrenti.

– Dove siamo noi? – chiese Koninson.

– Sul fianco di una montagna – disse il tenente.

– Lo vedo bene, signor Hostrup, ma io vorrei sapere in qual luogo: se vicini o lontani dalle terre abitate.

– Vicini no di certo. Bisognerà giungere al Porcupine prima d’incontrare qualche tribù d’indiani.

– È molto lontano questo fiume?

– So che scorre verso sud, attraverso a questa immensa pianura, ma a quale distanza precisamente non lo so.

– A qualche migliaio di chilometri no di certo.

– No, ma a più di duecento sì.

– Allora lo raggiungeremo.

– Ne sono certo. Dove sono andati i lupi?

– Pare che si siano stancati di seguirci, signor Hostrup. Certamente hanno capito che la nostra carne non era troppo buona per i loro denti.

– Meglio così. Dormiremo più tranquilli.

– Contate di rizzare la tenda qui?

– E perchè no? Scendere è impossibile per le nostre gambe che non stanno più ritte e il luogo non mi sembra cattivo.

– Sarà solido il ghiaccio?

– Lo credo poichè non scorgo nessuna spaccatura, nè odo alcuno scricchiolìo.

– Allora accampiamoci. Staremo un pò troppo freschi, ma ci siamo ormai abituati.

Assicurarono la slitta perchè qualche colpo di vento non la facesse scivolare su quella ripida china, rizzarono la tenda appoggiandola ad un grossissimo masso di ghiaccio, una specie di «hummok» che pareva fosse rotolato dalla cima della montagna, ma che sembrava irremovibile, e si cacciarono sotto.

La notte non doveva essere tranquilla sui fianchi di quella montagna, e con quei due ghiacciai vicini che non stavano un solo istante zitti. Parecchie volte, agitati da strani presentimenti e spaventati dalle detonazioni dei ghiacci che diventavano più intense, i balenieri uscirono per vedere se correvano qualche pericolo.

Verso la mezzanotte però, affranti dalle fatiche e da quella quasi continua veglia, s’addormentarono profondamente.

Non erano trascorse tre ore, quando il tenente fu improvvisamente destato da un formidabile boato che fece tremare il ghiaccio su cui posava la tenda.

Aprì gli occhi e attraverso il tessuto scorse un vivo bagliore che pareva cagionato da un grande incendio.

– Guarda! – esclamò. – Si direbbe che la montagna brucia.

Alzò un lembo della tenda e strisciò all’aperto.

Una superba aurora boreale, forse l’ultima della stagione invernale splendeva sull’orizzonte settentrionale lanciando attraverso la volta celeste immensi fasci di luce rossastra, i quali tingevano del colore del fuoco tutte le montagne, i ghiacciai e la gran pianura.

Ma questo non era tutto. Si sarebbe detto che quella luce avesse avuto anche il calore del fuoco, poichè tutti i ghiacci delle montagne si fendevano in mille guise come se sotto di loro la terra si sconvolgesse e precipitavano a migliaia nella sottoposta pianura in un disordine spaventevole, sibilando, fischiando, tuonando e tutto abbattendo sul loro cammino.

Il tenente balzò in piedi, ma si sentì subito atterrare. Anche i fianchi della montagna su cui si trovava erano in movimento, e quelle grandi lastre di ghiaccio, che poche ore prima parevano inchiavardate e sicurissime, si fendevano in tutti i versi e scivolavano giù per le chine.

– Siamo perduti! – esclamò involontariamente. – Koninson! Koninson! All’erta!

Il fiociniere si slanciò fuori della tenda, ancora mezzo addormentato.

– Cosa succede? – chiese.

La sua voce si perdette fra le detonazioni dei ghiacci.

Si precipitò verso il tenente che, impotente e ormai rassegnato, aveva incrociato le braccia sul petto aspettando la morte che pareva ormai certa.

– Fuggiamo, signore! – esclamò.

– Dove?

– Alla grotta.

– È impossibile, la via è interrotta.

– Allora siamo perduti.

– Chissà! Speriamo in Dio.

