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(29) IL MERCATO


Ci fermammo a Gyenna tre o quattro settimane, non ricordo bene.

Una notte prese a soffiare un vento caldo e umido, da sud. Mi svegliai con un senso di oppressione, come se l’aria non bastasse a riempirmi i polmoni.

Gli altri, Baran e Dumpy Dum, dormivano. Astrix aveva trovato alloggio presso amici, a suo dire. Le donne dormivano in un’altra stanza. Non solo avevamo una stanza per noi uomini, ma anche letti singoli. Gyenna è ricca e usa a ricevere molti viaggiatori: benché a buon mercato, la locanda era la più lussuosa in cui mi fossi mai fermato dall’inizio del viaggio.

I miei compagni producevano i soliti rumori di chi dorme; la casa costruita sull’acqua scricchiolava assecondando le onde. Ma c’era un altro suono che veniva da fuori, indefinibile.

Mi alzai, mi vestii in silenzio. Le stanze davano su un ballatoio. La porta aprendosi cigolò, ma non più forte di quanto facesse normalmente la casa.

Fuori, una luna perfettamente rotonda colava la sua luce sul mare, trasformando in argento fino il legno di ibix e le figure di draghi scolpiti, proprio come aveva detto Baran. Alcune nubi, in alto, riflettevano il rosa pallidissimo di un’alba ancora lontana. Io ricordai un’altra luna piena, sui tetti di Morraine.

Mi guardai intorno. All’estremità del ballatoio, nell’ombra di un tetto vicino, una figura era appoggiata alla balaustra. Piangeva. La scrutai a lungo, mentre i miei occhi si abituavano al buio.

Era Gertrid.

Le nuvole si fecero di un rosa più acceso. Gertrid si asciugò le lacrime, rientrò.

Io richiusi la porta alle mie spalle, raggiunsi le scale in fondo al ballatoio, scesi.

Un ragazzo che avrà avuto la mia età stava accendendo il fuoco, sotto un calderone pieno di acqua.

– Non è presto per la colazione? – chiesi.

– È giorno di mercato. I venditori arrivano di buonora, per prendersi i posti migliori. Viaggiano tutta la notte, per mare e per terra, hanno fame. Da noi naturalmente arrivano quelli di mare.

– Da che parte è il mercato?

Il ragazzo mi guardò come se fossi un po’ stupido.

– Dappertutto. Il mercato della luna è il più grande della costa.

– La luna?

– Si tiene il giorno dopo ogni luna piena.

– E cosa si vende?

– Tutto – disse, e mi voltò le spalle, riprendendo il suo lavoro. Io rimasi lì, senza sapere cosa fare.

Dopo un po’ si voltò. – Hai fame?

– Un po’...

Mi portò delle fette di pane, una ciotola di burro giallo. Quando l’acqua del calderone cominciò a bollire preparò del tè. Aveva un profumo di fiori.

– Tu sei con i comici?

– Sì.

– Cosa reciti?

– Oh... – Mescolai il mio tè. – Questo e quello...

– Hai viaggiato molto?

– Oh, sì... Larissa, Phainon... Morraine.

– Io quando sarò più grande mi imbarcherò. Un giorno avrò una nave tutta mia. – Forse vide il mio sguardo sulla sua camicia unta e sporca di cenere, perché dopo un attimo aggiunse: – Spero...

In quel momento entrò il primo cliente, e il ragazzo andò a servirlo. Dalle finestre filtrava la luce dell’alba.

Io uscii, per la prima volta da solo in una grande città.

Recitare a Gyenna rendeva bene: la gabella di ingresso non era troppo esosa, gli spettacoli sempre discretamente affollati. Oltre agli abitanti della città, che è piuttosto grande, c’erano marinai, viaggiatori, mercanti; dopo settimane, talora mesi, confinati su una nave, cercavano svaghi e divertimento. Che non erano in primo luogo quelli del teatro, ma magari in terzo o quarto sì.

