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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III

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LIBRO DUODECIMO

SOMMARIO

Pensieri di Buonaparte. Parti ed illusioni in Milano. Creazione della repubblica Cisalpina. Società di pubblica instruzione, e discorsi che vi si fanno. Il generalissimo dà una constituzione alla Cisalpina. Magnifica festa celebrata nel campo del Lazzaretto a Milano. Le potenze riconoscono la nuova repubblica. Omelìa del cardinal Chiaramonti, vescovo d'Imola, in lode della democrazìa. Visconti, ambasciatore della Cisalpina a Parigi, suo discorso al direttorio, risposta del presidente. Ultimo vale di Buonaparte alla Cisalpina. Cupezze di lui, e come inganna i potenti per arrivare alla somma dell'autorità in Francia. Trattato di Campoformio. Miserie d'Italia. Stato di Venezia democratica. Le truppe dell'imperatore occupano l'Istria, la Dalmazia, e l'Albania Veneta. Fraudi di Buonaparte per impadronirsi del navilio Veneziano, e dell'isole del mare Ionio. Spedizione dei Francesi in Levante. Espilazione, e spoglio dei paesi Veneti. Festa giojosa ad un tempo, e compassionevole in Venezia. Congresso in Bassano per la unione delle città Venete, inutile, e perchè. Brutta proposizione fatta da Buonaparte ai municipali di Venezia. Generosi sentimenti dei municipali, e di Villetard, segretario della legazione di Francia; sdegno barbaro di Buonaparte. Venezia consegnata dai repubblicani agl'imperiali.

Buonaparte vincitore dell'Italia e dell'Austria, desiderava, che un testimonio solenne si fondasse in Italia, il quale, oltre gli scritti, che morti sono, tramandasse ai posteri la memoria viva de' suoi illustri fatti, e del suo valore. Quest'era, come abbiam narrato, uno stato nuovo, che fosse a lui obbligato della sua origine, e della sua conservazione. Oltre a ciò, non essendo ancora le cose della pace del tutto ferme, poichè ad ogni momento si poteva prorompere nuovamente all'armi, voleva, che sorgesse in mezzo alle monarchìe d'Italia, e contro l'imperatore medesimo una repubblica, che fondata sui principj nuovi, desse loro cagione continua di spavento. Parevagli ancora, che la fondazione della nuova repubblica avesse, nella opinione dei popoli, a compensare la distruzione di una vecchia, e che la Cisalpina potesse cancellare il biasimo incorso per la Veneziana. Forse in tutto questo, oltre la gloria e le minacce, covava un pensiero più recondito nel caso, in cui per opera o d'altrui, o sua, venisse a mutarsi la forma del governo in Francia, riducendosi di nuovo all'antica, cioè alla monarchìa; poichè quel nuovo stato Italiano avrebbe potuto divenire per esso lui, o asilo, o ricompensa; conciossiachè il tornare al grado privato stimava contro la fama, ed era certamente contro la natura sua, checchè in contrario affermasse in certi momenti di dispetto, al direttorio. I Cincinnati, ed i Washington erano stimati da lui uomini di bassi pensieri, d'animo poco generoso, siccome quelli i quali collocavano la patria fuori di loro, ed in altrui, mentr'ei la collocava tutta in se.

