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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI

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Conservando Roma odierna, si poneva mente a scoprire l'antica: almeno così desiderava la consulta; la Francia potente e ricca il poteva fare. Si ordinarono le spese del cavare nei luoghi più promettenti. Sarebbesi anche, come pare, fatto gran frutto, se i tempi soldateschi non avessero guastato l'intenzione.

Discorreva Napoleone di voler visitar Roma sua. Se di fatto non voleva andarvi, l'essere aspettato faceva a' suoi fini: la consulta pensava al trovar palazzi che fossero degni dell'imperatore. Castelgandolfo le parve acconcio per la campagna; il Quirinale per la città: il Quirinale grande e magnifico per se, sano per sito, e con bell'apparenza da parte di strada Pia: ogni cosa all'imperial costume si accomodava. Nè la bellezza, o la salubrità si pretermettevano. Disegnavano di piantar alberi all'intorno, di aprir passeggiate, specialmente alla porta del Popolo da riuscire a Trinità del Monte, di trasportar i sepolcri fuori delle mura, di prosciugar le paludi. Le Pontine massimamente pressavano nei consigli imperiali. Prony Francese, Fossombroni Italiano, idraulici di gran nome, e di scienza pari al nome, le visitavano, e fra di loro consultavano. Si fece poco frutto a cagione dei tempi contrari; e se le Pontine non peggiorarono sotto il dominio Francese, certo non migliorarono.

Così vivevasi a Roma, con un sovrano prigioniero a Savona, con un sovrano prepotente a Parigi, con dolori presenti, con isperanze avvenire, diventata, stravagante caso, provincia di Francia, non poteva nè conservare le forme proprie, nè vestirsi delle aliene; tratta in contrarie parti lagrimava, e si doleva, nè poteva la consulta, quantunque vi si affaticasse, di tante percosse consolarla e racconfortarla.