Questo per dire che Gost Baran aveva diviso, per la prima volta da quando mi ero unito al carro dei teatranti, i guadagni. Facendo le parti con grande equità, ossia, in misura decrescente: a Gertrid, ad Astrix, a Dumpy Dum, a Myrtilla, e a me. Il resto se l’era tenuto.

Perciò avevo qualche soldo in tasca, oltre a quelli che mi avevano dato i miei genitori alla partenza da Morraine; e quelli di Occhi di Gatto. Questi ultimi avevo giurato di spenderli solo in caso di estrema necessità: per non morire di fame o per salvare qualche principessa in pericolo mortale, ad esempio.

Preferivo pensare che quella borsa appartenesse al passato.

Uscii, dunque.

La città sull’acqua è un unico molo. Accanto alla Sirena Australe due barche stavano scaricando ceste ricolme di pesci che ancora si muovevano, e balle di tela grigia, dal contenuto misterioso, pesanti, che producevano tonfi sordi sulle tavole di legno bagnato.

Mentre il cielo trapassava ad un’altra sfumatura di blu, io raggiungevo il confine fra le due città. Qui barche e carri si contendevano ogni braccio di spazio. I muli soffiavano dalle narici umide. L’acqua oleosa lavava le conchiglie incise sulle pietre.

Dai moli salivano gradini arrotondati da infiniti piedi. La Gyenna di terra è quasi tutta in salita, per chi viene dal mare.

Sorgevano tendoni, alcuni colorati, la maggior parte grigiastri a causa del sale, della pioggia, della sporcizia. I venditori avevano iniziato ad esporre le loro mercanzie, alcuni per terra, altri su bancarelle costruite con i materiali più vari. Le donne cominciavano ad uscire dalle case per le compere.

Lo sguattero della Sirena Australe aveva detto il vero: al Mercato della Luna di Gyenna si vendeva di tutto: ciò che era lecito e, mi parve di intuire, ciò che non lo era; cose che conoscevo e altre che non avevo mai visto; prodotti della terra, del mare, e dell’artificio umano.

Ed ecco, sotto un arco, appese ad una rastrelliera triangolare: delle maschere. Mi fermai, trattenendo il fiato. Erano maschere di Morraine. Non vere maschere, in verità: solo quelle che noi chiamiamo larve. Non mi era mai venuto in mente che potessero diventare oggetto di commercio, in altre città. A che fine, poi? Come ornamento? Per altre feste, in altri luoghi? Non potevo credere che esistesse un’altra Festa delle Maschere, fuori da Morraine.

Feci un passo avanti, con l’intenzione di chiedere al venditore, poi cambiai bruscamente strada. Ero Arquin, adesso. Non dovevo dimenticarlo.

Prima di allontanarmi, lanciai un’occhiata al venditore: un ometto piccolo, dall’aria malaticcia, del tutto anonimo.

Altri individui, molto più singolari ai miei occhi, attirarono ben presto la mia attenzione: uomini dalla pelle nera e lucida, come se fossero stati immersi nell’olio; indigeni delle Isole Orientali, di cui si scorgevano solo neri occhi a mandorla da una fessura del velo; cinocefali, con diamanti incastonati nei canini sporgenti.

Attorno a me, sentivo parlare lingue che neppure avevo mai immaginatio. Per la prima volta mi rendevo pienamente conto di essere nato in una piccola città.

Col sorgere del sole le spezie emanavano più forti i loro odori, e i venditori avevano cominciato a vantare con alte grida la qualità delle loro merci e la modestia dei loro prezzi. Io soppesavo le monete nella tasca, cercando di decidere cosa comprare.

Un coltello, pensai. Non avevo un coltello, e nella mia nuova vita sulla strada poteva essere utile per mille evenienze, non necessariamente drammatiche.

Un mercante dalla pelle gialla, due lunghi codini di capelli intrecciati con amuleti, il mantello color ocra, aveva appoggiato sui gradini di una salita delle cassette, che su un fondo di velluto nero mostravano file di lame di Njard, di ogni lunghezza e forma, alcune cesellate, le impugnature di legno, osso, cuoio. L’acciaio grigio aveva sfumature di perla e azzurro.