Per le quali cose, come prima ebbe fermato i patti di Leoben, e dato ordine a quanto più pressava nel suo esercito, se n'era tornato a Montebello, donde poteva e vegliar le pratiche della pace, e dar moto alle faccende Cisalpine. Continuavano nella Cisalpina le provocazioni di moti incomposti nei paesi circonvicini, le quali erano, o palesi nei giornali, nei ritrovi politici, nelle condotte ai soldi Cisalpini di soldati Piemontesi, Austriaci, Polacchi, Papali, e Napolitani, che nelle legioni Lombarda e Polacca si descrivevano, o segrete per gli uomini mandati a posta, per lettere, per arti di ogni sorte, in cui vivamente si travagliavano i fuorusciti di ogni contrada d'Italia, massimamente i Piemontesi ed i Napolitani, i primi pericolosi per la natura tenace, i secondi pericolosi per la natura loquace. Le cose che si scrivevano a quei tempi in Milano contro i re e contro il papa, sarebbe lunga faccenda raccontare. Quel Salvadori, ed un Porro che fu poi ministro di polizia, e morì due anni dopo nella morìa di Nizza, erano i capi delle arti provocatrici, e stimolavano scrittori, che anche senza stimolo andavano volentieri a questo cammino. Fra i giornali Italiani il Termometro politico era il primo, e ciò, ch'ei scrisse sulla rivoluzione di Genova, e su i moti del Piemonte, è fuori d'ogni moderazione. Diede negli eccessi principalmente quando con infiammatissime parole esortava, che si gettassero al vento le ceneri dei reali di Savoja serrate nelle tombe di Superga, con surrogarvi quelle dei patriotti morti nell'Astigiana rivoluzione. Queste erano esorbitanze pazze e stravaganti; l'esagerazione stessa serviva di rimedio. Ma era in Milano un motivo assai più efficace, e quest'era un ritrovo pubblico, che chiamavano società di pubblica instruzione, dove con appositi discorsi si ammaestravano i popoli, che concorrevano ad ascoltare, nelle nuove dottrine, e donde scritti innumerevoli partivano al medesimo fine e nella Cisalpina largamente si diffondevano. Apparivano, e risplendevano molto principalmente in questo ritrovo politico uomini dotti, e leali operatori per fin di bene, ma servi ancor essi delle illusioni dei tempi. Piacemi in questo riferire un solo discorso, poichè l'andar particolarizzando sarebbe troppo lunga narrazione, e fia quello di un giovane dotto, ed amico sincero di libertà: aveva egli l'animo buono, e come buono, non sospettava in altrui quel male che non aveva in se. Esposti prima con molto acume, per cui massimamente valeva, i modi con cui gli uomini s'aggregano primitivamente in società, giva per tale forma nella sala della società della pubblica instruzione la domenica dei sette maggio favellando. «Sì, popoli della nuova Gallia Cisalpina, voi segnate negli annali del mondo un'epoca singolare, un'epoca, per cui le città dell'Italia non avranno più ad invidiare a quelle della Grecia la sorte, che portò nel loro seno la libertà. Gli Eraclidi, que' barbari di Tessaglia, che si aprirono strada nel Peloponneso, non scesero già per liberare, ma per ispogliare ed opprimere i popoli Greci. Forzati questi ad armarsi per resistere al nemico esterno, poterono bensì rovesciare i troni dei loro re, ma ciò non seguì che a costo di lunghi e gravi patimenti. Non fu che per la morte di Xanto e di Codro, che Tebe ed Atene si resero libere. Non fu che per una serie di eccessivi malori, che tutte le città cospirarono alla rovina dei despoti, si unirono tutte per sostenersi a vicenda, e guarentirsi la libertà, e sorse il mal ragionato federalismo della repubblica Acaica; e non fu che dopo una fatale continuata esperienza, che le buone leggi comparvero in Sparta, ed Atene; poichè all'epoca della rivoluzione mancarono di Licurghi, e di Soloni quelle città.

