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Read the book: «La plebe, parte II», page 16

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Jacob Arem protestò con un'esclamazione a cui il medichino non diede retta.

– E poi, continuava egli, la impresa per cui li domando questi denari è tale che assorbe al di là dei mezzi pecuniari che può avere accumulati la nostra associazione…

Gian-Luigi s'interruppe con un sorriso pieno di superbia.

– Ma che sto io rendendoti tutti questi conti? Ti dico che ne ho bisogno e basta; ti dico che li voglio, e tu non uscirai di qua senza avermi fatta la promessa solenne di darmi que' denari, per la tua legge e pei tuoi profeti. Hai capito?

Il giudeo guardò intorno con aria profondamente sgomentata. Quercia gli si accostò vieppiù ed appoggiandosi con una mano alla tavola soggiunse a bassa voce, chinando la sua alta persona verso il miseruzzo vecchio:

– Qui siamo affatto soli. (E in realtà Graffigna erasi partito durante il colloquio tra il medichino e Mario: e il domestico era andato a guidar fuori quest'ultimo, e poi ad eseguire le altre incombenze dategli da Quercia). Siamo affatto soli, quasi nelle viscere della terra, e nessuno fra i viventi può udire o veder quello che qui succede…

I lineamenti del vecchio Jacob si alterarono in modo eccessivo: si ritrasse vivamente dal suo interlocutore e disse con voce balzellante pel tremito:

– In nome dell'Eterno! Avrebbe Ella il coraggio di far violenza ad un povero vecchio?

Il medichino ruppe in una risata.

– Di che hai paura? Che io voglia far male a quel tuo vecchio carcame? Se l'oro che possiedi, tu lo portassi come sangue nelle vene, potrei metterti sotto allo strettoio per fartelo sudar fuori. Rassicurati e riavvicinati. Credi tu ch'io sia tale da non averti saputo leggere nell'anima? Io ho penetrato dentro quel vecchio tuo cranio e ci ho visto l'idea fissa che lo domina, io ho sentito le passioni scellerate che fanno battere quel tuo vecchio cuore inaridito.

Jacob sollevò sul viso di Quercia il suo sguardo umile e peritoso, e disse con voce più debole che mai:

– Che passioni? Per la pietra di Oreb!..

– Vuoi che le le dica? Tu ami assai tua figlia…

– La mia Ester! Esclamò l'ebreo facendo scintillare alcun poco i suoi occhi, fissi ancora sul volto di Gian-Luigi. Oh sì! È il fiore sbocciato sul vecchio tronco percosso dal fulmine, è il sorriso della primavera che rallegra il mio inverno, è la mite luce del mio vespro.

– Ma più di tua figlia, continuò il medichino interrompendo, assai più di tua figlia, ami il tuo denaro…e quello altrui.

Arom chinò il capo, abbassò gli occhi, e biascicò con voce più gutturale del solito:

– Sono un pover uomo che ha tanto appena che basti per campar la vita…

– Ma più forte dell'amor che hai per tua figlia, più forte ancora dell'amore che hai pel denaro, sta nel tuo cuore un odio feroce, accanito, profondo, che si è fatto tua natura, che ti guida in ogni atto, che presiede ad ogni tuo proposito: l'odio contro i cristiani, l'odio contro quelli che dominano, che trionfano, che brillano…

– Oh! che cosa dic'Ella mai? Esclamò l'ebreo, tenendo sempre più bassi gli occhi e la faccia. Io pensare ad odiare ciò a cui devo sommissione e rispetto! Un verme come sono io si lascia schiacciare ma non ha la temerità d'aver nemmanco l'ombra d'un rancore contro il piede potente che lo preme.

– Il verme dove potesse scavare una fossa sotto al gigante il cui piè lo calpesta, per farnelo rovinare da tutta la sua altezza, lo farebbe molto volentieri. Tu hai visto che altri, con o senza coscienza dell'opera loro, si adoperavano a scavar sotterraneamente questa fossa, e ti sei giunto a loro ed hai posto al travaglio la mano. Tu al minuto sgozzi coll'usura i cristiani che ti capitano sotto le unghie, collettivamente, all'ingrosso, ti adoperi a spingere le passioni e le miserie che arruolano alla cocca tanti soldati, alla rovina di quello stato sociale che fa alla tua razza una così trista condizione, che dà alla tua persona una parte così umile, così soggetta e così precaria.

