Lia

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Delio Zinoni


LIA

Publisher:

Tektime - Traduzionelibri.it

(http://www.traduzionelibri.it).

Indice dei contenuti

  DEDICA

  (0) NEL DESERTO

  (1) LA STRADA

  (2) IL TEATRO

  (3) LA RECITA

  (4) LIA

  (5) LA TORRE

  (6) ESTATE

  (7) LA PROVA

  (8) L'ALCHIMISTA

  (9) IL CORTILE SENZA NOME

  (10) LA MAPPA

  (11) STORIE TRAGICHE

  (12) LA FALENA LUNARE

  (13) LA FESTA DELLE MASCHERE

  (14) LA SIRENA

  (15) OCCHI DI GATTO

  (16) L'INDAGINE

  (17) LA LEZIONE DELL'ACQUA

  (18) LA CISTERNA

  (19) IL CARRO

  (20) ARQUIN

  (21) MYRTILLA

  (22) LARISSA

  (23) GRENDEL

  (24) I CACCIATORI

  (25) I DUE AMANTI

  (26) LA STORIA DI LY

  (27) LA LEZIONE DI BARAN

  (28) GYENNA

  (29) IL MERCATO

  (30) LA STORIA DI GERTRID

  (31) OSSA

  (32) ARGYRIA

  (33) L'IMPRESA SI ANNUNCIA PIÙ DIFFICILE DEL PREVISTO

  (34) GYON BALASCO

  (35) I BURATTINAI

  (36) IL BALLO

  (37) SPECCHI

  (38) LA SALA DELLE MAPPE

  (39) L'ORCHESTRA

  (40) LA BIBLIOTECA

  (41) GLYSS

  (42) LA SECONDA LUNA

  (43) IL MAESTRO

  (44) LE CAMPANE DI MORRAINE

  (45) GLI UCCELLI

  (46) ALTRI UCCELLI

  (47) AQUILA E SPARVIERO

  (48) LA STORIA DI QROM

  (49) SULLE MURA

  (50) IL CIMITERO DELLE MACCHINE

  (51) LA CATTEDRALE

  (52) LA LAGUNA

  (53) XON

  (54) CADAVERI

  (55) LA FORESTA

  (56) IL CAVALIERE

  (57) L'EREMITA

  (58) IL DUELLO

  (59) ALLA LOCANDA DEL PORCOSPINO

  (60) DOMANDE

  (61) MAEZEL

  (62) IL CAPITANO D KYROS

  (63) APPARIZIONI

  (64) FOGLIE

  (65) I LEMURI

  (66) TOMBE

  (67) ALMIDAVILLA

  (68) BARKARA

  (69) ISOLE

  (70) LA STORIA DI LIA

  (71) OSIANNA

  (72) PIRATI

  (73) LA SIRENA MASCHERATA

  (74) L'UCCELLO DALLE PIUME D'ORO

  (75) LA LEZIONE DI MACCUS

  (76) LARKIN

  (77) ALL'INSEGNA DEI DUE SERPENTI

  (78) DARSHANI

  (79) JUES

  (80) IL TRONO SULLA TORRE

  (81) IL LAGO DELLE ANIME PERDUTE

  (82) NOTTE SUL FIUME

  (83) COME NUOTATORI

  (84) CONGEDI

  (85) EREC

  (86) L'OMBELICO DELLA DEA

  (87) FENISSA

  (88) QETTA

  (89) NAUFRAGI

  (90) DAR-MOR

  (91) OCCHIO DI GIADA

  (92) IL MONASTERO

 

  (93) ORG-MARNA

  (94) CHAN DRA

  (95) LA LUNA SPEZZATA

  (96) CONGIUNZIONE

  (97) IL COLOSSO

  (98) LA NAVE DI VETRO

  (99) CORONA E SERPENTE

  (100) PIANTARE UN SEME NELL'ANIMA

  (101) COLPIRE IL BERSAGLIO NELLA MENTE

  (102) JAG

  (103) LA TEMPESTA

  (104) LA CASA DELLE STORIE

  (105) L'ALBERO DEGLI SPIRITI

  (106) LA FARFALLA

  (107) KHETA

  (108) LA PORTA

  (109) L'UCCELLO GARUMA

  (110) LA MADRE

  (111) ENIDE

  (112) VENT'ANNI DOPO

  (113) L'ARAZZO

  (114) DEMONI

  (115) L'OSSERVATORIO

  (116) AURORA SORGENTE

  (117) NEL GIARDINO

  (118) LA CRIPTA

  (119) ANYA

  (120) TUTTE LE STORIE DEL MONDO

  APPENDICI

  Ringraziamenti

DEDICA

a E. Z. ... multa per aequora

(0) NEL DESERTO

Il foglio bianco è simile a un mare di insondabile profondità. Da esso può affiorare qualsiasi cosa: sirene e leviatani, perle e vecchie scarpe.