«Ora confronta tu stesso, Insubre popolo, con quella di Grecia la tua rigenerazione. Quanto è più fortunata, e più lieta! le armate Francesi non sono già state le orde rapaci degli Eraclidi; non sono già elleno discese dall'Alpi per devastare le nostre terre, per abbattere le nostre mura, per distruggerci col ferro e col fuoco. Sono esse comparse nelle pianure ridenti d'Italia per fraternizzare coi popoli, per rovesciare i troni dei nostri tiranni, per allontanare da questi lidi i veri Eraclidi, i barbari del Nord, che non ebbero, e non potranno avere giammai, nè il diritto di farsi occupatori nostri, nè il merito di unirsi a noi. La naturale loro posizione, i costumi, le leggi, la lingua, gli stessi loro ceffi gli divideranno sempre da noi, e gli conserveranno eterno obietto dell'odio nostro. Noi non siamo stati sforzati ad armarci, ed a combattere nemmeno contro gli schiavi della tirannide; i valorosi repubblicani di Francia hanno combattuto, e vinto per noi. Sulle tracce della constituzione Francese, o per dir meglio, del codice di natura, noi sapremo meglio forse di Licurgo e di Solone donarci in breve le nostre leggi. Avremo in appresso noi pure i nostri Milziadi, i Leonida, i Temistocli, i Cimoni, la gloria dei quali è già stata oscurata dai capitani Francesi, e sapremo rinnovare noi pure le già tante volte dalle Franche falangi ripetute giornate di Maratona, delle Termopili, di Salamina. Più grande di Publicola il condottiere dell'armata d'Italia ha ben meritato di ottenere fra le tue mura l'onore del trionfo; ma le tue allegrezze non verran funestate dai funerali di Bruto; nè tarderanno a sorgere fra' tuoi soldati i Servilj, i Fabricj, i Papirj, i Scipioni: che più? Le Clelie animose, le ferme Virginie si moltiplicheranno pure nelle tue donzelle».

Poi questo buon Italiano, descritta la libertà Siciliana data da Timoleonte, ed esortati gl'Italiani a vivere lontani dall'ozio e dalle discordie, con queste voci la sua orazione terminava: «Conosci, o popolo, la tua forza; la lega che dagl'Italiani si organizzò contro Brenno, e contro il Barbarossa, te ne darà l'idea vantaggiosa. Vivi alla libertà, a quella libertà, che, abbandonate le amene sponde del Cefiso e del Peneo, e fermatasi per qualche secolo sulle mal sicure rive del Tebro, dopo essere stata sì lungamente ne' boschi e ne' deserti nascosta, comparve di nuovo per grandeggiar sulla Senna, e per brillar con successo intorno al Po, da dove tutto scorrerà un giorno il bel paese, che Apennin parte, e 'l mar circonda e l'Alpe».

A queste parole applaudivano romorosamente i buoni Milanesi, maravigliando, che fra loro avessero a nascere così presto i Temistocli, i Scipioni, e massimamente le Clelie e le Virginie. Quest'erano appunto le cose, che, come diceva Buonaparte, il quale aveva il cervello fermo, mentre girava agli altri, son buone a mettersi nei romanzi.

Quali effetti partorissero questi incentivi in Piemonte e nel Genovesato, già abbiam raccontato. Il ducato di Parma a grave stento si manteneva per la protezione di Spagna, alla quale per allora la Francia non voleva pregiudicar. Continuava la Toscana nel suo tranquillo stato, sebbene la presenza dei soldati repubblicani, la pressa insolita per le contribuzioni, e le arti Cisalpine vi avessero prodotto qualche impressione. Lucca, corrotti con denari, e fattisi benevoli alcuni agenti repubblicani dei primi, si manteneva negli ordini antichi, non senza grandissime querele dei patriotti Cisalpini, che quell'aristocrazìa ardentemente detestavano. Del resto si contaminava Roma stessa, dove si scoversero congiure per cangiar lo stato, ed in cui si mescolarono francesi ed Italiani, nobili e plebei, cristiani ed ebrei. Condotti dall'occupamento del secolo avevano parlato molte cose, e nessuna operato, per modo che Giuseppe Buonaparte, che a quei tempi sedeva in Roma, gli ebbe a chiamare Bruti in pensiero, femminelle in atto. Certo non avevano nè seguito sufficiente, nè mezzo di esecuzione. Nondimeno il pontificio governo se ne sbigottiva, e gli animi si sollevavano. A Napoli covavano crudi fatti sotto velame quieto: oltreacciò mandavansi truppe di soldati verso le frontiere Romane: il governo macchinava ingrandimento; perciocchè vedendo, che si faceva vendita di stati, Napoli ne voleva per se, e domandava con molta instanza ai Francesi Fermo ed Ancona in Italia, Corfù, Cefalonia, e Zante nella Grecia. Le quali richieste erano non senza riso udite dal direttorio e da Buonaparte, più inclinati a sovvertire gli stati deboli, che ad ingrandirgli. Da ciò si vede che la sete del prendersi quel d'altrui era venuta non solo alle repubbliche, ma ancora alle monarchìe. Nella Valtellina, provincia suddita ai Grigioni, nascevano più che parole, o congiure o desiderj; i popoli vi tumultuavano a mano armata, protestando voler essere uniti alla Cisalpina. Fuvvi qualche sangue: poi dai Grigioni, e dai Valtellini fu fatto compromesso nella repubblica Francese. Pronunziò Buonaparte il lodo, stante che non erano comparsi a dir le loro ragioni i legati dei Grigioni, che avessero i popoli della Valtellina a divenir parte della Cisalpina. Per tale sentenza Chiavenna, Sondrio, Morbegno, Tirano e Bormio, terre principali di quella valle, con tutti i distretti, sottratte dalla divozione di gente Tedesca, si congiungevano con gente Italiana. Così dalla parte d'Italia si apriva ai repubblicani la strada nelle sedi più recondite delle nazioni Elvetiche, grande ajuto ai disegni che si avevano.