L'israelita sollevò un istante le sue palpebre floscie e rugose onde copriva i suoi occhi tenuti fino allora volti alla terra, e lanciò verso il suo interlocutore uno sguardo che era una fiamma viva; ma richinate tosto le pupille si tacque nè si mosse altrimenti come se le parole del medichino non producessero in lui effetto di sorta.

Gian-Luigi continuava:

– Ti ho conosciuto per quello che eri fin dalla prima volta che ti vidi. Io ti venni innanzi allora tratto per forza dalla mano del bisogno…

– Sì; disse allora Jacob facendo sgusciare di nuovo uno sguardo sulla faccia del medichino e parlando più umilmente colla sua voce più nasale che mai. Ella non aveva ancora imparato ad avere una rivalsa sicura nelle carte da giuoco.

Quercia fece un moto di contrarietà come quegli a cui si ricorda cosa che non gli talenta udire accennata.

– Non aveva tuttavia, seguitava l'ebreo, alcuna attinenza colla nostra associazione; ma possedeva le tante buone qualità che la fanno ora capo così degno, così operoso e così intelligente della cocca, risuscitata a nuova, più vasta e più fruttuosa esistenza, e chiamata, appunto per l'iniziativa di Lei a maggiori destini. Ed io mi rallegro e mi inorgoglisco nel mio nulla d'essere stato cagione di sì prezioso acquisto, di sì meritata esaltazione di vostra signoria.

– Come io nel tuo, tu eziandio mi hai letto nell'animo. Hai capito che quell'associazione di malfattori… di ribelli alla legge sociale… così estesa e bene ordinata, poteva essere uno stromento efficace, un'arma potentissima per abbattere il presente, per vendicare il passato, quando la dirigessero una mano robusta, una ferrea volontà, una intelligenza solerte, ardimentosa e feconda. Siffatte qualità le hai presentite in me; le passioni che dovevano farmi voglioso dell'opera le hai indovinate nella mia giovinezza irrequieta. In quel primo colloquio il tuo sguardo non restò chinato alla terra, come sempre di poi, come anco al presente; ma per gli occhi mi si affondò nell'animo, a scrutare di me, come dice la tua Bibbia, il cuore e le reni. Si era nello stanzone terreno della tua dimora: un antro oscuro come il covo d'una belva; e in un angolo della stanza raggiava la precoce bellezza di tua figlia, ancora quasi bambina…

Jacob Arom aveva levato non che gli occhi, ma la testa e la persona, e guardava con inusata sicurezza e sorrideva con famigliarità compiacente. Alle ultime parole di Gian-Luigi osò interrompere quasi rimbrottando:

– Ah! lasciamo stare mia figlia, la prego.

Gian-Luigi che parve non badare per nulla a quella interruzione, continuava:

– Tu mi prendesti per la mano – la tua destra fredda come un pezzo di ghiaccio e adunca come l'artiglio d'un falco da preda, s'intrecciò colla mia, quasi a stringere un tacito patto solenne. Tu mi sorridesti colla tua bocca sdentata, tu mi facesti balenare dinanzi il cupo splendore della sciagurata sovranità che ora possiedo, tu, senza dirmene apertamente, mi lasciasti travedere lo scopo immenso della nostra opera tenebrosa, che sfugge alla intelligenza ristretta dei nostri consoci, lieti di poco danaro guadagnato col delitto… Mi rammento eziandio il momento in cui tu sapesti il felice successo della prima di quelle audacissime imprese da me immaginate e condotte che scoppiano come fulmini a ciel sereno nella calma di questa città a spaventare i cittadini colla loro terribilità misteriosa. Tu mi stringesti il braccio con mani che tremavano e mi dicesti susurrando all'orecchio: «Bravo! Bene! Oh! io aveva conosciuto l'uomo che era in Lei. Avanti, avanti! Faccia a que' scellerati d'onest'uomini il maggior male che si possa…»

L'ebreo stava tuttavia col suo corpo dritto e la faccia levata: lo sguardo che non s'era ancora abbassato secondo suo costume scintillava stranamente sotto la fronte proeminente.

