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La plebe, parte I

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«Ed egli mi diceva il vero pur troppo. Io divenni il servo di tutti que' tristi e ad ogni più umiliante cosa, ad ogni loro capriccio mi obbligarono con sevizie di tutta fatta, piacendosi di quando in quando a tormentarmi per iniquo diletto da occupar loro la noia.

«Non ti dirò tutto quello che mi avvenisse in quella bolgia d'inferno. Ti basti sapere che d'ogni fatta orrori io ne udii narrati e d'ogni sorta sconcezze ne vidi; io cui la vita della campagna in mezzo alla natura aveva almeno conservato sino allora incorrotto nella mia pudica ignoranza.

«Credi pure: una delle prime riforme che occorrano nel nostro ordinamento civile si è quest'essa delle carceri. L'imprigionamento preventivo, in massima, può essere talvolta una solenne ingiustizia che punisca crudelissimamente un innocente, com'era il mio caso; in fatto poi, applicato com'esso è appo noi, è una scuola infame di corruzione e di delitti per chi o è puro tuttavia, dopo un primo fallo altresì potrebbe ancora esser facilmente ridotto alla buona strada.

«Pensa al mio caso ed alle mie condizioni, e non potrai a meno che rabbrividire. Giovane appena di diciasette anni, mentre non avevo ancora nemmanco in me l'idea del delitto, e l'uomo colpito dalle leggi mi appariva come un mostro quasi fuori della natura, ero gettato in mezzo ad una frotta di scellerati che dei loro delitti si compiacevano e menavano vanto, ed avevano dai compagni misurata la stima appunto dalla audacia e dalla grandezza della colpa commessa.

«A ritenere dal male giova moltissimo, forse più che ogni altra cosa, il pensiero ch'esso sia ripugnante alla nostra natura, che il delitto non sia il retaggio che di certi esseri predestinati da noi ben differenti, che fra noi ed i colpevoli corra una gran distanza difficilissima a superarsi. Più state lontani dallo spettacolo e dalla conoscenza del male, e più sarà in voi radicata questa salutare idea. Non crederete possibile il far male, perchè non avrete l'abitudine di pensarci e conserverete per esso tutto l'orrore che vi hanno inspirato od avete da voi medesimi concepito. Ma prendete un povero diavolo cui la giovinezza faccia più impressionabile alle cose circostanti e cacciatelo in quella trista atmosfera di scelleratezze; dapprima il suo orrore sarà cresciuto a dismisura, e soffrirà moralmente, come parola umana non può esprimere; poscia, del pari che il corpo ai patimenti ed alle intemperie fisiche, la sua anima s'incallirà, per così dire, a poco a poco a quello sciagurato ambiente del male; la mostruosità del delitto, che gli pareva impossibile ad allignare nel suo animo, finirà per apparirgli la cosa più naturale del mondo e se ne sentirà entro se stesso i germi; se quell'infelice condizione perduri, giungerà a credere portato della natura umana il delitto, stoltezza o pregiudizio l'onestà e la virtù.

«Codesto press'a poco provai io stesso, e se non caddi fino a quest'ultimo grado, lo debbo ed al buon don Venanzio, che tutto s'adoperò per ottenere la mia liberazione, e più ancora all'intervento pietoso del mio buono spirito protettore.

«I due principali in quella congrega di scellerati erano i due che ho già nominati: Graffigna e Stracciaferro. Erano essi che più mi tormentavano e più mi tenevano seco. M'inspiravano odio e paura: il primo peggio che il secondo, quantunque Stracciaferro fosse il più violento e in apparenza anche il più feroce. Ma non so quale ignoto sentimento, che anche oggidì non so come spiegare, mi faceva desioso di conoscere, di esaminare quella rozza, selvaggia, barbara natura.

«Un vincolo fortissimo di antica complicità nei delitti si vedeva che legava questi due uomini in un'infame amicizia; ma essi lo dissimulavano. Graffigna, che era quello dei due il quale aveva la parola sciolta, raccontava ai compagni, che ammiravano, i fasti sciagurati della loro vita; e mentre l'uditorio applaudiva, Stracciaferro, giacendo quasi sempre disteso nella sua lenta mole, si contentava di sorridere con una specie di orgoglio bestiale.