Chiesi i prezzi, che mi sembrarono esosi. Il venditore mi indicò allora la cassetta con le lame meno lucide e lavorate. Scossi il capo. Forse, pensai, potevo usare i soldi dei miei genitori.

– Questo – disse una voce al mio fianco. Una mano ossuta e scura indicò. Prese il pugnale, me l’appoggiò sul palmo. Sulla lama era incisa una sirena con due code, piuttosto rozza. Un raggio di sole riflesso mi colpì gli occhi mentre mi voltavo.

– Ottima scelta – disse il venditore. – Non è caro...

– Quanto hai? – mi chiese Paradin.

– Dodici corone.

– Dodici corone – disse Paradin.

– Ne vale il doppio! – protestò il venditore.

Io tirai fuori le monete dalla tasca.

La mano del venditore si chiuse attorno alle monete, smentendo la protesta che gli usciva dalla bocca.

Presi il coltello.

– Si chiude... così. – Paradin ripiegò la lama nell’impugnatura. – Così si apre.

– Grazie. – Lo infilai in tasca, sentendone il peso rassicurante.

– Sei qui solo? – chiesi. – Per comprare o per vendere?

– Per vendere. Pellicce. Anche comprare. Vieni.

Il mercato aveva cominciato ad affollarsi, in molti punti la calca rendeva difficile camminare. Paradin prese per certi vicoli molto stretti, dove nessuno vendeva niente.

– Non è strano ritrovarsi qui? – dissi io ad un certo punto, o qualcuna di quelle frasi che si dicono in occasione di un incontro inatteso.

Paradin si fermò. – No – disse. Poi riprese a camminare.

Dopo un po’ disse: – Ti racconto una storia. Un giorno avevamo preso una volpe in trappola. Ci siamo avvicinati. La volpe e il mio maestro si sono guardati negli occhi. Poi lui l’ha liberata. Io ho chiesto: “Perché?”. “Perché un giorno ci dobbiamo incontrare di nuovo.” Sei mesi dopo, abbiamo catturato la stessa volpe.

Aspettai il seguito, ma non venne.

– E poi? – chiesi.

– Questa volta, uccisa.

– Come sapevi che era la stessa?

– Lo sapevo. Come... – Indicò un giovane che passava con una cesta carica di pane. – Tu non sei lui.

Io ripensai alla storia. – Vuoi dire che sapevi che mi avresti incontrato di nuovo?

– Non io. Il maestro.

Nel frattempo, eravamo giunti in una piccola piazza, poco più che un crocicchio, con un pozzo nel centro. Riskrill era seduto sui gradini del pozzo; attorno a lui, molte pelli, alcune di animali che non sapevo esistessero. Ce n’erano anche di volpe.

– Siediti – disse.

Mi sistemai fra le pelli. Aspettai. Riskrill non disse nulla.

– Ne hai incontrate altre di volpi? – chiesi alla fine. Qualcosa si mosse sul viso scuro del cacciatore. Una specie di lento assestamento delle rughe. Ci misi un po’ prima di capire che era un sorriso.

– Volpi. Tassi. Fagiani. Unicorni. Una volta ho avuto una cerva bianca davanti al mio arco. Mi ha guardato. Ho allentato la corda. Non l’ho più incontrata.

Aspettai.

– In questa vita. Nella prossima, lei mi caccerà e io sarò la preda.

Aspettai.

– Tre giorni fa ho incontrato un gatto selvatico. La carne non è molto buona. La pelliccia si può vendere. Mi ha guardato senza scappare. Io ho guardato lui. Aveva occhi verdi come l’acqua di uno stagno. Quando se n’è andato, ho saputo che non l’avrei mai più rivisto.

– Ma... – Mi morsi le labbra e aspettai ancora.

– La notte, ho fatto un sogno. Era una notte di luna piena. Il gatto selvatico inseguiva una falena. La falena gli è sfuggita, è volata in alto. Poi un’aquila è arrivata e l’ha inghiottita.

– Basta?

– Basta.

Non mi sembrava gran che come sogno. Se non fosse stato per via del gatto. E della falena...

– Perché mi racconti questo sogno?