 

Buonaparte intanto, al quale piacevano le dicerìe dei patriotti per sommuovere gli stati altrui, ma non erano ugualmente a grado per fondare un suo governo, perchè sapeva che con modi di simil forma non si reggono i popoli, aveva applicato l'animo ad ordinare la Cisalpina con una constituzione regolare. Erasi fino allora retta la Lombardia col freno di un'amministrazione generale, potestà non solo serva del generalissimo, ma ancora di qualunque più sottoposto commissario o comandante, ed il raccontare tutte le sue condiscendenze sarebbe troppo lunga bisogna. Non era padrona dei tempi, ma i tempi la dominavano: il frenare i democrati era stimata taccia aristocratica, il non frenargli tornava in diminuzione della sua autorità, ed in fonte di licenza. Nelle diverse città i comandanti forestieri facevano a modo loro, e secondochè avevano natura più o meno quieta, od opinioni più o meno sregolate, in questo luogo tenevano, in quell'altro allargavano la briglia, e lo stato si reggeva più strettamente, o più largamente. Laonde quello non era governo nè civile, nè libero, nè comune, ma bensì un reggimento incomposto, difforme, ed a volontà di forestieri. Dal che ne conseguita, che poco più poteva l'amministrazione generale, che empir con le tasse ordinarie e straordinarie l'erario dell'esercito Buonapartiano, e dare caposoldi, e piatti costosi ai generali ed ai comandanti: perciò era veduta non senza disprezzo e indegnazione dai popoli.