La somiglianza non era sfuggita agli antichi, che spesso hanno paragonato la scrittura ad un viaggio marino; e a navi, vascelli e barche il loro ingegno avventuroso.

Altri, all’opposto, hanno affermato che tutto è già stato detto, tutto è già stato scritto. Perciò hanno preferito un’altra metafora, e altre onde: quelle del deserto. Infatti, a differenza del mare, il deserto non nutre nel suo fondo creature vive, e ciò che affiora sono solo i relitti di civiltà trascorse. Elmi di guerrieri, ossa di giganti, pietre di fortezze. Tutto ciò che un tempo era splendido, viene macinato dalla sabbia e ridotto a sua sembianza. Solo quanto è già stato fatto dagli uomini ricompare fra le dune.

Questi due oceani sono perciò opposti? Forse no. Poiché alcuni saggi sostengono che un tempo i deserti erano mari di acqua. E portano a dimostrazione di questa loro affermazione rocce in cui compaiono impronte di conchiglie e di pesci. E se un tempo i deserti erano colmi di vita forse un giorno ne produrranno ancora, di nuova.

Inoltre, senza cercare con lo sguardo epoche lontane del passato o del futuro (poiché la brevità della vita umana impone moderazione anche al pensiero), non esistono forse nel deserto le oasi? Come questa dove sto scrivendo. Nel grande mare del deserto, la vita fiorisce: fontane sgorgano, dove nuotano pesci; ci sono alberi da frutto, e prati dove brucano le capre. Giardini chiusi da mura, e uccelli di ogni specie fra i rami. E le acque di questa oasi, come tutte le acque del mondo, torneranno prima o poi in quell'immenso Oceano che abbraccia tutte le terre.

Perciò, forse, questi due emblemi non sono troppo dissimili.

In entrambi i casi, per chi non cerca l’attenzione di un’ora, o l’orecchio distratto del mercante, accingersi a scrivere suscita sgomento nel cuore; la sensazione di essere in bilico fra lo smarrirsi e la futilità.

E tuttavia, la storia che ho sentito raccontare quando ero giovane da uno straniero che aveva attraversato il mare e il deserto, e in cui io stesso ho avuto una piccola parte, non appare indegna di essere narrata nuovamente e scritta, affinché non cada nell'oblio. Perciò, giunto ormai al mezzo della mia vita e avendo troppo indugiato, io, Djab ab-Varani, con l’aiuto del Signore, mi accingo a mettere sulla carta per la prima volta la storia degli amori di Arquin e Lia.


(1) LA STRADA


Lungo la strada che dalle montagne conduce al mare cambiò il mio destino.

La strada è in salita in quel punto, e io correvo per raggiungere il vecchio cimitero dove mi attendevano i miei amici e compagni, cavalieri di ventura fra i boschi e i casolari abbandonati intorno a Morraine.

Avevo compiuto da poco dieci anni.

Qui l’uomo si interruppe, scrutando fra le braci, e noi, ai margini del cerchio di luce arancione, trattenemmo il respiro, in attesa.

Come inizio di una storia non era in verità molto promettente. Ma noi naturalmente non potevamo fare a meno di chiederci quali avventurose vicende avessero mai portato l’uomo dalla folta barba grigia a naufragare nel nostro mare di sabbia.

Correvo, riprese l’uomo con la sua pronuncia incerta, rallentando spesso per cercare le parole di una lingua che gli era estranea, e il cuore mi batteva forte, un po’ per la corsa, un po’ per l’ansia dei giochi, e il sangue mi pulsava nelle orecchie, e fu per questo che non sentii il carro che arrivava da dietro una curva, lungo la discesa. Il guidatore tirò le redini, i cavalli sbuffavano scalpitando, nel tentativo di fermarsi, i sassi schizzavano sotto gli zoccoli, ma il carro era grande e pesante.