«Fra tutti quei delitti ce n'era uno che Stracciaferro non voleva udire ricordato. Graffigna aveva fatto cenno di esso una volta, e il suo complice, divenuto pallido come un cencio, esclamò con ira insieme e quasi spavento.

« – No, no, non quello, non quello.

«Bastava codesto perchè grande fosse appunto in tutti la curiosità di saperlo, e ti confesso che ancor io partecipava di questa malsana curiosità.

«Eravamo in principio di novembre, il giorno tristissimo dei morti. Da qualche giorno Stracciaferro era tristo, cupo, taciturno; Graffigna sorrideva e crollava le spalle guardandolo con molta compassione. Quando s'interrogava Stracciaferro che cosa avesse, egli non rispondeva che mediante un grugnito con cui voleva dire: lasciatemi tranquillo; quando se ne chiedeva a Graffigna, egli diceva sottovoce, perchè il suo complice non udisse: – Siamo ne' suoi giorni neri; parecchi anni sono a questi dì ci capitò quel certo affare ch'ei non vuol mai gli si ricordi, e il pover uomo ha la debolezza di sentire qualche cosa a rosicchiarlo nello stomaco.

«La notte dei morti, io che dormiva non lontano da lui, udii Stracciaferro gemere, lamentarsi nel sonno, lo vidi agitarsi e ad un punto levarsi di scatto a sedere sul giaciglio come desto improvviso, esclamando:

« – Ah! la Gegia! la Gegia!

«Tutto taceva, eccetto il profondo russare di alcuni addormentati; il lumicino appiccato alla parete mandava una fioca luce nell'androne; a quello incerto chiarore mi parve scorgere livide per paura le guancie di quell'omaccione ed irte sulla sua testa le chiome. Stette egli un poco così, quasi smemorato, guardando attorno con occhi sbarrati, poi si passò la mano sulla fronte due o tre volte, come per cancellarne un tenace pensiero, e gettando un profondo sospiro tornò a sdraiarsi.

«Il domattina Stracciaferro era pallido ed aveva ancora contratti i lineamenti. Quasi non disse verbo di tutto il giorno. Mi guardai bene dal lasciarmi sfuggire un sol motto che potesse fargli supporre aver io visto il suo turbamento notturno.

«Graffigna cercò motteggiarlo; ma, senza neppur disserrare le labbra, Stracciaferro lo guardò di tal guisa che quell'altro non ebbe più ardire di aggiunger parola. Verso sera alcuni dei prigionieri avendo cominciato a cantare, secondo il solito, una delle luride loro canzonaccie, Stracciaferro con voce tonante impose loro silenzio, e tutti si tacquero, tanto era il predominio che gli avevano dato la sua superiorità di forza muscolare e di colpe.

« – Non c'è che un modo per addomesticare quest'orso: disse Graffigna ristrettosi cogli altri prigionieri a consiglio; ed è di ubbriacarlo d'acquavite. Il carceriere P… se noi gli lasciamo scorrere qualche bianchetto, ci fornirà una famosa toppetta di branda, e con ciò noi otterremo l'intento.

«Così fu fatto. Quando si ebbe l'acquarzente, dapprima Stracciaferro rifiutò di bere; poi cedendo ad un tratto alle sollecitazioni di Graffigna, con un moto brusco e quasi rapace afferrò la fiaschetta e recatala alle labbra, ne tracannò giù come se fosse acqua di fonte. Di botto i suoi occhi brillarono, un cupo rossore salì ai pomelli delle sue guancie, e il petto largo e potente gli si sollevò in un respiro ampio e profondo.

« – Neh, che così la va meglio? Gli disse, con tono insinuante Graffigna.

« – Sì, la va meglio. Questo è il farmaco per ogni melanconia.

«E rimettendosi il fiasco alla bocca non lo trasse giù più finchè non l'ebbe vuotato del tutto. Allora guardò intorno roteando gli occhi, con aspetto tra scemo e tra stupito; poi ruppe in una gran risata, scaraventò contro la parete di prospetto la bottiglia vuota che ne andò in mille frantumi, e cadde indietro lungo e disteso sullo strammazzo dov'era seduto, come fulminato.

«Alcuni s'appressarono quasi per soccorrerlo.

« – Lasciatelo, lasciatelo: disse Graffigna. E' fa sempre così; ora sta un poco a covarsi quel boccone di sbornia, e poi salterà su collo scilinguagnolo sciolto che lo udrete a contare vita e miracoli.