– Questo lo devi sapere tu.

Io, che non lo sapevo, rimasi in silenzio.

Dopo un po’ Paradin chiese: – Dove alloggi?

– Alla Sirena Australe. È... sull’acqua.

Paradin annuì. – Ti accompagno.

– Sai dov’è?

– No.

Mi alzai, salutai Riskrill, che mi rivolse un cenno con la testa, e forse uno dei suoi sorrisi, seguii il giovane cacciatore fra la calca del mercato.

– Perché mi ha raccontato quel sogno? – gli chiesi mentre le tavole di ibix risuonavano sotto i nostri piedi.

– Perché ti appartiene.

– Vuoi dire che mi riguarda?

Paradin alzò le spalle.

(30) LA STORIA DI GERTRID


L’Aurora Sorgente era salpata a mezzanotte, sfruttando la marea.

Era una goletta a tre alberi, il vento gonfiava le vele, il sartiame cigolava, le onde sferzavano le scafo.

Era la prima volta che navigavo.

Appoggiato al parapetto, avevo appena finito di vomitare. È una cosa che succede, sui mari di acqua.

– Poi ti abitui – disse Dumpy Dum, al mio fianco. Mi diede da bere qualcosa di molto aspro. Io mi sciacquai la bocca e sputai in mare.

– Va meglio?

– Sì. No.

Ci sedemmo con la schiena contro il parapetto. La luna che aveva brillato su Gyenna era ancora sospesa sopra di noi, ma ridotta a un'esile falce.

Sul castello di prua una figura era appoggiata alla balaustra. Non perché stesse male, come me. Fissava il mare. O le stelle.

– A Gyenna – cominciai. Doveva andare meglio davvero, perché riuscivo a parlare. – Una notte. Ho visto Gertrid. Sul balcone. Piangeva.

– Ti sarà sembrato. Soffre di insonnia.

– No. Piangeva.

Dumpy Dum sospirò. Guardò Gertrid appoggiata alla balaustra.

– Ti racconterò la storia di Gertrid – disse.

Da giovane Gertrid era molto bella. Non che adesso sia vecchia, o brutta, beninteso. Ma a vent’anni... avresti dovuto vederla... era una delle donne più belle che abbiano mai calcato le scene.

Io ero già con Baran, allora. Cercavamo un’attrice giovane. Baran non era capocomico, a quei tempi, si capisce. Il capocomico era Sen Balayon. Grande interprete nel genere eroico-patetico... Arkienes, Vaikonu, Estragon... Ma questo non ha alcuna importanza.

Così trovammo Gertrid. Oltre che bellissima era molto brava. Baran si innamorò subito di lei. Tutti quanti ce ne accorgemmo. Chiunque avesse avuto occhi per vedere se ne sarebbe accorto. Se ne accorgerebbe anche adesso.

(Io non mi ero accorto di niente, ma immagino fossi troppo giovane.)

L’unica che non se ne accorse... no, meglio: non mostrò mai di accorgersene, fu Gertrid.

Lei voleva un principe. Tutte le ragazze sognano un principe, credo. Certamente tutte le attrici. Non ne ho mai conosciuta una che non lo sognasse. Ma Gertrid non sognava un principe. Lei lo voleva.

C’è anche da dire che talvolta le attrici un principe che si innamori di loro lo trovano. O un conte, un nobile di qualche specie.

Gertrid trovò Larq Apidites Kosmeidon, Principe Ereditario di Zeidon an Kandat. Mai sentito nominare? Non mi stupisce. Un pezzo di montagna, da qualche parte a oriente delle Terre di Mezzo, nel Protettorato. Pastori, qualche campo striminzito, i castelli di questi nobili. Certe annate, d’inverno, restano anche qualche mese isolati dal resto del mondo, per la neve. Un tempo quei feudi erano importanti, controllavano i passi dalle Terre al Protettorato. Poi sono state bonificate le paludi all’imbocco del lago Nish, hanno aperto una strada sul fondovalle, e quasi più nessuno usa la strada alta: neanche da spremerci una gabella. Vuoi saperlo? Ci sono bottegai, a Gyenna, più ricchi del più ricco dei nobili di Kandat. La città più vicina è Kreissa, che non è neanche gran che come città. I nobili arrivano lì dai loro castelli, soprattutto i giovani. Giocano, fanno debiti, si sfidano a duello, vanno a donne. Insomma, cercano di divertirsi. Vanno anche a teatro, quando capita qualche compagnia.