Buonaparte, che era solito a gettar via gli stromenti, che per servir lui, erano divenuti odiosi, si risolveva a far mutazione. Oltrechè gl'importava massimamente, a volere che la Cisalpina fosse uno stato da se, e conosciuto dagli altri stati d'Europa, che il reggimento temporaneo vi cessasse, e vi s'introducesse il durevole ed il constituito, per quanto a quei tempi conseguire si potesse. Per la qual cosa avendo dato vita alla Cisalpina nei patti di Leoben, le volle dar ordine con leggi a Montebello. Primieramente creava una congregazione di dieci personaggi rinomati per sapienza e per costume, a cui commetteva il carico di formare il modello della constituzione Cisalpina. Notavansi fra gli eletti cinque Milanesi, un Cremonese, un Reggiano, un Modenese, un Bergamasco. Vi aggiungeva un Tirolese da lungo tempo professore in Pavia. Questi era il Padre Gregorio Fontana, uomo maraviglioso per la profondità e la vastità della dottrina, e certamente fra i dotti dottissimo. Non amava egli travagliarsi dello stato, non avendo ambizione, ma Buonaparte lo cercava per vanagloria, e per un suo fine, volendo farsi scabello dei nomi più chiari per salire a quell'altezza che ambiva. Interveniva spesso alla congregazione. Pareva, che dovesse sorgere qualche gran fatto da un Buonaparte, e da un Fontana. Ne usciva una copia della constituzione Francese con poche mutazioni, e di niun momento; opera degna di copisti, non di quegli uomini eletti. Per tale forma si consumava l'autorità dei nomi senza frutto, e gli stromenti dell'introdurre un vivere ben composto si corrompevano. Restava, che quello che si era fatto in nome, si recasse in atto. Eleggeva Buonaparte quattro Cisalpini al direttorio: furono quest'essi: Serbelloni, che fu duca, e che camminava con molto affetto in queste novità, Moscati, medico compitissimo, e non ostante tanto compito in ogni altro genere di filosofia, quanto in medicina, Paradisi, autore assai celebrato per bello scrivere, e malveduto dagli Austriaci per aver voce di essersi mescolato attivamente nei moti di Reggio; finalmente Alessandri, operatore principale delle mutazioni nelle terre Veneziane oltre Mincio. Siccome poi non si potevano così presto eleggere i rappresentanti, che nei due consigli legislativi dovevano sedere, creava Buonaparte quattro congregazioni, l'una di constituzione con Fontana, Mascheroni, Longo, Oliva, Loschi, Goldaniga; l'altra di giurisprudenza con Bazetta, Negri, Taverna, Spannocchi, Villa, Perseguiti; la terza di finanze con Melzi, Vandelli, Formigini, Nicoli, Forni, Carissimi; la quarta di guerra con Visconti, Lahoz, Porta, Triulzi, Gazzari, Caleppi, uomini, se non tutti, certamente la maggior parte, migliori dei tempi. Conservassero, voleva, il mandato insino a che fossero creati, ed entrassero in ufficio i consigli legislativi. Finalmente per compir quanto ai supremi ordini politici dello stato si apparteneva, il capitano di Francia chiamava ministro di polizia Porro, di guerra Birago, di finanza Ricci, di giustizia Luosi, di affari esteri Testi. Al tempo medesimo nominava segretario del direttorio Sommariva.

Tessuto con parole di molta superiorità pubblicava un manifesto da servir per principio alla Cisalpina repubblica. La repubblica Cisalpina, andava ragionando, essere stata lunghi anni sotto l'imperio dell'Austria, averla contro l'Austria conquistata la repubblica Francese; eppure rinunziare lei la conquista, e volere, che la Cisalpina fosse libera, independente, riconosciuta dalla Francia e dall'Austria, riconosciuta da tutta l'Europa; nè contento il direttorio esecutivo della repubblica Francese allo aver usato l'autorità sua, e le vittorie dei soldati repubblicani, perchè sorgesse, e sicura vivesse, volere ancora per singolar tratto della sua amorevolezza, e per preservarla dalle rivoluzioni dare al popolo Cisalpino la propria constituzione, parto prediletto di una nazione illuminatissima; essere la libertà il maggior bene, le rivoluzioni il maggior male; dovere adunque il popolo Cisalpino far passo da un reggimento soldatesco ad un reggimento civile; perchè questo passo senza discordie fosse, e senza sedizioni, avere il direttorio esecutivo giudicato dovere per suo mezzo, e per questa volta nominarsi i magistrati supremi della repubblica nuova, insino a che, trascorso un anno, il popolo stesso secondo gli ordini della constituzione gli nominasse; già da secoli non essere più buone repubbliche in Italia, l'amore sacro della libertà esservi spento, la più bella parte dell'Europa vivere serva dei forestieri; esser debito della repubblica Cisalpina il dimostrare col senno, e col vigor suo, e coi buoni ordini de' suoi eserciti, non avere la moderna Italia degenerato dall'antica, e vivere ancora in lei spiriti degni della libertà, per questo avere lui nominato e le quattro congregazioni, e il direttorio, e i ministri.