– Signor tenente…

Il fiociniere non proseguì. Una scossa violenta l’aveva atterrato assieme al tenente e alla tenda.

Quasi subito udirono una detonazione paragonabile solo allo scoppio d’una mina di cinquecento chilogrammi di polvere e si sentirono trascinare verso il basso, dapprima lentamente e poi con una rapidità vertiginosa.

Un lastrone di ghiaccio di dimensioni enormi e del peso di parecchie migliaia di tonnellate, su cui si trovavano i due balenieri, si era staccato e scendeva la montagna più rapido di un treno diretto, seco trascinando tutto ciò che incontrava sul suo cammino, fiancheggiato e seguito da un vero esercito di massi di ghiaccio che rimbalzavano in tutte le direzioni.

I due balenieri, mezzo soffocati dalla rapidità della discesa, storditi dalle migliaia di ghiacciuoli che li percuotevano incessantemente, assordati dai fragori che produceva il lastrone nella sua corsa e che talora erano fischi stridenti e tal’altra ruggiti che sembravano emessi da fiere in furore, tentavano di mantenersi presso la slitta, ma brusche scosse, di quando in quando, li separavano violentemente lanciandoli a destra o a sinistra, innanzi e indietro a rischio di cadere in mezzo a tutto quel rovinio di massi che non avrebbe mancato di schiacciarli.

Dopo un minuto, che ai due disgraziati parve lungo quanto un secolo, il ghiaccione toccò il piano. Si raddrizzò con un colpo tremendo che lo fece crepitare e fendere in più luoghi, indi continuò la corsa attraverso la pianura con un rullìo paragonabile a quello di una nave in un giorno di tempesta.

Ad un tratto avvenne un potente urto. Il lastrone aveva cozzato contro una rupe che s’alzava di pochi metri sulla superficie del suolo, ma che presentava una resistenza incalcolabile.

Il ghiaccione si rialzò come un cavallo che si inalbera sotto una violenta speronata, e ricadde spaccandosi in venti e più parti.

I due balenieri, scaraventati innanzi da quei due urti, caddero in mezzo alla neve ove rimasero immobili come se fossero stati uccisi sul colpo.

XXII. IL PORCUPINE

Passarono alcuni minuti, poi in mezzo alla neve e ai frammenti di ghiaccio che si erano accumulati in grande quantità attorno al lastrone infranto, apparve una testa, quella di Koninson.

Il buon fiociniere girò all’intorno due occhi spaventati cercando ansiosamente il suo compagno che non si vedeva ormai più, indi radunando le forze si fece un pò di largo respingendo a destra e a sinistra i ghiacciuoli che lo rinserravano e gridò replicatamente, con un tono che faceva supporre come nulla di guasto ci fosse nei polmoni:

– Signor Hostrup!

– Sei vivo? – chiese una voce soffocata, che usciva di sotto una massa di neve.

– Dove siete, mio tenente?

– Qui sotto ma sto per liberarmi.

– Salvo?

– Pare che nulla vi sia di rotto. Aiutami se puoi.

Il fiociniere, lavorando vigorosamente colle braccia e colle gambe, ingrandì il buco in cui si trovava e, continuando il faticoso esercizio, pervenne a raggiungere il cumulo di neve che si agitava dall’alto in basso sotto i violenti sforzi del tenente.

– Un pò di pazienza, signor Hostrup, – disse. – Per bacco! Mi par di essere un uccello preso col vischio. Largo! Largo!

Si mise a spazzare la neve colle mani e dopo qualche minuto scorse un braccio che cercava di uscire. L’afferrò e tirò bruscamente a sè, facendo crollare l’intero cumulo e mettendo allo scoperto il tenente.

– Grazie, Koninson, – disse il liberato, dopo aver respirato una gran boccata d’aria. – Che capitombolo!

– E che viaggio, signor Hostrup! Posso dire di aver viaggiato colla rapidità d’un treno diretto anche in un luogo dove forse non si aprirà mai una linea ferroviaria.

– Bella consolazione, Koninson. Per poco, questo viaggetto ci costava la pelle. Ma dov’è andata a finire la nostra slitta?

– Non sarà lontana.