Nuovi, strani e lamentevoli casi mi chiamano nel Regno. Era venuto a noia a Carolina di Sicilia, che voleva comandare da se, il dominio degl'Inglesi, nè sperando di riconquistare il regno di terraferma, desiderava almeno di essere padrona di quello che le restava. Napoleone, che conosceva bene gli umori degli uomini, e quelli delle donne ancora, aveva penetrato quel di Carolina, e per mezzo di sue pratiche le persuase, ch'era pronto a secondare le sue intenzioni. Vennesi ad un negoziato tra l'imperatore e la regina, il fine del quale era, che il re aprisse i porti di Sicilia ai soldati di Napoleone, e promettesse che gli occupassero, sì veramente che l'imperatore ajutasse il re a cacciar gl'Inglesi dalla Sicilia. Mentre questi negoziati pendevano, entrò in Murat il desiderio di conquistar la Sicilia sperando che la durezza del governo Caroliniano, procurandogli aderenze negli scontenti, gli aprirebbe l'occasione di far frutto con le spalle loro. Già le truppe Francesi si erano condotte nella Calabria ulteriore; al che aveva consentito Napoleone per dar gelosìa agl'Inglesi, acciocchè non potessero correre contro Corfù. Ad esse si erano accostati i Napolitani, la costa di Calabria da Scilla a Reggio piena di soldati. Vi concorrevano altresì le forze navali del regno, non senza aver prima combattuto onorevolmente contro le navi d'Inghilterra, che per vietar loro il passo le avevano assaltate nel golfo di Pizzo, al capo Vaticano, e sulle spiaggie di Bagnara. S'ingiungeva a tutti i comuni posti sul littorale del Mediterraneo, che somministrassero legni armati in guerra per l'impresa di Sicilia. Murat, che a Scilla voleva imitar Napoleone a Bologna di mare, spesso imbarcava, e spesso anche sbarcava le genti per addestrarle. Ognuno credeva che la spedizione si tenterebbe: i più confidavano nella fortuna di Napoleone, affermando, che finalmente poi lo stretto di Messina, non era più difficile a passarsi, che il Reno od il Danubio. Ma siccome il nervo principale della spedizione consisteva nei Francesi, così aveva Murat pregato l'imperatore, affinchè ordinasse che eglino cooperassero coi suoi Napolitani alla fazione. Napoleone, che a questo tempo negoziava colla regina, nelle sue solite ambagi ravviluppandosi, rispose nè appruovando nè disdicendo, contento al moto, o che riuscisse o che solo spaventasse. Nissun ordine mandò a' suoi, acciocchè si congiungessero con quei del re. Ma Giovacchino acceso per se stesso da incredibile cupidità all'acquisto di Sicilia, e persuadendosi di trovarvi gran seguito e facile mutazione, volle tentar la fazione da se, e con le sole sue forze. Cinque mila Napolitani, fra i quali era il reggimento di Reale-Corso, partivano di nottetempo dalle vicinanze di Reggio e di Pentimela, e s'avviavano alla volta di Sicilia, con intento di approdare tra Scaletta e Messina. Al tempo stesso Murat, standosene sulla reale gondola riccamente addobbata, dava opera ad imbarcare le genti Francesi, come se anch'elleno dovessero andare alla conquista, ancorchè sapesse, ed elle meglio di lui, che non s'attenterebbero. Ma avevano consentito ad ajutar l'impresa con un po' di romore, e con quelle vane dimostrazioni. Sbarcarono nel destinato luogo i Napolitani condotti dal generale Cavagniac; ma non così tosto posero piede sulle terre Siciliane, che invece di correre uniti a qualche fatto importante, si sbandarono per vivere di sacco. La qual cosa veduta dai paesani e dalle milizie, accorsero coll'armi ed in folla, ed oppressero facilmente quegli uomini sfrenati e dispersi: chi non fu morto, fu preso; alcuni dei presi, uccisi per la rabbia civile. Accorrevano gl'Inglesi al romore dalle stanze di Messina; ma arrivarono quando già la vittoria era compita. Dopo questo fatto, che non fu senza diminuzione della riputazione del re, deposta, non senza querela contro Napoleone, la speranza conceputa, ritirava Giovacchino i soldati verso Napoli, e con pubblico scritto annunziava, essere terminata la spedizione di Sicilia, il che era verissimo. Ma rimasero nell'ulteriore Calabria miserabili vestigia del furore dei Napoleoniani. Tra il guasto fatto per accampare, e quello dei soldati scorrazzanti per le campagne, ne furono guastate vaste tenute d'ulivi e di viti, sole ricchezze che il paese si avesse. Così il regno di là dal Faro non fu conquistato, quello di quà desolato.

Intanto i negoziati tra Napoleone e Carolina non poterono tanto restar segreti, che non venissero a cognizione degl'Inglesi, ne intrapresero anche le lettere certissime. Ciò fu cagione, che Carolina a loro, e principalmente a lord Bentinck mandato in Sicilia a confermarvi il dominio della Gran Bretagna, tanto venisse in odio, che per allontanarla del tutto dalle faccende, la confinarono in una villa lontana a qualche miglio da Palermo, e poco dopo l'obbligarono anche a partire dalla Sicilia, accidente molto singolare e strano, che sarà da noi raccontato a suo luogo.