Destinavansi il dì nove luglio, ed il campo del Lazzaretto fuori di porta Orientale, vasto e magnifico, al pubblico e solenne ingresso della Cisalpina repubblica. Accorrevano chiamati alla solennità piena di tanti augurj i deputati di tutti i municipj, di tutti i drappelli delle guardie nazionali, di tutti i reggimenti assoldati della repubblica. Era nei giorni, che precedevano la festa, in tutta la città una folla, ed un andar e venire di popoli contenti; pareva, che non solo la nobile Milano, ma ancora tutta l'Italia a nuovo destino andasse. Aprivasi alle nove del destinato giorno il campo della Confederazione (che così dal fatto chiamarono il Lazzaretto) e vi accorrevano giulivamente, ed a pressa meglio di quattrocentomila cittadini. Suonavano le campane a gloria, tiravano i cannoni a festa; innumerevoli bandiere tricolorite col turchino, o col verde sventolavansi all'aria, e le grida, e il tumulto, e le esultazioni per l'infinita contentezza andavano al colmo. I democrati non capivano in se dall'allegrezza, e dicevano le più strane cose del mondo. Pareva, ed era veramente un gran passo da quella vita morta dei Tedeschi a quella vita viva dei Francesi; la magnifica Milano, città di per se stessa e per naturale indole allegrissima, ora tutta più che fatto non avesse mai, sin dall'intimo fondo suo si commuoveva, e si rallegrava. Entrava nel campo il direttorio coll'abito verde ricamato d'argento alla Cisalpina: il seguitavano i magistrati, e gli uomini eletti della città; gli uni e gli altri magnifico spettacolo. Nel punto dell'ingresso spesseggiavano vieppiù con le salve le artiglierìe, i popoli applaudivano, le bandiere si sventolavano: celebrava l'arcivescovo sull'altare apposito la messa; in questo mentre a quando a quando rimbombavano le artiglierìe. Dopo il santo sacrificio benediva l'arcivescovo ad una ad una le presentate bandiere. Seguitava un concerto strepitosissimo, e pure melodioso d'inni, di suoni, di viva repubblicani. Sorgeva in mezzo l'altare della patria; aveva sui lati iscrizioni secondo il tempo: sopra, un fuoco acceso, simboleggiatore dell'amore della patria, a' piedi urne con motti dimostrativi del desiderio e della gratitudine verso i soldati Francesi, e Cisalpini morti nelle battaglie per la salute della repubblica. Quest'erano le Cisalpine allegrezze e cerimonie. Assisteva Buonaparte seduto in ispecial seggio alla festa, al quale, come a vincitore di tante guerre, ed a fondatore della repubblica, risguardavano principalmente i popoli circostanti. Nè piccola parte dell'onesto spettacolo erano gli uomini delegati di Ferrara, di Bologna, dell'Emilia, di Mantova stessa, ancorchè non ancora fosse unita alla repubblica, venuti ad esser presenti a quella solennità, non solo inconsueta, ma non vista mai nel corso dei secoli, grande testimonianza d'amore, e di concordia Italiana.

Serbelloni, presidente del direttorio, dal luogo suo levatosi, e sopra un più elevato seggio postosi, in cotal modo, fattosi silenzio in mezzo agli adunati popoli, a favellare incominciava: «Noi fummo un tempo liberi, e queste medesime terre repubblicane furono: la diversità fatale delle troppo facili opinioni ci ridusse, e ci mantenne per molti secoli in estera e spesso variata servitù. Rammentiamoci, o cittadini, la lunga serie dei cessati infortunj, ed il passato ci sia d'utile esempio per l'avvenire. Sparisca, come lampo, ogni spirito di parte, che finora possa averci divisi, e perfino gli odiosi nomi, fonte inesausta di civili discordie, siano mandati in dimenticanza. Serbiamo con indelebile memoria pel ricevuto benefizio una gratitudine eterna verso la Francese repubblica, che col valore, e col sangue de' suoi soldati ci procurava la libertà, e gratitudine ancora eterna sia in noi verso l'immortale Buonaparte, che emolo dell'Africano Scipione, ci tolse con le sue vittorie a servitù, e diè forma con la vastità de' suoi lumi politici al nostro libero governo. Ciò crediamo, ciò inculchiamo nel più profondo degli animi nostri, che a voler mantenere, e conservare la prosperità di una repubblica democratica, ha ad essere fra di noi virtù nei padri, educazione nei figliuoli, costume e costanza d'animo nei cittadini, leggi ed interessi in tutto il territorio uniformi. Accendiamoci di un amor santo di patria, giuriamo concordemente di viver liberi, o di morire. Il direttorio della Cisalpina repubblica lo giura il primo, e ve ne dà l'esempio».