Capitammo noi. Si era al tempo della mietitura. Questo Larq eccetera veniva a vederci ogni sera. Mandava fiori e regali a Gertrid. Le solite cose. Era quello che lei cercava, no? Un principe. Unico erede della fortuna dei Kosmeidon, per quello che vale, e io non scambierei il loro castello per il nostro carro.

Fin qui tutto normale. Balayon non se ne preoccupò. Baran immagino ci soffrisse, ma non disse niente. Quando ce ne fossimo andati, sarebbe finita come tutte le altre storie d’amore fra attrice e principi.

Ma Gertrid... Gertrid era diversa. E forse anche Larq Apidites era diverso dai soliti principi. Perché la sera prima di partire, lei ci disse, semplicemente: io resto qui. Prese le sue cose e uscì dal carro, senza salutare nessuno. Per pudore, suppongo. Exit Gertrid.

La mattina dopo, partimmo per il sud, ci facemmo tutte le città lungo l’Adys, fino al mare.

Arrivati a Narina, saranno passati sei o sette mesi, Gost decise di mettersi da solo. Aveva litigato con Sen, ma questa era solo una scusa. Lui voleva cambiare, capisci? Nuovi compagni, nuove città, un nuovo repertorio. Per dimenticarsi di lei, penso io.

Rimasi con lui. Non importa perché, adesso. Trovammo un attore giovane, che non era Astrix, e un’attrice giovane... che non era Myrtilla, e che stava con Gost... a letto, voglio dire. Lui non parlava mai di Gertrid, ma io sapevo che non l’aveva dimenticata. Si andava specializzando nelle parti di tiranno, ma non avevamo ancora un’attrice tragica, perciò il nostro repertorio era limitato, per forza di cose.

Poi una sera... eravamo a Lyssa, avevamo appena finito di rappresentare una farsa in costume, eravamo andati a cena in un’osteria.

Quando tornammo, lei era seduta sul timone del carro. Guardò Baran e disse: “Vi serve un’attrice.” Non era una domanda, capisci. Doveva aver assistito alla nostra rappresentazione, di nascosto.

C’era solo una lampada nella rimessa dove tenevamo il carro, ma tutti e due, io e Baran, la riconoscemmo subito. Come se ci aspettassimo da tempo di rivederla lì.

Baran si avvicinò e la guardò bene in viso.

Era sempre bellissima, e solo due anni più vecchia di quando ci aveva lasciato. Ma qualcosa era cambiato, nelle linee del viso, nelle sfumature della voce. Qualcosa di inafferrabile, ma... chiunque avrebbe potuto capire che era l’ideale per una prima attrice tragica.

“Domani rappresentiamo La regina delle Amazzoni” disse Baran, e andò a letto. Cioè nel fienile. Allora non avevamo molti soldi.

Non le chiese niente, né quella sera né dopo. Gertrid non fornì spiegazioni. Comunque, l’attrice giovane dovette capire come stavano le cose, perché poco dopo se ne andò con un’altra compagnia.

Quello che era accaduto durante quei due anni, dopo che Gertrid ci aveva lasciato per il suo principe, l’ho ricostruito un po’ alla volta, mettendo assieme le cose che mi ha detto Gertrid, altre che ho sentito sulla strada, e quello che immagino io.

I due amanti erano fuggiti. Capisci? Non solo l’attrice era scappata con il principe, che non sarebbe la prima volta né l’ultima, ma lui pure era scappato dalla sua famiglia, dal suo castello, da quel pezzo di montagna che era il suo feudo ereditario, e che per quanto poco valesse, era pur sempre ciò che gli dava da vivere, e tutto quanto lui conosceva. Perché l'aveva fatto? Per quanto banale, la spiegazione sensata è una sola: era innamorato, o credeva di esserlo. Il che all’atto pratico è la medesima cosa.