Partito l'esercito, i facinorosi della Calabria di nuovo uscendo dai loro ripostigli, ripullulavano, ed ogni cosa mettevano a ruba ed a sangue. Niuna strada, non che maestra, rimota, niun casale sparso, niun campo riposto erano più sicuri. Divisi in bande e sottomessi a capi, si erano spartite le province. Carmine Antonio, e Mescio infestavano coi loro seguaci Mormanno e Castrovillari; Benincasa, Nierello, Parafanti e Gosia il distretto di Nicastro ed i casali di Cosenza; Boia, Giacinto Antonio, ed il Tiriolo la Serra stretta, ed i borghi di Catanzaro; Paonese, Massotta, e il Bizzarro le rive dei due mari, e la estremità dell'ulteriore Calabria. Spaventò il Bizzarro specialmente, e lungo tempo, la selva di Golano, e le strade da Seminara a Scilla. Questi erano gli effetti dell'antiche consuetudini, e delle guerre civili presenti. Si temeva, che alla prima occasione i capi politici contrarj al governo, i carbonari massimamente ed i loro aderenti, di nuovo prorompessero a moti pericolosi. Si sapeva che i carbonari, sempre nemici dei Francesi, quantunque se ne stessero quieti, fomentavano, non le ruberìe e gli assassinj, che anzi cercavano di frenargli, ma l'incitazione e l'empito, per voltarlo, quando che fosse, contro quella nazione, che tanto odiavano. Si rendeva adunque per ogni parte necessario a Murat l'estirpar del tutto quella peste dei facinorosi di Calabria, e lo spegnere, se possibil fosse, la setta tanto importuna dei carbonari. Varj per questo fine erano stati i tentativi ai tempi di Giuseppe, varj altresì ai tempi di Murat, ma sempre infruttuosi, non tanto per la forza della parte contraria, e per la difficoltà dei luoghi, quanto pei consigli spartiti, e la mollezza delle risoluzioni. A ciò fare era richiesto un uomo inesorabile contro i malvagi ed un'autorità piena per punirgli. Un Manhes generale, ajutante di campo di Murat, che già aveva con singolar energìa pacificato gli Abruzzi, parve al re uomo capace di condur a buon fine l'opera più difficile delle Calabrie. Il vi mandò con potestà di fare come e quanto volesse. Era Manhes di aspetto grazioso, di tratto cortese, non senza spirito, ma di natura rigida ed inflessibile, nè stromento più conveniente di lui poteva scegliere Giovacchino per conseguir il fine che si proponeva. Arrivava Manhes nelle Calabrie, a questo solo disposto, che le Calabrie pacificasse; del modo, qualunque ci fosse, non si curava: ciò si pose in pensiero di fare, e fecelo, ferocia a ferocia, crudeltà a crudeltà, insidia ad insidia opponendo; e se questi rimedj sono necessari, che veramente erano in Calabria, per ridurre gli uomini a sanità, io veramente dell'umana generazione mi dispero. Primieramente considerò Manhes, che l'operare spartitamente avrebbe guastato il disegno; perchè i facinorosi fuggivano dal luogo in cui si usava più rigore, in quello in cui si procedeva più rimessamente: così cacciati e tornanti a vicenda da un luogo in un altro, sempre si mantenevano. Secondamente andò pensando, che i proprietarj, anche i più ricchi, ed i baroni stessi che vivevano nelle terre, ricoveravano, per paura di essere rubati e morti, quest'uomini barbari. Dal che ne nasceva, che se non si trovava modo di torre loro questi nascosti nidi, invano si sarebbe operato per ispegnergli. S'aggiungeva che la gente sparsa per le campagne, per non essere manomessa da loro, dava loro, non che ricovero, vettovaglie; e così fra il rubare, il nascondersi ed il vagare era impossibile il sopraggiungergli. Vide Manhes convenirsi, che con qualche mezzo straordinario, giacchè gli ordinari erano stati indarno, si assicurassero gli abitatori buoni, i briganti s'isolassero. Da ciò ne cavava quest'altro frutto, che i giudizj sarebbero stati severi, operando contro i delinquenti l'antica paura, ed i danni sopportati. Ferro contro ferro, fuoco contro fuoco abbisognava a sanare tanta peste, e medicina di ferro e di fuoco usò Manhes. Per arrivare al suo fine quattro mezzi mise in opera: notizia esatta del numero dei facinorosi comune per comune, intiera loro segregazione dai buoni, armamento dei buoni, giudizj inflessibili. Chi si diletta di considerare le faccende di stato, ed i mezzi che riescono e quelli che non riescono, vedrà nelle operazioni di questo prudente e rigido Francese, quanto i mezzi suoi quadrassero col fine, e ch'ei non andò per le chimere e le astrazioni, come fu l'uso dell'età. Ordinò che ciascun comune desse il novero de' suoi facinorosi, pose le armi in mano ai terrazzani, partendogli in ischiere, fe' ritirare bestiami e contadini ai borghi più grossi, che erano guardati da truppe regolari, fe' sospendere tutti i lavori d'agricoltura, dichiarò caso di morte a chiunque, che ai corpi armati da lui non essendo ascritto, fosse trovato con viveri alla campagna, mandò fuori a correrla i corpi dei proprietarj armati da lui comune per comune, intimando loro, fossero tenuti a tornarsene coi facinorosi o vivi o morti. Non si vide più altro nelle selve, nelle montagne, nei campi, che truppe urbane che andavano a caccia di briganti, e briganti che erano cacciati. Quello che rigidamente aveva Manhes ordinato, rigidamente ancora si effettuava. I suoi subalterni il secondavano, e forse non con quella retta inflessibilità ch'egli usava, ma con crudeltà fantastica e parziale. Accadevano fatti nefandi: una madre, che ignara degli ordini, portava il solito vitto ad un suo figliuolo che stava lavorando sui campi, fu impiccata. Fu crudelmente tormentata una fanciulla, alla quale furon trovate lettere indiritte a uomini sospetti. Nè il sangue dei carbonari si risparmiava. Capobianco loro capo, tratto per insidia, e sotto colore d'amicizia nella forza, fu ucciso. Un curato ed un suo nipote entrati nella setta, furono dati a morte, l'uno veggente l'altro, il nipote il primo, il zio il secondo. Rifugge l'animo a me, che già tante orrende cose raccontai, dal raccontare i modi barbari che contro di loro si usarono. I carbonari spaventati dalle uccisioni, perchè molti di loro perirono nella persecuzione, si ritirarono alle più aspre montagne.