– Cerchiamola, ragazzo mio, poichè la perdita di essa sarebbe per noi una morte certa.

Unendo le parole ai fatti, si cacciò in mezzo ai ghiacciuoli e alla neve, mentre il fiociniere faceva altrettanto, ma prendendo una direzione opposta.

La fortuna, che li aveva protetti durante la pericolosissima discesa, anche questa volta si mostrò loro benigna, poichè rinvennero ben presto il veicolo che il colpo aveva lanciato fra due grossissimi pezzi di ghiaccio. Nella caduta non pareva avesse sofferto; solamente le casse e i barili avevano spezzato i legami ed erano caduti all’ingiro. Presso la slitta rinvennero pure le loro armi e un pò più lontano la tenda, ancora in ottimo stato.

– Non speravo tanto! – disse il tenente. – Bisogna proprio dire che la Provvidenza non ci abbandona.

– Speriamo che ci conduca a salvamento, signor Hostrup.

– Ne sono certo.

– Ed ora cosa facciamo?

– Usciremo di qui e prenderemo la via del sud. Vedo che la pianura è perfettamente liscia e sento un buon vento venire dalle montagne. Spiegheremo la vela.

Rimisero sulla slitta tutte le casse e i barili; indi, dato mano alle scuri, si scavarono una via attraverso i rottami del ghiaccione, girando attorno alla gran rupe che aveva causato l’urto.

Dopo un’ora uscivano finalmente nella pianura che pareva si prestasse assai ad un rapido viaggio, essendo coperta di un solido strato di neve, liscio come la superficie d’un lago tranquillo.

La vela fu subito issata, il timone messo a posto e i due balenieri «s’imbarcarono», come diceva Koninson, dirigendosi verso sud con una rapidità superiore ai quindici nodi all’ora.

A mezzogiorno, dopo un viaggio che non poteva essere nè migliore nè più tranquillo, e dopo aver percorso un tratto di circa centoventi chilometri, fecero una fermata presso un gruppo di alti pioppi, le cui cime s’incurvavano graziosamente.

Koninson, felice di aver trovato finalmente della legna, a colpi di scure fece cadere il più piccolo ed accese un fuoco capace di arrostire un bue intero.

– Ah, se ci fosse un bel pezzo di carne fresca, quale festa! – esclamò egli levando un pò di «pemmican» ed alcuni biscotti da una cassa.

– Ne avremo, Koninson.

– Quando?

– Appena saremo giunti al Porcupine. Là i pesci abbondano e le trote vi sono grossissime.

– Allora.... ah!

– Cos’hai?

– Non avete udito un gemito, voi?

– Un gemito? Diventi pazzo, ragazzo mio?

– Con questo freddo? Udite! Udite!

Il tenente, con sua grande meraviglia, questa volta udì un gemito che pareva emesso da gola umana, ed a brevissima distanza.

– Che vi sia qualche eschimese ferito? – chiese Koninson.

– Ma dove?

– In mezzo agli alberi.

– No, io credo invece che stia per venire l’arrosto che tu desideri. Guarda lassù, su quel grande pioppo.

Koninson guardò nella direzione indicata e vide svolazzare un grande uccello le cui ali superavano, prese insieme, un metro e mezzo di estensione.

– Un’aquila? – esclamò.

– Ma che aquila! È una stupenda «nyceta nivea».

– E credete che sia stato quell’uccello a mandare quei gemiti umani?

– Proprio lui.

– Si mangia?

– È carne non disprezzabile.

Koninson balzò sul fucile e lo puntò, ma il tenente gli abbassò l’arma.

– Non aver fretta! – gli disse. – Vedrai che si avvicinerà a noi.

– Ma come mai quell’uccello, che somiglia ad un gufo, si trova qui, in questa regione così fredda?

– Le «nycete» frequentano i luoghi caldi e i freddi. S’incontrano presso le rive dell’oceano artico e anche sulle rive del golfo del Messico.

– E di che cosa vivono, in questi deserti di neve?