 

A questo passo il presidente, sguainata la spada, ed i suoi colleghi, levati i cappelli, ad alta voce giuravano. Giuravano al tempo stesso gli uomini deputati, giuravano i capi dei reggimenti, giurava l'adunato popolo intiero: i viva, le grida, i plausi, il batter delle mani, il lanciare i cappelli, lo sventolar delle bandiere facevano uno spettacolo misto, romoroso ed allegro.

Ciò detto, continuava orando il presidente, «manterrebbe col sangue, e con la vita, se fosse d'uopo, il direttorio la constituzione e le leggi. Sovvengavi, terminava, o cittadini, sovvengavi, che questa terra che abitiamo, è la terra dei Curzj, degli Scevola, dei Catoni; imitiamo quelle grandi anime, in ogni umano caso imitiamole, e lascino ogni speranza di vincerci i nostri nemici, e insieme l'Europa s'accorga, che qui l'antica Roma rinasce».

Qui rincominciavano i plausi, ed i cannoni strepitavano. A questo modo s'instituiva la repubblica Cisalpina, mandata da un principio che pareva eterno, ad un dubbio e corto avvenire. Furonvi tutto il giorno corse di carri e di cavalli, suoni, balli, festini in ogni canto, poi la sera bellissime luminarie sì dentro, che fuori del teatro. Insomma fu una grande e solenne allegrezza; e queste feste non in altra città del mondo riescono tanto liete e tanto magnifiche, quanto nella bella, e splendida Milano.

Perchè poi la memoria di un giorno tanto solenne nella mente dei posteri si conservasse, decretava il direttorio, che si rizzassero nel campo della Confederazione ad onore di ciascuna schiera dell'esercito Francese otto piramidi quadrangolari; sur un lato di ciascuna piramide si scolpisse un segno eterno della gratitudine e dell'amicizia del popolo Cisalpino verso la repubblica Francese, e l'esercito d'Italia; s'inscrivessero su due altri lati i nomi di quei forti uomini, che avevano dato la vita per la patria loro, e per la libertà Cisalpina nelle battaglie; che l'ultimo lato si serbasse intatto per iscolpirvi, ove fosse venuto il tempo, i nomi di quei prodi cittadini, che fortemente combattendo avrebbero procurato col sangue loro salute, e libertà alla patria Cisalpina.

Contaminava l'allegrezza dei patriotti l'essersi fatta serrare dal direttorio la società di pubblica instruzione. Si trovò pretesto dell'essere contraria agli ordini della constituzione.

Continuava Buonaparte ad usare l'autorità suprema per ordinare la repubblica. Nominava i giudici, gli amministratori dei distretti o dei dipartimenti, e que' dei municipj. Si faceva poi più tardi ad eleggere i membri dei due consigli, cioè del consiglio grande, o dei giovani, e del consiglio dei seniori, o degli anziani.

I popoli all'intorno, che se ne vivevano o con governi deboli, o con governi temporanei e tumultuarj, veduto le forme più regolari e più promettenti della Cisalpina, e quell'affezione particolare che il capitano invitto le portava, si davano a lei l'uno dopo l'altro. Bologna, Imola e Ferrara furono le prime a mostrar desiderio dell'unione, le due ultime più ardentemente per invidia a Bologna, la prima più a rilento per la memoria dell'antica superiorità. La giunta Bolognese titubava; ma tanti furono i maneggi dei patriotti più accesi, e l'intromettersi dei Cisalpini, che ne fu vinta la sua durezza, ed accedeva anch'essa alla prediletta repubblica; accostamento di grandissima importanza, perchè era Bologna città grossa, e piena d'uomini forti e generosi. Unite le legazioni, pensava Buonaparte a compire il direttorio, vi chiamava per quinto un Costabili Containi di Ferrara.

Principalmente accrebbe la grandezza Cisalpina l'unione della forte Brescia, membro tanto principale della terraferma Veneta. Fu tratto presidente del consiglio grande Fenaroli, nativo di questa città, il quale, avuta principal parte nelle precedenti mutazioni, si mostrava molto ardente per la conservazione dello stato nuovo.