– Essi a noi ne fanno tanto del male! Diss'egli colle labbra strette e la voce soffocata nella gola. Se io mi rallegro del danno cagionato a quella gente, chi può darmi torto? È una tirannica persecuzione di secoli che si aggrava sulla dispersa stirpe d'Israele. I padri di codestoro ci abbruciavano vivi; in questa età più mite, ma non più giusta nè onesta, ci si misura la vita col disprezzo e colla prepotenza. Dall'illustre cavaliere che ci tratta collo scudiscio al biricchino di piazza che ci trae dietro al nostro passaggio le immondezze del suolo pubblico, è una gara a chi più ci oltraggi e ci danneggi. Ognuno di noi, fin da bambino, è la mira delle arroganze di tutti. Non v'è debole e meschino fra i cristiani che in faccia ad un israelita non abbia sempre la ragione del più forte. Noi cresciamo in mezzo ad un ambiente di odio comune, isolati e maledetti come i leprosi al bando di ogni vantaggio sociale; a cui non si concede aver possessi, nè cariche, nè onori, neanco una patria, appena se la famiglia. L'altro dì, il nobile conte di San-Luca, col suo carrozzino rovesciava a terra e faceva rompere il capo ad un povero vecchio precisamente innanzi al caffè Fiorio. La folla si raccoglieva pietosa intorno al caduto; ma visto appena chi fosse costui la indignazione contro il giovine conte sfumava. Era un mio compagno di mestiere e di religione. – «Ah! non è che un ebreo:» si esclamò con indifferenza, ed appena fu se alcuno volle porger la mano ad alzare quel miserabile. Il conte seguitò imperturbato il suo cammino, e non ebbe nemmanco un rimprovero. Ogni giorno, ogni ora vede alcun sopruso fatto ad alcuno di noi. Quante volte non ne fui vittima io stesso! Un figliuolo di famiglia nobile, viene a farsi imprestare da me del danaro, quel sacrosanto danaro che io mi guadagno con sì penoso ed incessante lavoro; poscia trova più comodo non pagarmi i pattuiti frutti; il padre titolato e potente ne dice un motto al Comandante della Polizia: il commissario Tofi mi manda a chiamare e mi impone di contentarmi di prendere indietro il mio povero capitale, perdendoci tutti gl'interessi di vedermi imprigionato come usuraio. Non è questo un latrocinio? Ultimamente, sotto il nome di un cristiano che la faceva da mio uomo di paglia, prendo una considerevole impresa nelle forniture militari, dalla quale impresa avrei potuto avere assai buoni guadagni. La cosa mi era stata aggiudicata, era mia, e sotto un Governo onesto in una società costituita secondo i dettami di giustizia, nissuna autorità avrebbe avuto potere più di levarmela; ma qui e dai cristiani quale rispetto si ha egli pel giusto? Il conte Barranchi aveva da favorire un suo protetto non arrivato a tempo per concorrere all'appalto, si scopre che il vero accollatario dell'impresa è un ebreo: che bel pretesto! Il solito commissario Tofi mi fa venire innanzi a sè: ordine di S. E. di abbandonare l'impresa o di assaggiare del pan muffato della prigione colla bietta di concussionario. Bisogna curvare il capo e tacere… E si vuole che questa iniqua società, la quale ci fa una così bella sorte si ami, se ne desideri il prosperare e se ne rispettino le leggi?5

Il vecchio ebreo non aveva mai parlato cotanto, nè con tanto calore. Quell'anima chiusa continuamente, alle parole di Gian-Luigi s'era aperta un istante ed aveva lasciato sfuggire uno sprazzo di quel segreto livore che vi sobbolliva costretto per entro.