 

I facinorosi intanto, o di fame, per essere il paese tutto deserto e privo di vettovaglie, perivano, o nei combattimenti, che contro gli urbani ferocemente sostenevano, morivano, o preferendo una morte pronta alle lunghe angosce o da sè medesimi si uccidevano, o si davano volontariamente in preda a chi voleva il sangue loro. I dati o presi, condotti innanzi a tribunali straordinari composti d'intendenti delle provincie, e di procuratori regj, erano partiti in varie classi; quindi mandati a giudicare dai consigli militari creati a posta da Manhes. Erano o strangolati sui patiboli, o soffocati dalla puzza in prigioni orribili: gente feroce e barbara, che meritava supplizio, non pietà. Nè solo si mandavano a morte i malfattori, ma ancora chi gli favoriva, o poveri, o ricchi, o quali fossero, o con qual nome si chiamassero; perciocchè, se fu Manhes inesorabile, fu anche incorruttibile. Pure, per opera di chi aveva natura diversa dalla sua, si mescolavano a pene giuste fatti iniqui. Succedevano vendette che mi raccapriccio a raccontare. Denunziati dai facinorosi, che per ultimo misfatto usavano mortali calunnie, alcuni innocenti furono presi e morti. Talarico di Carlopoli, capitano degli urbani, devoto e pruovato servitore del nuovo governo, accusato, per odio antico, da un facinoroso, piangendo ed implorando tutti la sua grazia, fu dato a morte. Non è però da tacersi, ch'ei fu condannato dalla corte di Cosenza sopra l'accusa datagli dal procuratore del re d'aver avuto segrete intelligenze coi briganti. Parafanti, donna, per essere, come si disse, stata moglie del facinoroso di questo nome, arrestata con tutti i suoi parenti, e dannata con loro all'ultimo supplizio, perì. Posti in fila nel destinato giorno, l'infelice donna la prima, i parenti dietro, preti e boja alla coda, marciavano, in una processione distendendosi, ch'io non so con qual nome chiamare. Eransi poste in capo ai dannati berrette dipinte a fiamme, indosso vesti a guisa di San Benito; cavalcavano asini a ritroso ed a bisdosso. A questo modo s'accostarono al patibolo: quivi una morte crudele pose fine ad una commedia fantastica ed orribile. Nè davano solamente supplizi coloro, che a ciò fare erano comandati, ma ancora i paesani spinti da rabbia e da desiderio di vendetta infierivano contro i malfattori: insultavano con ischerni ai morti, straziavano con le unghie i vivi, dalle mani dei carnefici togliendogli per uccidergli. Furono i Calabri facinorosi sterminati da Manhes fino ad uno. Chi non morì pei supplizi, morì per fame. I cadaveri di molti nelle vecchie torri, o negli abbandonati casali, od anche sugli aperti campi si vedevano spiranti ancor minacce, ferocia e furore: la fame gli aveva morti. Dei presi, alcuni ammazzavano le prigioni prima dei patiboli. La torre di Castrovillari angusta e malsana, videne perire nell'insopportabile tanfo gran moltitudine.