Poi mi trovai sospeso a qualche braccio di altezza e guardavo tutta la scena: io steso a terra, il carro che si era messo per traverso sulla strada, la gente che scendeva correndo verso il mio corpo.

L’uomo spalancò le braccia, guardandoci con occhi grandi che riflettevano le fiamme, e quel suo sorriso che allora non riuscivo a definire, ma che è la cosa che ricordo meglio di lui, e ripensandoci, aveva questa qualità: che riusciva ad essere malizioso e infantile insieme. E in quel momento ci sfidava a credere alle sue parole.

Ero morto, disse con voce più profonda, balzando in piedi e facendo un passo verso di noi che eravamo più piccoli, cosicché io feci un mezzo balzo indietro da dove ero seduto, per terra, e mi aggrappai a mia sorella. E sebbene lei avesse tre anni più di me, sentii che anche il suo cuore batteva forte.

Le foglie del bosco erano nitide come se un artista le avesse ritratte una per una dopo un temporale, in quella primavera calda che riempiva l’aria di pollini ed esplodeva di verde. E sul fianco del carro, che sembrava una casa su ruote, con tetto e piccole finestre, c’era una scritta.

DOTTOR LELIUS ABRAMUS

Mago, Veggente e Burattinaio

e il suo straordinario spettacolo di

Trapezisti Giocolieri Domatori Saltimbanchi

Prestigiatori Equilibristi Pagliacci Pirofaghi

Sul retro del carro, un emblema: una sirena, con la faccia per metà nera per metà bianca, per metà triste per metà lieta. Ma non era la faccia: era una maschera. E non era sul volto, ma sulla nuca, perché guardando bene i particolari anatomici, si poteva capire che la sirena volgeva la schiena.

Qualcuno era chino su di me, cioè su di me steso a terra: un uomo vestito di scuro, con una grande barba. Io ero molto pallido, e fu solo in quel momento che ebbi paura, sebbene mi sentissi molto bene sospeso in aria. “Mamma, mamma,” pensai.

– Ho tanto male. – Perché ero di nuovo sulla strada, e la testa, dove uno zoccolo mi aveva colpito mi faceva davvero un male terribile. E aprendo gli occhi vidi tre facce chine su di me: quella con la barba; una donna non più giovane ma molto bella, dai capelli rossi; un vecchio dai capelli bianchi.

– Non preoccuparti, non ti sei fatto niente di grave. Ti portiamo noi dalla tua mamma – disse la signora. Poiché era vestita da signora. Il vecchio mi appoggiò una pezza bagnata sulla fronte. Ma io fissavo gli occhi dell’uomo con la barba, che erano neri e molto profondi. E il dolore, come d’incanto, sparì davvero.

Mi alzai a sedere. Mi dispiaceva di non volare più come prima. Ma siccome il mio demone è sempre stato la curiosità, chiesi: – Cosa vuol dire pirofaghi? – L’uomo sorrise. Cioè, mosse appena i muscoli ai lati della bocca, e le rughe attorno agli occhi si approfondirono. Ma era un sorriso sufficiente per il dottor Lelius Abramus.

– Sai leggere – disse. Mi accarezzò la testa. – Vuol dire mangiatori di fuoco. – Si voltò a guardare il carro. Che come ho detto si era messo di sbieco, e l’unica parte che si poteva vedere da lì era il retro. Il dottore tornò a voltarsi, e mi fisso stringendo gli occhi.

La signora mi circondò le spalle con le braccia. – Ce la fai ad alzarti? – Mi alzai.

– Come fanno a starci dentro tutti?

– Tutti chi? – chiese la donna.

– I trapezisti, giocolieri, domatori, saltimbanchi, prestigiatori, equilibristi, pagliacci, pirofagi – dissi tutto d’un fiato.

La donna rise. Aveva una risata cristallina, e una voce molto melodiosa. – Questo è un segreto – disse.

Il vecchio salì a cassetta. Il dottore prese i cavalli per le briglie, e fra nitriti e nuvole di polvere rimisero il carro dritto. Così potei leggere per la seconda volta la scritta sul fianco.