– Tu hai ragione: disse a sua volta il medichino. Ed io pure odio questa società e questo mondo che non mi volle fare quel luogo ch'io sento di meritarmi; e di odiarli ci ho a mille doppi più ragione di te. Te opprime l'assetto sociale; ma fra noi qual può esservi paragone? Te la sorte medesima ha condannato. Sei nato in una razza maledetta, e la natura ti ha fatto debole, ti ha impresso lo stampo degli umili per imbrancarti nella schiera dei sottomessi. Ma io?.. Io mi sento della razza dei leoni; e perchè una colpa o una sventura de' miei genitori mi ha gettato in mezzo agli uomini senza nome e senza ricchezze, ho da vedermi chiuso ogni accesso agli onori ed ai diletti del mondo? No, no per Dio! Io ho nelle vene il sangue degli Erostrati. Il mondo non mi vuol far luogo ed io mi apro la strada coll'incendio e colle rovine. Erostrato si contentò di ardere un tempio per conquistare una dubbia fama: io metterò sossopra tutto un paese, tutta una epoca per conquistare autorità, ricchezza e gloria imperitura, sia pur anco spaventosa ed orribile.

Jacob era tornato in tutta la umiltà del suo contegno ordinario.

– È vero, diss'egli più rimessamente che mai. Io sono un povero ebreo che non è nulla e non potrebbe esser mai nulla; ma Lei!.. Oh da bravo! Vinca ed abbatta questo tirannico assurdo sociale che s'impone colla legge, colla Polizia, colla carcere e colla forca. Tutti i deboli la applaudiranno. Avrà per sè tutti gli oppressi e tutte le vittime, che sono il maggior numero.

– Or bene, dà retta a quel che ti dico, Jacob, così ripigliava a parlare Gian-Luigi. Io sono alla vigilia d'ottenere il mio intento. Fra pochi dì – forse – avrà principio e conclusione in lotta tremenda la vendetta dei miserabili; lo straccione, il disprezzato, chi ha fame piglierà la sua rivincita sui fortunati, sugli onorati, sui graduati del mondo. Sarà una frana che si precipiterà irresistibile a tutto schiacciare e sconvolgere. Ma perchè questa massa lentamente preparata e raccolta si stacchi e rovini occorre una forza potente d'impulso. Questa forza è il denaro. Mi bisogna una vistosa somma, per comporre la quale ho fatto calcolo sopra ogni qualunque mezzo che sia all'arrivo della mia mano. Tutti quelli onde può disporre la cocca, e parecchi altri che gli è inutile il dire: fra questi tu ci entri per quelle cinquanta mila che ti ho domandato.

L'ebreo si pose a far girare tra le mani il suo cappello frusto.

– La ringrazio molto del contrassegno di fiducia: diss'egli con ironia appena se velata; ma per la grandezza dell'Eterno! cinquanta mila lire non sono mica una bazzecola, e per averle e snocciolarle fuori ci vuol altro che buona volontà… Io di certo do al suo progetto – che voglio creder vero, serio e reale – tutta la mia simpatia.

Il medichino lo interruppe con violenza:

– Insolente! Avresti l'audacia di non credere alle mie parole?

– Non ho quest'audacia. Dico appunto che ci credo per l'affatto. Se non si trattasse di Lei si potrebbe aver bensì il sospetto che ciò fosse un pretesto affine di raccogliere nella propria mano un considerevole capitale con cui partirsene quatto quatto per andarselo a godere in santa pace lontano, abbandonando per sempre una vita piena di agitazione ed un'impresa piena di rischi.

Il medichino arrossì per l'ira che gli fece lampeggiare tremendamente lo sguardo e corrugare la fronte.

– Miserabile! Esclamò egli. Tu mi credi capace?..

– No, no: si affrettò a gridare l'ebreo, tirandosi in là di alcuni passi. Ella non farebbe mai una cosa simile… E poi la cocca ha le braccia lunghe e raggiungerebbe un traditore anche in capo al mondo. Le muraglie dell'elegante casino di vossignoria qui presso, se potessero parlare, le conterebbero una storia che può essere d'ammonimento a chicchessia.