La contaminazione abbominevole impediva ai custodi l'avvicinarsi; i cadaveri non se ne ritiravano, la peste cresceva, i moribondi si brancolavano per isfinimento e per angoscia sui morti, i sani sui moribondi, e se stessi, come cani, con le unghie e coi denti laceravano. Infame puzza di putrefatti cadaveri diventò la Castrovillarese torre: sparsesi la puzza intorno, e durò lunga stagione; le teste e le membra degl'impiccati appese sui pali di luogo in luogo, rendettero lungo tempo orrenda la strada da Reggio a Napoli. Mostrò il Crati cadaveri mutilati a mucchi: biancheggiarono, e forse biancheggiano ancora le sue sponde di abbominevoli ossa. Così un terror maggiore sopravvanzò un terror grande. Diventò la Calabria sicura, cosa più vera che credibile, sì agli abitatori che ai viandanti: si apersero le strade al commercio, tornarono i lavori all'agricoltura; vestì il paese sembianza di civile, da barbaro ch'egli era. Di questa purgazione avevano bisogno le Calabrie, Manhes la fece: il suo nome saravvi e maladetto e benedetto per sempre.

LIBRO VIGESIMOQUINTO

SOMMARIO

Papa Pio prigione in Savona, e come trattato. Sue discussioni con Napoleone circa l'esecuzione del concordato, e l'instituzione dei vescovi. Ragioni addotte dalle due parti contro, ed in favore della facoltà dei pontefici Romani del delegare l'autorità spirituale ai vescovi. Prelati Francesi mandati a trattar col papa a Savona. Il papa non si mostra alieno dal dar l'instituzione fra sei mesi ai vescovi nominati, o di consentire, che fosse data in nome suo dai metropolitani, solo astenendosi da questa concessione pei vescovi suburbani. Concilio di Parigi. Breve del 20 settembre. Il papa ricusa costantemente di rinunziare alla sovranità temporale. Minacce che gli si fanno. Come e quando condotto da Savona a Fontainebleau.

Aveva Napoleone per mezzo del concordato confermata la sua potenza; sì soddisfacendo al desiderio dei popoli, e sì tenendo coll'imperio degli ecclesiastici in freno la parte contraria, alla quale non piaceva quella sua immoderata cupidigia di dominare. Nè trovò in questo la materia renitente: gli ecclesiastici non solamente accorrevano chiamati, ma ancora si offerivano non chiamati, molti per amore della religione, e molti ancora per ambizione, e speranza dei premj. Restava che la religione Romana stessa domasse con depressione dell'autorità pontificia: aveva in ciò un desiderio molto ardente, siccome quegli che era impaziente di ogni potenza forte che a lui fosse vicina. A questo fine, occupate le Marche, si era avvicinato alla pontificia sede di Roma, e sotto colore delle cose di Napoli, mostrava spesso i suoi soldati agli attoniti Romani. A questo fine ancora aveva occupato la Romana città, e trasportato il papa in condizione cattiva a Savona, retribuzione certamente indegna di tanti benefizj. S'accomodavano gli accidenti a' suoi pensieri: perchè, allettati con le ricchezze, e colla potenza i prelati più ragguardevoli, si accorgeva facilmente, che, se per lo innanzi gli era venuto fatto di voltare il papa contro Porto Reale e contro Voltaire, poteva presentemente voltare i prelati contro il papa. Più oltre anzi mirava; e già si motivava, che a lato dell'altar maggiore delle chiese Anconitane la sua immagine si dovesse esporre alla divozione dei fedeli. Da un papa prigione ad un papa spento, da un papa spento ad un autocratore in tanta forza e grandezza pareva facile il passo. Liberato per le vittorie del Danubio da ogni timore, si accingeva all'insolito e pericoloso tentativo. I Russi ed i Britannici modi gli venivano in mente, e gli pareva gran fatto, che quello che Alessandro e Giorgio erano, egli non fosse. Ma non considerava che la opinione cattolica è inflessibile ed indomabile, e che ancor più impossibile è il cambiarla, che lo spegnerla: gli ordini papali poi alla natura sua stessa, e per così dire, alle viscere sue più vitali sono inerenti secondo la credenza della maggior parte dei fedeli.