La donna continuava a reggermi. Sentivo il suo profumo, di qualche fiore di cui non sapevo il nome, mescolato a quello del sudore. Per qualche ragione, mi sentii imbarazzato e mi scostai leggermente.

Lelius Abramus tornò da me. – Dove abiti, ragazzo?

– Posso tornare da solo – mi affrettai a dire. In realtà mi ero ricordato di Jues e Lucibello, i miei amici, che mi stavano aspettando. – Sto bene adesso, davvero. – E poi temevo di essere rimproverato, a casa.

I tre si guardarono. Il vecchio mi tastò la testa. Doveva esserci un grosso bernoccolo. Mi accorsi che la pezza bagnata era sporca di sangue. – Sei sicuro? – disse. Era la prima volta che sentivo la sua voce. Aveva una accento straniero, ma sebbene passino molti viaggiatori per Morraine, venendo da Aix o dalle montagne, non lo riconobbi.

– Sì, certo.

 

Il dottore si frugò in una tasca del farsetto di velluto nero. – Prendi questi. – Erano tre foglietti di carta. Biglietti d’ingresso, per lo spettacolo del Dottor Lelius Abramus, Mago, Veggente e Burattinaio. – Con le nostre scuse.

– Domani sera, in città. Nel teatro! Ci saranno i manifesti – disse la donna, stringendomi il braccio. – Non mancare!

– No, certo... Grazie!

Il vecchio mi mise in mano la pezza bagnata. Il dottore mi fissò ancora negli occhi. Poi i tre risalirono sul carro.

Io rimasi lì sulla strada, con i tre biglietti in una mano, la pezza nell’altra, guardando il carro che si rimetteva in cammino, chiedendomi dove mai potesse esserci un teatro a Morraine.

E in quel momento, i lembi di una tenda che copriva la finestrella sul retro, e sui quali era dipinta la maschera della sirena, si scostarono un poco e vidi un viso di un ovale perfetto, bianchissimo, un naso piccolo e appena appuntito, una bocca rossa a forma di bocciolo, due grandi occhi neri che mi fissavano.

(2) IL TEATRO


Non andai a nessun teatro quella sera. La testa riprese a farmi male poco dopo la partenza del carro e mi fece male per tutto il pomeriggio, e quando arrivai a casa con un bernoccolo mia madre si arrabbiò molto perché non ero tornato subito, e rischiai pure di prenderle. Mi infilò a letto e mi mise sulla testa una pezza bagnata con l'acqua gelata del pozzo, che cambiava di tanto in tanto. Io raccontai dell'accaduto in maniera piuttosto generica, e non dissi niente dei biglietti. Sapevo che quella sera non c'era speranza di uscire.

Però li conservai.

Quattro anni dopo, la compagnia di Lelius Abramus tornò a Morraine.

Fu Lucibello ad accorgersi dei manifesti. Non ce n'erano molti in giro, per la verità. Mi portò a vederne uno, all'imboccatura del passaggio dell'Anguilla, nel cortile dell'Unicorno. C'era scritto:

SOLO PER QUESTA SERA

diciotto del Mese-delle-Farfalle

nel Cortile del Serpente di Morraine

LA COMPAGNIA DEL FAMOSO

LELIUS ABRAMUS

RECITERÀ

la Storia di Phenissa

PRECEDUTA E SEGUITA

DA ALTRI

PIACEVOLISSIMI INTRATTENIMENTI

La data, il luogo e il titolo della rappresentazione erano scritti a mano, il resto era stampato.

– E dove sarebbe questo cortile del Serpente? – chiese Jues.

Nessuno di noi disse niente, anche se ciascuno in cuor suo covava un segreto pensiero.

Io corsi a casa, e frugai in una scatola di latta dove tenevo le mie cose più preziose di bambino, di cui ancora non avevo voluto disfarmi. In fondo trovai tre biglietti ingialliti, stampati su cartoncino. Che come ben ricordavo non avevano nessuna data, ma solo il nome della compagnia, con l'immagine della sirena mascherata di spalle, e scritta a mano la parola “Omaggio” seguita da una firma illeggibile.

Quella sera, io e i miei due amici ci mettemmo alla ricerca del Cortile del Serpente.