«Avvenne in questo modo appunto. Stracciaferro tornò a sedere sul suo pagliericcio. Aveva la faccia di un rosso cupo, color di mattone, gli occhi infiammati, le labbra turgide, allividite; pareva un infermo di trasporto cerebrale nel delirio della febbre. Tese la mano a Graffigna, e questi avendogli data la sua, glie la strinse con tal forza che il mingherlino fece una smorfia orribile e gettò un grido ed una bestemmia.

« – Alla croce di Dio, pendaglio da forca, tu mi stroppii.

« – Grazie, Graffigna: diceva Stracciaferro con una concitazione straordinaria: grazie! Sì questo mi fa bene… forse mi uccide, ma che importa?.. Questo mi guarisce dalla mia sciocca debolezza.

«Guardò intorno entro il viso dei suoi ascoltatori, un per uno, come per vedere se alcuno volesse contraddirlo.

« – Sì, sciocca debolezza: ripetè insistendo. Sono un uomo, e un fiero uomo in tutto, me ne vanto; ma in una cosa sola sono un bambino, sono una femminetta. Lo credereste? In questi giorni ho qui dentro qualche cosa che mi rode, che mi leva ogni forza, che non mi lascia dormire… Ha da dirsi rimorso?.. Chiamatelo come volete… È un maledetto tormento, ve lo assicuro… Sono già diciasette anni che a questa stagione soffro di codesto male. Che cosa non darei perchè non venisse mai il mese di novembre, e sopratutto il giorno dei morti! Ne ho fatte d'ogni colore, parecchi ho visto morire sotto i miei colpi. Nè il sangue mi spaventa, nè il rantolo dell'agonia d'un uomo. Se penso a questo od a quello che ho mandato all'altro mondo, non mi fa nè caldo, nè freddo, non perdo l'appetito e la notte non dormo meno saporitamente per ciò; e invece quando il pensiero mi viene d'una donna, d'una debole donna, giovane e povera, ecco che gli è come se la vedessi – proprio lei – sorgere, e starmi dinanzi, e tendere verso di me le sue bianche braccia convulse a strapparmi dalle mani suo figlio, e vedo, come allora, le chiome scarmigliate, il nudo seno e gli occhi furenti… Chi ha visto mai una madre che difenda suo figlio? Una leonessa non può essere più fiera… L'ho sognata questa notte. Mi si avventava incontro come allora con morsi e graffiature; mi vomitava improperii e maledizioni; invano la respingevo; mi si attaccava con unghie di ferro, e il tempo stringeva; avevo promesso, avevo già preso parte del denaro, aspettavo di averne il resto; Graffigna mi sollecitava; Graffigna mi aveva fatto bere come stassera; io gridava alla donna: lasciami andare o succederà qualche precipizio; ella più ostinata che mai gridava: rendimi mio figlio, gridava accorruomo. Era notte; mi ricordo che le sue grida acute risuonavano pel silenzio di quella città in cui ero straniero come i rintocchi d'una campana a stormo. La gente l'avrebbe udita di sicuro. Sarebbero accorsi; a momenti potevano esser lì. Come salvarmi? Non ero pratico di Milano… poichè gli è colà che eravamo… fa presto, mi diceva Graffigna, il quale mi tolse il bambino di mano; fa presto… Ma come? Pari ad un serpente la Gegia mi si avvinghiava intorno… In che modo avvenne che mi trovassi in mano un coltello? Fu il demonio che me lo cacciò fra le dita, o fosti tu, Graffigna… Bisognava fuggire… Quel seno bianco era lì davanti a me. Gli piantai dentro la lama; il sangue mi zampillò caldo nel viso, lo vidi colar rosso rosso su quelle carni; la Gegia agitò le braccia, rantolò pur ripetendo ancora quelle parole che mi rimasero stampate come un marchio di fuoco nel cervello: rendimi mio figlio; e cadde! Graffigna mi afferrò, mi trasse con sè; fuggimmo portando via la preda – quell'infelice bambino… Ebbene questa notte l'ho sognata tal quale. Boccheggiante nel suo sangue, quella misera donna venne ancora a ripetermi: rendimi mio figlio!