Era arrivato papa Pio prigione a Savona il dì quindici agosto dell'ottocentonove, se per caso o pensatamente, perciocchè quello era giorno festivo di Napoleone, il lettore giudicherà. Gli furono date sull'arrivare le stanze in casa di un Sansoni, sindaco della città. Accorrevano d'ogni intorno i popoli per vedere il pontefice. Pure gli agenti imperiali osservavano, non senza contentezza, che o fosse timore o fosse opinione, era quivi la moltitudine meno fervorosa, e minore fanatismo, così il chiamavano, mostrava verso il sovrano pontefice, che in Francia, e che la presenza del papa cattivo non alterava punto la obbedienza verso il governo. Parlossi lungamente nei consigli imperiali, se si dovesse permettere che il papa comparisse in cospetto del pubblico, sì coll'uffiziare pontificalmente in chiesa, e sì col dare le benedizioni. Si temeva lo sdegno aperto degli uomini, se vedessero il papa prigioniero, le ire secrete ancor più pericolose, se nol vedessero. Prevalse l'opinione che il papa si mostrasse: ma i soldati erano numerosi nelle Savonesi terre, le spie ancor più numerose, il castello pronto a ritorlo alle genti. Insino a che Napoleone comandasse, erano vietate le udienze al papa, ed a nissuno si permetteva che gli favellasse, se non presenti le guardie. Poco dopo il principe Borghese, governatore del Piemonte e del Genovesato, avutone comandamento da Parigi, ordinava, che il palazzo dove abitava il papa, trasferito nelle stanze nuove del prefetto, si circondasse di guardie, avesse un solo luogo per uscire, non si permettesse a nissuno di entrare; il papa non desse nissuna udienza; su quanto facesse nelle interiori stanze diligentemente si vigilasse e sopravvigilasse; fra i suoi servitori e segretarj segretamente s'inframmettessero uomini dediti a Sua Maestà. Ordinava oltre a ciò Napoleone per mezzo di un Vincent, soprantendente sull'Italica polizia a Parigi, che si guardasse bene agli atti di chi venisse a visitar il papa, e di più, che ogni lettera che gli fosse indiritta, si copiasse e mandasse al ministro della polizia generale, e che medesimamente tutte quelle che da Sua Santità, o da chi appresso a lei serviva, fossero scritte, si copiassero e mandassero al ministro medesimo.