Dovete sapere, proseguì il nostro ospite, naufrago e paziente, che Morraine è l’unica città al mondo formata da una sola casa.

Molti fecero smorfie incredule, ma il marinaio guardò dalla nostra parte, e immagino che vedesse occhi spalancati. Benché parlasse a tutti, infatti, sembrava però rivolgersi in particolare a noi che eravamo ancora bambini o non ancora adulti (come preferivo pensare io di me stesso), e la cosa allora mi pareva del tutto naturale: forse perché raccontava una favola; anche se una favola vera, come ho detto; o forse perché parlava di sé come bambino. Dopo tanti anni non ne sono ancora sicuro, ma mi pare naturale lo stesso.

Quante persone possono abitare in una casa? Dodici rispose subito il piccolo Roti, che viveva con tre nonni, due zie e quattro fratelli, oltre ai genitori. Nella casa di Hani il falegname ci stanno in sedici, disse il vecchio Ohid. Be’, disse lo straniero alzando una mano, nella casa di Morraine ci abitano più o meno sedicimila persone.

Questa era grossa davvero.

Morraine è una sola casa. Ciò significa che non ci sono strade, ma corridoi, non piazze ma cortili; terrazze, soffitte, scale, cantine, formano una sola complicatissima ragnatela, che nessuno ha mai potuto, o voluto ridurre ad una mappa. Si possono distillare varie spiegazioni razionali per dar conto dell’architettura complessa di Morraine, prendendo a pretesto la sua geografia o la sua storia. Ma nessuna potrà cancellare quella più semplice di tutte: che Morraine è così perché i suoi abitanti sono così. In una città normale ci sentiamo spersi, impauriti. Troppo poco, per noi, un tetto e quattro mura. Ci mancano sedicimila coinquilini. Ecco perché gli abitanti di Morraine viaggiano poco, e la nostra città è meno conosciuta di quanto meriti.

Vista da fuori assomiglia a tante altre città: mura e torri in pietra grigia; orti all’intorno; alte porte alla fine di strade polverose. Dentro, gli stranieri cercano invano vie, vicoli, piazze. Alcuni sono presi dall’angoscia e si sentono soffocare. Tutti hanno bisogno di una guida; non esiste un tragitto in linea retta, né semplici indicazioni, come “il terzo vicolo a sinistra, il secondo portone a destra”. Per noi che ci siamo nati, è semplice, naturalmente: in luogo di vie o piazze, si usano come indirizzi gli unici luoghi aperti, e gli androni che li collegano.

Qualcuno potrebbe dire: in fondo non è molto diversa da qualsiasi altra città. Al posto delle strade e dei vicoli ci sono androni e passaggi che sono come strade coperte; al posto delle piazze cortili. Perché parlare di una sola casa?

Perché il meraviglioso, unico, complicatissimo labirinto si trova in realtà dentro Morraine, nel suo inestricabile intrico di corridoi, scale, stanze… Da qualsiasi ambiente chiuso di Morraine si può raggiungere un altro qualsiasi ambiente, e senza mai uscire all'aperto. A meno che questo non sia chiuso a chiave, ovviamente.

Si dice che ogni stanza possiede almeno due uscite. E questo a maggior ragione vale per ogni abitazione, cioè ogni insieme di stanze dove vive una famiglia, o una singola persona. Naturalmente costoro non desiderano che degli estranei possano transitare a piacere nelle loro stanze, e perciò le chiuderanno in qualche modo. Ma dovete considerare due particolari: che in ogni modo i corridoi sono comuni a tutti, e collegati l'uno con l'altro, anche se a volte nelle maniere più bizzarre; in secondo luogo che amici o parenti stretti possono benissimo bussare, entrare, attraversare una di queste abitazioni, uscire da un'altra parte, se questo serve ad accorciare il cammino che devono percorrere, per esempio. Naturalmente nel farlo si fermeranno a scambiare due chiacchiere con i padroni di casa. Sopratutto le donne. Per questa ragione si dice da noi che la strada più rapida fra due punti non è mai quella più breve…