Mantova, perchè ancora di destino incerto, se ne stava in pendente di quello che si avesse a fare. Ma poi quando si seppe, che pel trattato di Campoformio l'Austria si spogliava della sua sovranità sopra di lei, s'incorporava con animo pronto anch'essa alla Cisalpina. I Cisalpini poi, fatto di per se stessi impeto nell'oltre Po Piacentino, consentendo facilmente i popoli, l'aggregavano alla loro società.

Ampliata la repubblica per tutte queste aggiunte, Buonaparte la divideva in venti spartimenti, che chiamava dell'Olona con Milano, città capitale, del Ticino con Pavia, del Lario con Como, del Verbano con Varese, della Montagna con Lecco, del Serio con Bergamo, dell'Adda ed Oglio con Sondrio, del Mela con Brescia, del Benaco con Desenzano, del Mincio con Mantova, dell'Adda con Lodi, del Crostolo con Reggio, del Panaro con Modena, dell'Alpi Apuane con Massa, del Reno con Bologna, dell'Alta Padusa con Cento, del Basso Po con Ferrara, del Lamone con Faenza, del Rubicone con Rimini. Per tal modo in men che non faceva cinque mesi dappoichè era stata creata, in questa larghezza si distendeva la Cisalpina, che conteneva in se la Lombardia Austriaca, i ducati di Mantova, di Modena e di Reggio, Massa e Carrara, Bergamo, Brescia, e Crema coi territorj loro, la Valtellina, e le tre legazioni di Bologna, di Ferrara e dell'Emilia, parte del Veronese, e l'oltre Po Piacentino. Poco dopo Pesaro, città della Romagna, fatta mutazione, si dava alla Cisalpina. Per questo fatto i Romani confini si restrignevano.

L'unione delle legazioni alla Cisalpina aveva in se non poca malagevolezza, perchè questi popoli, soliti a vivere sotto il dominio della Chiesa, ripugnavano alle innovazioni, che loro pareva che fossero state fatte nelle cose attinenti alla religione. Questa mala contentezza si era vieppiù dilatata, quando si domandarono i giuramenti ai magistrati. Fu loro imposto di giurare osservanza inviolabile alla constituzione, odio eterno al governo dei re, degli aristocrati, ed oligarchi, di non soffrire giammai alcun giogo straniero, e di contribuire, con tutte le forze al sostegno della libertà ed uguaglianza, ed alla conservazione e prosperità della repubblica. Per mitigare le impressioni contrarie concette dal popolo, intendevano i magistrati alle persuasioni, ma come d'uomini la maggior parte troppo dediti alle nuove opinioni, elle facevano poco frutto. Tentaronsi gli ecclesiastici, e fra gli altri il cardinale Chiaramonti, vescovo d'Imola, che poi fu papa sotto nome di Pio settimo. Il suo testimonio, e le sue esortazioni, come d'uomo di vita integerrima e religiosa, erano di molto momento. Pubblicò egli adunque il giorno del Natale del presente anno un'omelìa, in cui parlava in questa guisa ai fedeli della sua diocesi: «La libertà, cara a Dio ed agli uomini, è una facoltà che fu donata all'uomo, è un dominio di poter fare o non fare, ma sempre sotto la legge divina ed umana. Non esercita ragionevolmente la sua libertà chi si oppone alla legge baldanzoso e ribelle; non esercita ragionevolmente la sua libertà chi contraddice a Dio, ed alla temporale sovranità, chi vuol seguire il piacere e lasciare l'onestà, chi si attiene al vizio ed abbandona la virtù… La forma di governo democratico adottata fra di noi, o dilettissimi fratelli, no, non è in opposizione colle massime fin qui esposte, nè ripugna al vangelo: esige anzi tutte quelle sublimi virtù, che non s'imparano che alla scuola di Gesù Cristo, e le quali, se saranno da voi religiosamente praticate, formeranno la vostra felicità, la gloria, e lo splendore della vostra repubblica».