Del resto Borghese principe, e Vincent soprantendente volevano e comandavano, che il papa fosse intieramente libero della persona, il che, se pure qualche cosa significa, a chi considera gli ordini precedenti, vuol dire ch'ei non fosse legato con corde. A questo si voleva, perchè si temeva di qualche concistoro segreto, che nissun cardinale in Savona, salvo lo Spina, potesse dimorare: fosse vietato allo Spina stesso di parlare al pontefice, se non presenti le guardie, anzi desiderando mandargli certe delicature di cibi, non gli era permesso, se non con licenza del governo. Un umile uomo, che Ostengo aveva nome, ed era ai servigi del pontefice, per avere scritto un viglietto con lettere di piombo di vetro, fu cacciato nelle segrete, nè gli furono concessi i giudici. Esitava il papa a nominar le persone che dovessero attendere a' suoi servigi, essendo stimolato a farlo da chi aveva mezzo di frenare così gl'infedeli, come i fedeli. Temeva che l'amor suo fosse ad altri cagione di disgrazie, nè in ciò s'ingannò. Pure nominò il prelato Doria-Pamfili, maestro di camera, Soglia cappellano, Porta medico, Ceccarini chirurgo, Moiraghi e Morelli ajutanti di camera, un Campa giovane di florerìa, ed alcuni altri di minor condizione. Se ne viveva il pontefice nel suo Savonese carcere con molta semplicità, nè mai si mostrava sdegnarsi, quantunque avesse tante cagioni di sdegnarsi. Vedeva volentieri il conte Chabrol, prefetto di Montenotte, perchè il conte usava con lui molto umanamente, temperando con dolci modi l'acerbità degl'imperiali comandamenti; della quale dolcezza ed umanità ne ebbe anche le male parole da Parigi. Offertogli, se gli piacesse passeggiare a diporto per la campagna, s'intendeva con le guardie, rispondeva, non poter divertirsi quando la chiesa piangeva. Mandava Napoleone imperatore il conte Sarmatoris di Cherasco a metter grandi mense, a fare addobbi, a mostrar magnificenze, a condur servidori in livrea attorno al papa, e pel papa. Con qual nome chiamare questo imperiale scherno contro il pontefice prigioniero, io non so. Nè so nemmeno perchè Sarmatoris conte, che buon uomo era, accettasse un carico tanto derisorio. Si appresentava lusingando, e con le imperiali profferte. Toccò, sperare, poichè Sua Beatudine aveva aggradito i suoi servigi a Parigi, sarebbe per aggradirgli anche in Savona. Rispose pacatamente, esser cambiati i tempi: allora come a principe e sovrano essersi convenuto l'apparato esteriore, ora come a prigioniero disdirsi: fuori del suo seggio, in paese straniero, stretto da guardie armate, privo de' suoi servitori e consiglieri più intimi e più fidi; prigioniero essere, prigioniero tenersi, da prigioniero voler essere trattato: sciogliessero prima le catene che le pontificie membra strignevano, nella sua pontifical sede il rimettessero, i suoi cardinali gli rendessero, ed accetterebbe i sovrani onori: del resto provvederebbero i fedeli, provvederebbe Iddio, che mai non abbandona i servi suoi devoti. Le medesime cose asseriva, ma con maggiore forza, come a soldato, a Cesare Berthier, generale mandato a Savona da Napoleone per ajutar le spie coll'armi.

 