– Di uccelli finchè ce ne sono e, quando questi sono emigrati, danno la caccia ai piccoli animali. Si nascondono sovente nelle vicinanze delle tane delle lepri, degli ermellini e persino delle volpi e, quando le vittime escono, piombano loro addosso con rapidità fulminea, dilaniandole a colpi di becco e d’artiglio.

– Sono uccelli coraggiosi.

– Sì, e tanto da affrontare i cani e qualche volta da avventarsi contro i cacciatori.

– Signor tenente, vedo che l’uccello non viene da noi; andiamo noi da lui.

– Andiamo, Koninson.

Raccolsero i fucili e si diressero verso il pioppo sulla cui cima la «nyceta» continuava a svolazzare gettando di quando in quando un forte «rik-rik» che poteva, fino ad un certo punto, sembrare un gemito umano.

Quando giunsero a breve distanza, l’uccello si abbassò, poi partì con grande rapidità producendo, colle larghe ali, un forte rumore e si precipitò al suolo come se fosse stato ucciso o ferito.

– Olà! – esclamò Koninson. – Cosa vuol dire ciò?

Si precipitò verso la «nyceta» che sembrava morta, ma quando le fu vicino, essa si alzò nuovamente, spiccò un’altra volata e ricadde trecento metri più innanzi.

– Che sia ferita? – chiese il fiociniere, la cui sorpresa cresceva.

– No! – disse il tenente – Noi abbiamo da fare con una femmina, la quale ricorre a questa astuzia per allontanarci dal suo nido,

– Allora mangeremo anche delle uova. Che pasto, signor Hostrup

Questa volta non si lasciò più ingannare dal povero uccello. Appena fu per riprendere il volo, il fiociniere puntò il fucile e, con una palla ben aggiustata, lo fece cadere, ma per sempre.

– Il bell’arrosto! – esclamò.

Ed infatti era un bell’arrosto. Quell’uccello, dalle penne bianche solcate da un certo numero di macchie brune trasversali e longitudinali, dal becco robusto e ricurvo, era lungo quasi due piedi e non pesava meno di dieci chilogrammi. Era il vitto assicurato per un paio di giorni, per i poveri naufraghi; ma Koninson chiedeva qualche cosa di più.

Impadronitosi dell’uccello, si affrettò a raggiungere la macchia di pioppi e, dopo aver cercato qua e là, scoprì il nido, una specie di cavo tappezzato di pochi fili d’erba acquatica e di penne candide e lunghe che la femmina si era coraggiosamente strappate dal petto, e contenente otto grosse uova.

– Che giornata fortunata! – esclamò allegramente il bravo fiociniere. – Presto, signor Hostrup, ritorniamo presso il fuoco e mettiamoci al lavoro. Le mie mandibole sono impazienti.

Due ore dopo, seduti dinanzi al fuoco, divoravano ferocemente più di mezzo uccello, dopo aver trangugiato le uova a mò d’antipasto. Il tenente, per compiere l’opera, diede la stura ad una bottiglia di «gin», l’ultima che ancora possedevano e che avevano religiosamente conservata per le grandi occasioni.

Verso le 4 pomeridiane, approfittando d’un fresco vento che veniva da nord-nord-ovest, spiegavano la vela e riprendevano la corsa verso sud, ma non rapidamente come il mattino a causa della neve che, essendosi in parte sciolta sotto i raggi solari, opponeva una certa resistenza ai pattini della slitta.

Parecchie volte dovettero discendere e trascinare il veicolo per qualche tratto onde sorpassare certi strati di neve eccessivamente molle, anzi quasi disciolta. Nondimeno verso le 9 della sera avevano percorso altri quaranta o cinquanta chilometri.

Il tenente stava per ammainare la vela volendo accamparsi, quando Koninson gli additò una costruzione piantata sulle rive di un laghetto ancora gelato.

– Forse ci sono degli abitanti là sotto! – disse il fiociniere. – Non mi rincrescerebbe di vedere un volto umano per quanto possa essere brutto.

– Ho poca speranza – rispose il tenente, – Tuttavia dirigiamoci laggiù.

La slitta riprese la corsa e dopo venti minuti si arrestava presso l’abitazione segnalata.