Morraine è cresciuta dentro se stessa da innumerevoli generazioni. I proprietari di ogni singola abitazione hanno cambiato, ampliato, venduto… I vari piani degli edifici poi sono posti di solito su livelli non identici, perciò innumerevoli sono i gradini e le scale. I cortili, e al piano terra gli androni, interrompono la continuità dei passaggi… È quasi impossibile, per chi non è mai stato a Morraine immaginare la complessità, la frammentarietà, la quasi infinita varietà di questi passaggi interni. Certi corridoi poi sono stati resi più o meno privati dagli abitanti che vi si affacciano, e solo loro di solito li usano. Altri sono molto grandi, e ospitano anche negozi o bancarelle. Nessuno, credo, può dire di conoscere Morraine in tutti i suoi meandri. Forse qualche vecchio agente della guardia, o qualche pubblico ufficiale si avvicina a questa conoscenza, ma neppure lui avrà mai messo piede in ogni stanza, in ogni corridoio di Morraine.

Anche perché ogni giorno, ogni ora si può dire, qualcuno da qualche parte nelle sue viscere starà costruendo un muro, abbattendone un altro, aprendo un varco nuovo o chiudendone uno vecchio...

Ma non dovete pensare che, essendoci una sola casa, Morraine manchi di luce. Tutt’altro. Le sue terrazze e i suoi cortili sono i più belli del mondo. E ogni cortile è diverso dall’altro. Per esempio, c’è il Cortile delle Cento Colonne, il Cortile delle Quattro Fontane, il Cortile dei Tessitori, quello dei Beccai e quello dei Baccellieri, il Cortile del Paradiso, quello degli Uccelli e quello dei Gatti, la Corte delle Lavandaie e il Campo dei Miracoli, e il Cortile dell’Unicorno, del Porcospino, dei Maghi, dei Bottai, quello Rotondo, quello Stretto, quello dei Cinque Cantoni, della Luna Piena e della Luna Calante, quello dei Cavalieri, e di Nostra Signora del Parto, e dei Desideri Perduti. Per muoversi fra di essi ci sono androni e corridoi, e sugli archi che li introducono sono scolpiti stemmi o simboli che servono al posto dei nomi delle vie in altre città. Ci sono anche corridoi segreti e soffitte segrete e cantine segrete.

E soprattutto c’è il Cortile Segreto. Che, ne eravamo ormai certi, altro non era che il Cortile del Serpente indicato sul manifesto.

Nessuno di noi aveva mai visto il Cortile Segreto, che come dice il nome non era un posto dove chiunque potesse entrare come si fa in una piazza. Poiché questa è la differenza fra una piazza e un cortile: nella prima sboccano strade accessibili a tutti: vagabondi e carrettieri, dame e merciai, cani randagi e bambini. In un cortile si entra da una porta, e dipende da quelli che ci abitano tenerla chiusa o aperta.

Quella sera la porta era spalancata.

Lelius doveva essere una persona davvero importante per avere avuto il permesso di dare il suo spettacolo nel Cortile Segreto!

Entrammo, dunque. Dopo che un servo in livrea ebbe esaminato con attenzione non priva di sospetto i nostri biglietti.

Mi aspettavo, è ovvio, di vedere meraviglie: fontane zampillanti e piante esotiche, statue di marmo e gabbie piene di uccelli rari.

Ma ciò che in realtà vedemmo ci lasciò senza fiato. Era un palazzo splendido e sfavillante: marmi di ogni venatura, e colonne come alberi secolari. Statue simili a persone vere immortalate in atti eroici, teneri, strazianti. Affreschi con scene di caccia e di battaglia, flotte a vele spiegate...

Questa visione durò un attimo. Poi un tremolio parve percorrere le mura del palazzo, e avvertii una folata di vento. Come se un terremoto stesse scuotendo Morraine, ma senza alcuna vibrazione sotto i piedi. Chiusi forte gli occhi. Quando li riaprii, il palazzo non c’era più. Era un palcoscenico. Molto più piccolo di quanto mi fosse apparso, perché ingigantito dalla prospettiva; costruito in tela e legno, ma con tale maestria pittorica, e così abilmente illuminato, che l’occhio ne rimaneva volentieri ingannato.