– È inutile che me la contino, disse Gian-Luigi tornato in una calma disdegnosa; poichè la so. Il capo di allora della cocca fuggì coi fondi della società, ed alfine di mettersi al riparo da ogni vendetta denunziò alla Polizia i principali autori di parecchi delitti, che erano gl'individui da cui egli soltanto poteva temere la sua punizione. Furono presi tutti, e la cocca per allora rimase dispersa. Due salirono sul patibolo, gli altri furono condannati alla galera in vita. Il traditore pareva dover essere sicuro, e talmente si credette tale che commise l'imprudenza di venire dopo molti e molti anni ad abitare, sotto altro nome è vero, quella medesima casetta che come capo della cocca aveva avuto in suo possesso. Chi pareva ancora ricordarsi di lui? Viveva solo, chiuso in casa, senza relazioni nessuna col mondo. Or bene, una sera ci vide aprirsi l'usciolo nascosto che metteva nel passaggio segreto, il quale allora non comunicava punto colle botteghe che tengono attualmente Baciccia e Pelone, ma si fermava al pozzo cieco del cortile; ed ecco entrargli in casa Marullo, che era fuggito dalla galera a cui era condannato per la vita. Due giorni dopo il vecchio scellerato fu trovato morto.

– Sì, questa è la storia testuale. Marullo fu quegli che di poi riordinò la cocca, la quale ora è in così florida condizione sotto la savia direzione di Vossignoria.

– Ma lasciamo questi discorsi: disse Gian-Luigi e torniamo a quelle cinquanta mila lire che tu mi devi dare ad ogni modo. Tu hai fatto troppi guadagni sulla cocca, perchè ora che questa ha bisogno del tuo concorso, tu vi ti rifiuti.

– Un concorso di cinquanta mila lire!..

– Che te ne renderanno centomila.

– Oh oh! Esclamò Jacob sollevando la testa. Come mai?

– Non è un dono che ti domando, è un imprestito. Quando avremo vinto te ne rimborserai da te stesso nella divisione della torta.

– E se non vinciamo?

– Ti compenseremo sui guadagni delle future operazioni della cocca.

L'ebreo scosse la testa.

– Se avviene uno scoppio simile e il Governo ci schiaccia, la cocca è bella e spacciata per un pezzo… Senta, signor Quercia: ci sarebbe forse un mezzo di aggiustar tutto… Ella è troppo ragionevole per voler rovinare un povero padre di famiglia esponendolo al rischio di perdere così da un momento all'altro una somma di tanto riguardo…

– Sentiamo questo mezzo: interruppe ruvidamente il medichino.

– Mi faccia un pagherò a mio ordine per cinquantadue mila lire…

– Subito: disse Gian-Luigi.

– Ma, soggiunse Jacob col tono d'un pezzente che domanda l'elemosina, vorrei colla sua un'altra firma.

Quercia si riscosse.

– Qual firma? Domandò egli aggrottando le sopracciglia.

E l'ebreo con voce più umile e sottomessa che mai:

– Quella della contessa di Staffarda…

Non aggiunse più sillaba, impaurito dallo sguardo e dall'espressione del volto di Gian-Luigi.

Questi però si tacque per un poco; incrociò le braccia al petto e parve meditare profondamente.

– L'avrai: diss'egli dopo alcuni minuti.

Un quarto d'ora più tardi, Jacob, uscito dalla bettola di Pelone, rientrava a casa sua; e Gian-Luigi, venuto fuori per la casina del viale, s'affrettava verso il palazzo Langosco. Seguitiamo per ora il vecchio israelita nel suo quartiere entro la parte più sporca del lurido ghetto, e colà conosceremo la bella Ester, di cui il biglietto scritto a Gian-Luigi già ci apprese la colpa e la sventura.

CAPITOLO XV

Jacob Arom camminava più lesto che potesse coi suoi passetti corti, facendosi riparare la neve che continuava a cadere dalla sua ombrella di cotone che non aveva più nissun colore. Una maligna gioia raggiava dal suo sguardo, e la preoccupazione del suo animo era tanta ch'egli dimenticava di mandare per le strade il solito grido di nen da vend. Giunto a quel grande agglomerato di case che forma il ghetto, penetrò nel più interno cortile, dove l'apparenza della maggior miseria si univa colla realtà della massima sporcizia a ferire la vista, l'odorato ed anche l'animo di qualunque estraneo vi si intromettesse. Era un quadrato di muraglie che conteneva un immondezzaio: spazzature, ossa rosicchiate, avanzi di erbaggi marci, gusci d'uova, torsoli e cocci rotti. La neve pareva disdegnare di coprire col suo mantello bianco tanto sudiciume, e fondendosi lo accresceva colla melma del terreno nemmanco selciato. Su questo marciume s'aprivano a pian terreno parecchie porticine con imposte d'usci forti, grosse e chiovate di ferro, e ai piani superiori alcune finestre difese da robuste inferriate a inginocchiatoio. Non si vedeva anima viva colà dentro; nissun naso d'inquilino compariva fra le barre di quelle inferriate, nissun occhio curioso di donna brillava in mezzo alle tendoline affumicate e impolverate delle varie finestre dietro i cristalli poco meno che opachi per la lunga mancanza di lavatura. Avreste detto quel luogo affatto deserto, se non ci avessero suonato gli strilli di qualche bambino piangente e il miagolare di qualche gatto affamato.