Si rifugiarono in un minuscolo villaggio, di cui non ricordo il nome, a un centinaio di leghe da Zeidon e da Kreissa, e da chiunque li conoscesse. Fecero perdere le loro tracce. Larq si sarà portato via qualche gioiello di famiglia. Gertrid doveva avere i suoi piccoli risparmi. Cosa progettassero di fare una volta finiti quei soldi, è un mistero. Chissà: forse lui pensava di diventare un attore.

Poi nacque un figlio. Gertrid non mi ha mai detto come l’hanno chiamato.

Cinque mesi dopo, Larq tornò a Zeidon an Kandat.

Si era stancato di Gertrid? Aveva abbandonato la sua compagna, il figlio ancora in fasce?

No. Solo, avrebbero dovuto fuggire a mille leghe di distanza.

C’era una amico fedele a cui lui aveva rivelato il suo rifugio. Un giuramento di sangue. Questi arrivò una sera, dopo aver sfiancato il suo cavallo. Dice: I tuoi vicini, stirpe di sciacalli, figli di serpenti, approfittano della tua lontananza; hanno assalito Zeidon, devastano i campi, avvelenano i pozzi, uccidono i pastori, rubano il bestiame, già cingono d’assedio il castello. Tuo padre è vecchio non ha altri figli maschi, non riesce a tener loro testa. I tuoi zii, i tuoi cugini, si battono con coraggio, ma gli uomini sono demoralizzati. Dicono: Larq Apidites è fuggito con un’attrice; si gode le piume del letto e la carne di una donna; noi perché dovremmo combattere?

Insomma, era una di quelle guerricciole fra nobili decaduti. Furti e razzie, qualche scaramuccia. Si menano grandi colpi di spada sugli elmi tirati a lucido. Ogni tanto qualcuno ci lascia la pelle, di solito i servi.

Ma possiamo biasimare Larq Apidites Kosmeidon se balzò a cavallo e partì subito, dopo aver baciato la moglie e il figlio, con la solenne promessa di tornare? Certo che no! E neanche Gertrid lo fece, ne sono certo. Altrimenti perché innamorarsi di un principe? Nei romanzi, Larq arriva al momento culminante dell’assedio, sconfigge sotto le mura del castello i perfidi nemici, il padre lo perdona, Gertrid diventa sposa legittima, e loro figlio erede del trono.

Le cose non andarono così.

Per due mesi Gertrid non ebbe notizie del suo principe. Ma un giorno, ecco che arrivano due emissari da Zeidon. Larq è stato ferito nella battaglia che ha visto la sconfitta dei nemici. È grave? Forse, rispondono. Lei deve seguirli, col figlio: c’è una lettera scritta di suo pugno, con il suo sigillo. E una lettera del padre, con la medesima preghiera. Non c’è tempo da perdere. Gertrid parte a cavallo, un fagotto di coperte con dentro il figlio, stretto contro il petto per tenerlo caldo, perché ormai è pieno inverno.

Ci misero una settimana per arrivare a Zeidon, a causa della neve.

Quando arrivarono, Larq era ancora vivo. Disse: Mostrami nostro figlio. Gertrid glielo porse. Lui l’abbracciò e lo baciò, poi disse: Signora del mio cuore, madre di mio figlio, noi ci sposeremo, qui e adesso, prima che io muoia. Mio padre mi perdona, e ha dato il suo consenso. Nostro figlio sarà principe di Zeidon an Kandat.

Chissà se un dubbio sfiorò allora la mente di Gertrid? O se il dolore le impedì di pensare. In ogni modo: come avrebbe potuto dire di no?

Dunque si sposarono, davanti al letto dove Larq giaceva morente per le ferite, secondo le cerimonie riservate ai principi di sangue di Zeidon, senza che quasi la neve sul mantello di Gertrid si fosse sciolta e asciugata. C’era un sacerdote, e c’erano tutti i nobili di Zeidon e quelli della casate alleate, a rendere testimonianza. Il padre appoggiò una mano sul capo del figlio, in segno di riconoscimento.