Passato quell’attimo, tutto riacquistò le sue dimensioni normali. Trovammo posto su una delle panche nella quarta o quinta fila. Proprio davanti al palcoscenico, vidi, c'erano delle poltrone riservate a personaggi d'autorità. Ci eravamo da poco seduti che lo spettacolo iniziò. Annunciato da un rullo di tamburi, si presentò un saltimbanco, in un costume giallo e rosso da pagliaccio, che eseguì svariate mirabili capriole le quali finivano, di tanto in tanto, in comici capitomboli da cui si rialzava con aria perplessa, guardando il pubblico con grandi occhi tristi. Fu in una di queste occasioni che la riconobbi, sotto il trucco: era la signora del carro, quella che mi aveva abbracciato quella mattina di quattro anni prima

Poi ci fu un suono di cembali, e strumenti a fiato e a corde che non riconobbi. Apparvero una mezza dozzina di marionette, che eseguirono una pantomima velocissima, senza che si potesse scorgere quali fili le muovessero. Avevano le teste nascoste da larghi cappelli a cono, sotto i quali si scorgevano occhi luminosi e gialli, come candele. La danza che eseguirono era molto elaborata, e non doveva essere priva di qualche significato simbolico, poiché gli spettatori delle prime file, intenditori senza dubbio, applaudivano con convinzione nei momenti più significativi.

Terminò così il prologo, lasciandoci, intendo dire io e i miei due amici, un po’ interdetti ma pieni di aspettativa. Fu solo allora, guardandoci intorno, che ci accorgemmo di essere quasi gli unici ragazzi presenti fra il pubblico, del resto non molto numeroso. Benché attori girovaghi, Lelius e i suoi parevano dunque fare della propria arte un esercizio raffinato, poco adatto al volgo.

E il Cortile Segreto? Catturato dapprima dalla magia del palazzo di tela, e poi dalle capriole della signora e infine dalle evoluzioni della marionette, non avevo neppure pensato di guardarmi intorno. Eppure quello era il luogo delle fantasie di ogni bambino di Morraine! In realtà tutto ciò che si vedeva era poco più che il contorno dei tetti. Poiché il Cortile Segreto non era molto grande, o meglio non era grande come la mia immaginazione lo aveva dipinto; le panche lo occupavano per metà, e il palcoscenico nascondeva i piani bassi. Pilastri di marmo sbrecciato e frammenti di archi incastonati in una facciata alludevano ad un edificio molto più antico. Al riflesso delle lampade, presero forma dei fregi che percorrevano tutto il cornicione: molto corrosi, resi enigmatici dalla luce un po’ vacillante che li colpiva dal basso, anziché da quella del sole per cui erano stati scolpiti. Intuii che rappresentavano delle allegorie, e ne riconobbi alcune: la Verità, sotto forma di una fanciulla quasi nuda, che appoggiata ad una clessidra (emblema del tempo che fugge) mostra con la sinistra il sole e con la destra un serpente che si morde la coda; l’Ambiguità dal volto velato tiene un gatto accovacciato in grembo, e sembra osservare un bambino che gioca con uno specchio. E molte altre.

Poi d’improvviso, e misteriosamente, come se un forte vento avesse soffiato, le lanterne si spensero tutte insieme. Ci furono alcuni istanti di buio, e quando gli occhi si stavano abituando alla luce delle stelle, e scorgevano ombre muoversi sul palcoscenico, ecco di nuovo la luce. Il palazzo aveva subito una parziale metamorfosi: un’ala intera si era aperta, mostrando il mare e un porto magnifico. Una folla di donne era raccolta sui moli, e i marinai salutavano dalle navi, le vele già spiegate al vento. Ma come potevano essere così lontani? Il Cortile non era grande tanto da contenere un porto... Ancora un’illusione: si trattava delle marionette, in un nuovo costume, vicine ma piccole.

In primo piano, un sacerdote di venerabile aspetto. Con voce triste ma ferma narrò l’antefatto. L’isola di Nexus era devastata da pestilenza e sterilità: una maledizione della dea del mare, irata perché i suoi abitanti avevano lasciato perire i naufraghi di una nave senza prestare loro soccorso, onde potersi impadronire del ricco carico... Era la storia di Phenissa e di Teseius.

Il naufrago si interruppe e ci guardò.

Forse non la conoscete. Appartiene ad una terra lontana da qui. Bene dunque: ve la racconterò così come venne rappresentata quella sera da Lelius e dalla sua compagnia, nel Cortile Segreto di Morraine.