Giovami spaziare alquanto sui sentimenti del papa carcerato. Fulminava Ugo Maret da Parigi, tentava di spaventarlo. Si facesse, comandava, bene capire al papa ed a' suoi famigliari, che dopo la scomunica, il cui fine evidente era di eccitar i popoli alla ribellione, e di far ammazzare con le coltella sua maestà l'imperatore, aveva il governo pontificio fatto l'estremo di sua possa, e consumate tutte le sue armi; se gli facesse osservare, quanto pregno fosse quel capitolo della pace, col quale l'imperatore d'Austria si era obbligato a riconoscere tutte le mutazioni fatte, o da farsi in Italia, se gli facesse riflettere, che ugualmente dai trattati d'Amiens e di Tilsit si deduceva, che l'imperatore Napoleone poteva fare quanto gli piacesse e paresse, per impedire che il papa s'intrommettesse negli interessi terreni, e nell'amministrazione interna de' suoi stati: spesso facessero salire alle sue orecchie questo suono, che le cose temporali non hanno comunanza alcuna colle spirituali, che i sovrani da Dio acquistano la potenza loro, non dai papi, che la chiesa gallicana aveva accettato come dottrina invariabile, le dichiarazioni dell'assemblea del clero del 1682, e che finalmente una scomunica era contraria a tutti i principj della chiesa gallicana: se gli ricordasse, che Pio sesto, ancorachè al suo pontificale seggio fosse stato tolto, ed i suoi stati invasi, ancorachè a' tempi di lui la religione fosse sbandita di Francia, ed il sangue dei vescovi scannati bruttasse gli altari, non era venuto a quell'estremo passo di usare un'arma, che la religione, la carità, la politica e la ragione del pari condannavano. Così Ugo Maret predicava in nome di Napoleone imperatore la religione e la carità a papa Pio. Ma il prigioniero in contesa tanto disuguale, in cui gli avversari ajutavano le ragioni loro con tutto l'apparato delle Europee armi, non se ne stava tacendo, ed opponeva costanza a forza. Dello aver voluto eccitare i popoli alla ribellione, asseverantemente negava, poichè in tale forma aveva scritto l'atto della scomunica, che la sommessione e l'obbedienza alle potestà temporali, la salute delle persone, e la conservazione delle sostanze ne fossero specialmente raccomandate; che non era stato badando se fulminando la scomunica consumasse tutte le armi sue, e tutta la potenza, che solo aveva inteso a far il debito suo, e che del resto per la salute della chiesa si rimetteva nella provvidenza di Dio; che finalmente la politica ecclesiastica non era punto come quella dei governi; che là si trattava sempre secondo la verità e la giustizia, qua secondo le passioni umane. Aggiungeva che se presto non si acconciassero le faccende e l'imperatore colla santa sede non convenisse, vedrebbe il mondo quanto papa Pio fosse capace di fare, nè più oltre spiegava i suoi pensieri, le quali ultime parole tenevano in sentore continuo i palazzi delle Tuillerie e di San Clodoaldo. Raccomandavasi di nuovo alle spie si affaccendassero.

Nè a queste protestazioni si ristava il papa, nè all'accordo dei potentati d'Europa. Si mostrava persuaso, che non più si trattava di separar le cose temporali dalle spirituali, ma bensì di ruinare le une per mezzo delle altre; che i potentati se ne pentirebbono, che già i tentativi erano stati pregiudiziali a quelli che gli avevano fatti, massimamente all'Austria; che del resto, ed intanto in occorrenza di tal forma, come capo e rettor supremo di quanto allo spirito ed alla religione s'apparteneva, non doveva e non voleva starsene ozioso; che anzi un suo debito e volontà era di usare contro i perniziosi disegni tutta la sua pontificale potenza, riposandosi colla speranza in Dio, che supplirebbe a quanto la debolezza sua non poteva effettuare. Affermava poscia, che i sovrani sono eletti dai popoli, e che dopo la loro elezione tengono la loro potenza da Dio; che male si era interpretato l'uso, che una volta avevano i vescovi ed i papi, di mettere nelle cerimonie delle sagre la corona in capo ai sovrani; conciossiachè quest'atto null'altro volesse significare, se non se che, stantechè la potenza, dopo la elezione fatta dagli uomini, veniva da Dio medesimo, egli stesso era quello, che per mano de' suoi ministri incoronava i sovrani. Quest'erano le dottrine della scuola Romana spiegate massimamente, dopo il celebre Gravina, dallo Spedalieri, siccome da noi fu raccontato nel libro secondo delle presenti storie. Che certamente, ed egli il sapeva, soggiungeva il pontefice, le cose di quaggiù sono sempre solite a trascorrere oltre i termini della natura loro, e che per questo spesso divenivano necessarie le riforme, cambiando, e mutandosi continuamente i tempi e gli usi; che in questo Roma aveva sempre mostrato molta agevolezza, consentendo di buon grado alle riforme medesime; che solo si rendeva necessario di non operare a caso ed alla spartita, ma bensì con procedere pensato e metodico; che così l'Austria, dopo alcuni errori a lei funesti, aveva con somma sua utilità operato sotto Pio sesto di santa memoria; che del rimanente egli biasimava, ed altamente dannava quel desiderio sfrenato d'innovazioni, che a quei tempi regnava, desiderio, che invece di riformare ordinando, contaminava rovinando.