Il nostro vecchio ebreo andò ad una di quelle porticine che ho detto, la quale introduceva a casa sua, e ci picchiò dentro col pugno. Egli non usava mai portar seco la chiave di casa, perchè poteva esservi il pericolo di perderla o che gli venisse sottratta. Dopo un poco s'apri un finestruolo al di sopra della porta e vi comparve la faccia d'una vecchia degna d'esser compagna alla faccia di Jacob, degna di trovarsi in mezzo a quel lurido luogo.

– Chi è? Domandò la vecchia con voce tremolante e nasale.

Jacob tirò giù l'ombrella e levò in alto il suo becco da uccello di rapina.

– Apri. Debora, sono io.

– Vengo subito: rispose la vecchia ritraendosi dal finestrino e richiudendo l'invetrata.

Questo subito, però, si protrasse oltre a cinque minuti, così che il padrone di casa, impaziente, tornò a rinnovare la sua picchiata nell'uscio.

– Eccomi, eccomi: disse la vecchia Debora facendo scorrere i catenacci e stridere la serratura che assicuravano le imposte e mostrando finalmente il suo volto scarno fra i battenti, aperti tanto appena che una persona potesse passare.

Jacob entrò e dietro di sè richiuse egli stesso accuratamente la porta.

Entrando, uno si trovava in una stanza abbastanza vasta ma bassa di soffitto, la quale era tutta ingombra dei vari e molteplici oggetti che formavano materia dell'indefinibile commercio del vecchio ebreo. A destra una botola nel pavimento, aprendosi metteva in una scala che s'affondava sotto terra; a sinistra una scala a chiocciola saliva alla stanza superiore; in fondo una finestra con forte inferriata ancor essa, per una tenda color di polvere tirata davanti lasciava penetrare una luce grigiastra; in un angolo certi panni frusti composti di varie stoffe cucite insieme, rappezzati a mille colori, tesi sopra una corda per far da cortina, riparavano dietro sè lo strammazzo che serviva da letto alla Debora. Regnava colà dentro un'afa di rinchiuso e di stantìo che vi pigliava alla gola, congiunta in questo momento all'odore particolare mandato dai cavoli cuocendo, odore che emanava da un pentolino che si sentiva bollire e si vedeva fumare traverso il coperchio sopra un fornello portatile che faceva brillare modestamente i pochi suoi carboni accesi quasi in mezzo la stanza.

Ma chi fosse entrato dietro i passi di Jacob, avrebb'egli potuto prestare attenzione ai miseri particolari che ho appena accennato, mentre avrebbe visto di mezzo ad un viluppo di panni intorno a cui stava cucendo, non lungi dal fornello, levarsi una giovane figura di donna splendidamente bella, più che umana parola possa dire?

Era Ester, la quale venne incontro a suo padre con un sorriso un po' forzato sulle sue labbra di corallo, e pose sotto le vizze labbra di lui la sua candida fronte di così elegante e nobile forma che nulla più. Ella aveva tutte le bellezze – e le bellezze soltanto – dell'originale tipo giudaico. La sua svelta e graziosa persona il poeta l'avrebbe potuta giustamente paragonare al tronco d'una giovane palma. L'occhio nero possedeva tutta la gamma, per così dire, delle espressioni che può avere un occhio umano, dallo sguardo carezzevole, vellutato, soave, ardente d'amore, al baleno dell'odio. Il naso leggermente arcuato dava a quella dolce fisionomia un carattere di forza e palpitava nelle nari all'influsso della passione. I denti candidissimi erano fatti per illuminare il sorriso e parevano acconci eziandio a mordere e dilaniare. Da tutto quel capolavoro di forme leggiadre raggiava una gioventù potente nell'efflorescenza del suo sviluppo, benchè ora apparisse che la mestizia vi aveva gettato sopra un suo velo.