Gertrid vegliò accanto al marito per due giorni e due notti. Quando morì, gli chiuse gli occhi, e solo allora pianse.

Tre giorni dopo il funerale vennero da lei tre cavalieri. Dovete venire con noi, dissero. Fu allora, credo, che Gertrid seppe ciò che l’aspettava. Dove? Chiese. A Kreissa, a comprare ciò che serve a voi e al bambino. Non abbiamo bisogno di niente, disse lei. Eppure dovete venire. Gertrid non fece altre obiezioni. Suppongo non avesse pensato ad altro, in quegli ultimi tre giorni, e sapeva che non c’era niente da fare. Abbracciò suo figlio, salì su un carro, e partirono.

I cavalieri non si fermarono a Kreissa. Né alla città seguente, né a quella dopo. Alla quarta, smontarono ad una locanda, le diedero una borsa con dei soldi e le dissero di non tornare mai più a Zeidon.

Il giorno dopo, Gertrid si mise in viaggio per cercarci.

– Capisci? – mi chiese Dumpy Dum.

Io, in quel momento, ero impegnato a tenere a bada il mio stomaco. E comunque, non avevo capito niente.

– Non volevano che un’attrice allevasse il futuro principe – mi spiegò Dumpy Dum. – Non l’avevano affatto perdonata. E si vergognavano di lei. Scommetto che non hanno mai ammesso che la vera madre era un’attrice. Si saranno inventati qualche nobildonna, ad uso del vicinato. Quello che gli manca in ricchezza, lo suppliscono con l’orgoglio. Il fatto è che non c’era altro erede maschio. Non potevano fare a meno del figlio di Gertrid, ma della madre potevano sbarazzarsi.

– Non c’erano altri eredi?

– Forse sì, e troppi anche. Sai come vanno queste cose...

Io non lo sapevo.

– Lotte dinastiche fra parenti... niente di più disastroso, soprattutto con dei vicini avidi.

Adesso che ci pensavo, potevo nominare almeno una dozzina di tragedie che parlavano di vicende del genere.

Restammo un po’ in silenzio. Chiusi gli occhi. Quando li riaprii, Gertrid era scomparsa dal castello di prua.

– In quei tre giorni in cui è restata a Zeidon da vedova – mormorò Dumpy Dum – e in tutti i giorni e le notti seguenti, fino a quando l’hai vista piangere sul balcone di Gyenna, e questa sera sull’Aurora, e forse in questo stesso istante mentre cerca di addormentarsi... io credo che lei non possa fare a meno di pensare ad una cosa... oltre che a suo figlio, beninteso...

– Cosa?

– Se Larq non avesse immaginato, pensato, forse saputo, anche lui quello che poi sarebbe accaduto.

– Che Gertrid sarebbe stata cacciata?

Dumpy Dum annuì.

– No! – esclamai. – Non è possibile! Lui l’amava troppo.

Dumpy Dum alzò le spalle. – E chi siamo noi per entrare nella testa di un principe del Kandat?

– Ma lei non ha cercato di riavere suo figlio? Possibile che non ci sia nulla da fare?

– Le leggi valgono poco nel Kandat. E in ogni modo, sarebbe la sua parola contro quella di tutti gli altri. Nessuno, lassù, ammetterà mai che quello è suo figlio.

Restammo ancora un po’ in silenzio.

– Chissà, un giorno forse si incontreranno.

– Lei non saprebbe neppure riconoscerlo.

– Avrà pure un segno... una medaglietta, un neo...

– Arquin, fra la vita e il teatro c’è questa differenza: la vita può fare a meno delle coincidenze.

Il nano sbadigliò. – Be’, io vado a dormire.

– Io... preferisco aspettare. – Non mi sentivo ancora sicuro del mio stomaco.

Dumpy Dum si infilò in un boccaporto con una capriola.

Io rimasi ancora un po’ sul ponte, in paziente attesa. Nel frattempo, pensavo a Gertrid. E a Baran, che forse l’attendeva invano, nella sua cabina.

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