I due balenieri balzarono a terra, si armarono dei fucili per precauzione, e si diressero a quella volta.

Era una capanna semplicissima, formata da sette od otto pali sostenenti un tetto di ramoscelli e di pezzi di corteccia, assicurata con strisce di pelle. La neve, accumulandosi sopra, l’aveva in parte sfondata, ma poteva ancora servire di ricovero.

– È un’abitazione estiva dei Co-yuconi.

– Abbandonata da molto tempo senza dubbio – osservò Koninson.

– Dall’anno scorso, molto probabilmente.

– Tò! Cosa sono quegli oggetti ammonticchiati in quell’angolo?

– Ossa di animali.

– Forse che i Co-yuconi le raccolgono per venderle?

– No, Koninson, – disse il tenente ridendo. – Li ammucchiano nelle loro capanne perchè credono che, gettandoli via, debbano succedere delle disgrazie; che le caccie diventino infruttifere; che le trappole lascino scappare la selvaggina; che il freddo distrugga gli animali; ecc. Anche quando si tagliano le unghie, i capelli e la barba, raccolgono il tutto entro sacchetti di pelle che sospendono agli alberi del loro territorio, e ciò per lo stesso motivo.

– Strane superstizioni, signor Hostrup. Ma guardate laggiù, presso la riva del laghetto, non vedete qualche cosa?

– Sì, dei pali piantati sul ghiaccio o meglio nell’acqua – disse il tenente.

– Che cosa saranno?

– Mio caro Koninson, credo che faremo bene a recarci laggiù.

– Che sperate di trovare?

– So che gli abitanti di queste regioni prima che l’inverno cominci, piantano nei fiumi e nei laghi dei pali a cui sospendono delle trappole per i pesci.

– Che ci sia sotto qualche rete?

– Se non sarà una rete, troveremo qualche cosa di simile. Andiamo, Koninson.

Lasciarono la piccola capanna e si diressero verso il laghetto. Il tenente non si era ingannato, poichè attraverso il ghiaccio distinsero una forma nerastra stretta fra due pali e che pareva un gran paniere.

Con pochi colpi di scure spezzarono il ghiaccio e sotto vi scorsero una specie di imbuto di vimini terminante in un recipiente pure di vimini, dentro il quale nuotavano parecchi grossi pesci.

Koninson cacciò dentro le mani, e in pochi minuti ritirò due trote, tre lucci, due bei pesci che il tenente riconobbe per «gadus lota», ed infine un pesce molto grosso, tutto nero, che gli indigeni chiamano «nalina», ma, la cui carne di qualità mediocre serve per lo più a nutrire i cani delle slitte.

– Abbiamo dei viveri per quattro o cinque giorni! – disse il fiociniere tutto contento. – Ringrazio di cuore quel co-yucone che ha avuto la buona idea di collocare qui l’imbuto. Se lo troverò, gli regalerò uno dei nostri coltelli.

Fecero ritorno alla capanna sotto cui allegramente pranzarono colle due trote; indi, dopo poche chiacchiere, si avvolsero nelle loro coperte, sicuri di non venire disturbati da nessuno.

Alle 4 del mattino, approfittando del freddo della notte che aveva indurito lo strato di neve, tornarono a spiegare la vela e ripresero la corsa con una celerità di dieci o dodici chilometri all’ora.

Verso le 7 del mattino Koninson segnalò verso sud un bosco che pareva prolungarsi indefinitamente verso est e verso ovest, formato da pioppi e da abeti neri.

– Dobbiamo essere vicini al Porcupine! – disse il tenente. – Apri bene gli occhi, fiociniere.

Manovrò in modo da entrare sotto il bosco senza urtare contro gli alberi, e lasciò che la slitta continuasse a scivolare verso il sud.

Mezz’ora dopo Koninson con un rapido movimento faceva cadere la vela. Era tempo; duecento passi più innanzi, fra due rive coperte di salici, si estendeva un largo fiume che doveva essere il Porcupine.

Age restriction:
12+
Release date on Litres:
30 August 2016
Volume:
270 p. 1 illustration
Copyright holder:
Public Domain