Jacob l'abbracciò con affetto di padre, e la guardò coll'ammirazione dell'avaro pel suo tesoro.

– Tu sei pallida, Ester. Che cos'hai?

Bastarono queste poche parole di suo padre perchè la giovane arrossisse fino alla radice dei capelli.

Debora intervenne.

– La sta sempre chiusa qui dentro fra queste quattro muraglie, diss'ella; vi pare, padrone, che ci si possa pigliare i bei colori?

Il vecchio fece una brutta smorfia che mostrava quanto queste parole gli spiacessero.

– Uhm! Uhm! Diss'egli bofonchiando. La sta rinchiusa! Per la pietra di Oreb, dove la avrebbe da andare? Questa è casa sua; e non c'è altro luogo da starci una ragazza. La faccia di mia figlia, della mia Ester, del gioiello della mia vecchiaia, l'occhio del mondo non l'ha manco da vedere… Certe cose non le dovresti dire tu, Debora, che sei vecchia e la gente la dovresti conoscere. Sai quanto il mondo è cattivo, e sai che cosa sono i cristiani. Giusto, e' si vorrebbe che qualche sciagurato di quell'empia razza tendesse le reti a questa mia colomba. Pel Dio d'Abramo, piuttosto vorrei!.. La figliuola d'un ebreo? Che sì che ci metterebbero dei riguardi a rapirmela! Sarebbe una festa per essi; e il povero padre non potrebbe nemmanco ottenere giustizia, nè procurarsi vendetta.

Debora non aggiunse parola; Ester tornò a sedersi in mezzo al viluppo dei panni e, chinato il capo, sembrò tutta intenta al suo lavoro che riprese con mano sollecita ma un pochino tremante; Jacob allargò di nuovo l'ombrella e la depose spiegata sul pavimento presso al fornello perchè vi si rasciugasse, gettò sopra un cassone gli abiti frusti che aveva sulla spalla, vi mise su il suo cappello, e poi riappiccando il discorso, domandò alla serva con accento che aveva un'ombra di sospetto:

– Perchè hai tu tardato cotanto a venirmi ad aprire? Visto ch'ero io, non c'era più da indugiarsi.

E il suo occhio intanto scorreva tutta la stanza intorno come per vedere se ci fosse qualche cosa di nuovo che gli svelasse la causa del ritardo.

Debora rispose:

– Eh! non mi sono indugiata per nulla, ma colle mie gambe di quasi settant'anni, capite anche voi che non si può volare… E poi la marmitta bolliva di troppo e mi sono fermata un momento a gettare un po' di cenere sulla bragia.

Jacob non disse più nulla. Si accostò al fornello ancor egli e tese al disopra del coperchio della marmitta le sue mani scarne, annerite e tremanti, per iscaldarsele. La sua preoccupazione lo aveva ripreso, e quella certa gioia maligna che ho detto tornava a scintillare ne' suoi occhietti infossati. Dopo un poco egli si levò di lì, e fregandosi le mani salì per la scala a chiocciola al piano superiore. Le due donne si guardarono con aria di segreta intelligenza e mandarono un sospiro di sollievo.

La risposta che Debora aveva fatta al padrone intorno al suo ritardo ad aprire conteneva tutt'altro che la verità. Il picchiare di Jacob aveva interrotto un interessante colloquio fra le due donne, il quale s'aggirava sulle condizioni, sui timori, sull'avvenire della povera Ester. Questa non confidava più, non isperava più che in Luigi. Ch'egli la facesse fuggir seco, ch'egli la trafugasse, purchè la togliesse all'ira ed alla vendetta del padre, che sarebbero state tremendissime quando avesse scoperto il vero, ella si sarebbe rassegnata a tutto. Ma da tanti giorni il suo seduttore non si lasciava più vedere; ed ora sarebb'egli venuto all'appello fattogli pervenire per mezzo di Graffigna? Senza essere in chiaro di tutta la verità, Ester era abbastanza addentro nei segreti di suo padre per sapere come Luigi fosse a capo d'una schiera, tra i più fidati della quale era Graffigna, non dubitava punto per ciò che la sua lettera sarebbe giunta nelle mani del suo amante, e con ansia si domandava s'egli l'amasse ancora cotanto da mettere innanzi ad ogni altra bisogna questa che riguardava la sorte di lei. Un tristo presentimento la faceva pur troppo proclive più al timore che alla speranza; e Debora, cui le larghezze di Gian-Luigi e le preghiere di Ester avevano fatta complice ed aiutrice del loro intrigo, tradendo così la fiducia del vecchio Jacob, Debora si sforzava di rassicurare alquanto l'animo abbattuto della giovinetta che s'era abbandonata ad uno sfogo di pianto.

I colpi battuti all'uscio le avevano fatte sussultare ambedue. Quella non era l'ora in cui solesse tornare a casa il padre. Un raggio di speranza balenò negli occhi pregni di pianto di Ester.

– Ch'e' sia lui! Esclamò ella gittando via i panni che teneva sulle ginocchia e levandosi per correre alla porta.

Ma Debora la trattenne.

– Può essere benissimo il signor Quercia: disse la vecchia; ma non conviene aprire senza prima vedere chi è, e tanto meno conviene che siate voi ad aprire. Sapete quanto sieno formali e rigorosi gli ordini del padrone a questo riguardo… Lasciate ch'io vada di sopra a guardare dalla finestra.

– Fa presto, fa presto, Debora: disse con accento di preghiera la giovane, e si appoggiò palpitante alla sbarra della scala ad aspettare, mentre la vecchia, quanto poteva più sollecita, saliva al piano superiore.

L'attesa della povera Ester non fu lunga. Udì fuor della porta la voce di suo padre e tosto dopo Debora, affrettandosi giù della scala, dicevale sommesso:

– Vedete se non la facevate grossa ad aprire voi stessa la porta! Qui bisogna tornare a vostro posto e star lì come se di nulla fosse stato… E bisogna rasciugare ben bene quegli occhi perchè non si possa vedere che avete pianto… Il padrone è malizioso come l'angelo delle tenebre; e se mai pel menomo giunto s'insinua in lui la menoma ombra di sospetto, noi siamo belle e fritte.

Fece seder di nuovo la giovane dove si trovava prima, le raggiustò intorno i panni a cui doveva figurare d'aver lavorato pacificamente sino allora, le rasciugò ella stessa con molta cura gli occhi e fattole ancora alcune raccomandazioni in proposito, andò poi ad aprire come vedemmo.

Quella che possedeva il vecchio israelita era proprio una lieta preoccupazione. Quando egli fu solo nella sua camera al piano superiore, gli occhietti gli brillarono ancora più vivamente, più spiccato gli si fece il sorriso sulle labbra avvizzite, ed e' si diede con più forza a soffregar l'una contro l'altra le sue mani macilente.

Lo stanzone che corrispondeva a quello del piano terreno era diviso in due per un trammezzo; la prima metà, quella in cui immetteva il capo della scala a chiocciola, era la stanza del padre; la seconda metà, a cui non si poteva accedere che passando per quella del vecchio, era la camera di Ester. In quest'ultimo locale Jacob teneva eziandio una specie di grosso armadio di legno di noce, il quale nel suo interno albergava e nascondeva una cassa di ferro. Colà dentro giaceva una parte di quei tanti denari cui l'universale, questo mostro a mille teste e mille lingue il quale sa tutto e indovina tutto, diceva dal vecchio ebreo raccolti, rammontati e posseduti. L'altra parte la più considerevole, era sotterrata in cantina.

5.Credo superfluo notare che l'epoca di questo racconto è antecedente alla così detta emancipazione degli ebrei, allora quando l'ingiusto rigore delle disposizioni legislative s'univa coi rancori popolari e coi pregiudizi religiosi a fare agli israeliti una esistenza quasi in balìa dell'arbitrio amministrativo e della prepotenza dei privati. Dopo il 1818 nel nostro Piemonte, fatte giuste a tal riguardo le leggi, scomparvero del tutto anche le ingiustizie e i pregiudizi del volgo.