 

«Curvò il capo e si tacque. Graffigna prese egli a dire, con quella sua voce in falsetto che mi parve allora più acre e stonata che mai:

« – Fu la cosa più necessaria del mondo, e non si poteva fare altrimenti. Un cotale – gli è un signore di qui, e potrei anche dirne il nome, se non fossi un uomo prudente – un cotale adunque, con cui avevo per altri precedenti affari piuttosto strette relazioni, mi dice un bel giorno, sono appunto diciasette anni: « – Mio caro Graffigna, ho bisogno che tu mi procuri un bambino maschio che abbia circa due anni di età, di cui padre e madre non si dieno più pensiero e non cerchino di saper più nulla mai; ho bisogno che nessuno al mondo sappia mai che io t'abbia data questa commissione e che tu l'hai eseguita. Se tu fai a modo avrai due mila lire.» Cospettone! Capirete anche voi che due mila lire non sono una manata di giuggiole. State tranquillo, messer Na… (Qui Graffigna s'interruppe e non disse intiero il nome). State tranquillo, insomma, gli dissi (così ripigliò) che la cosa è bella e fatta. Sapevo che Stracciaferro era in relazione con una tale che aveva dato alla luce un bambino, e pensai tosto che quello era il fatto nostro. Cercai subito di lui e gli contai la faccenda. Questo bravo uomo dapprima aveva degli scrupoli; ma poi all'udire delle due migliaia di lire cominciò a piegar l'orecchio. C'erano però due difficoltà. Quella donna s'era traslocata a Milano per seguitarvi una signora al cui servizio la si trovava, e quantunque non fosse più in quella casa, aveva però continuato a far dimora colà. Inoltre il bambino di lei non aveva che pochi mesi e non era ancora slattato. Ma io sono fatto per isciogliere le difficoltà. La prima era anzi un vantaggio. Avrei persuaso il nostro mandante come fosse molto meglio per la segretezza della cosa andare a prendere il fantoccio lontano, e che occorreva soltanto per la spesa maggiore un aumento della somma di compenso: quanto all'età, qualche mese più, qualche mese meno, pensavo di potergliela accoccare lo stesso a chi ci dava la commissione. E infatti quel signore fu lieto molto della mia proposta di prendere il bambino in una città lontana, e crebbe sino alle tre migliaia di lire, cotanto gl'interessava la cosa. Partimmo e andammo dritto da quella donna, sperando che spiegandole la cosa, ella si sarebbe acconciata volontieri per un cinquecento franchi a lasciarci il marmocchio, che non erale altro che un peso. Sì, va a far capire la ragione ad una testa matta di donna che si incoccia a dir no! Nè preghiere, nè minaccie ci valsero. Avevamo già intascato un migliaio di lire, e non è gente del nostro calibro che manca alla parola. Dissi allora a Stracciaferro di arraffare il naccherino e filare. Fu allora che successe il casa del diavolo. Il bambino fu portato via, e la donna andò all'inferno…

« – Taci: urlò Stracciaferro: non parlar male di lei… Povera Gegia! Povero bambino!.. Oh! che ne sarà stato di lui?

« – Peuh! Questo non era più affar nostro. Consegnato il marmocchio e presi i danari, che ne importava del resto?

« – A te! riprendeva Stracciaferro; ma io!.. quello era mio figlio!

«Non puoi credere l'impressione che quel racconto fece su di me. Erano diciasette anni che quel delitto era successo. Quel bambino aveva dunque press'a poco la mia età; e mi domandavo, come faceva il feroce mio compagno di carcere, che cosa mai poteva essere avvenuto di lui, che vita, che sorte fossero le sue. Figliolo d'un tal padre! Non era ella una disgrazia peggiore che quella di non aver padre nessuno? Ma almeno egli non sapeva questa sua disavventura, e l'uomo che aveva fattolo rubare alle carezze della madre gli aveva forse creata una esistenza onorata e tranquilla. Pensavo a quella povera madre, e pareva anche a me udire le ultime parole arrangolate, pronunziate dalla morente: rendimi mio figlio!

«E di botto mi veniva alla mente il pensiero di quell'aerea forma che mi appariva di quando in quando, e ch'io m'era avvezzo a chiamar mia madre. Ella pure forse era stata da me disgiunta; e come? e chi sa con quanto dolore?

«Quegli che più di proposito aveva assunto l'impresa di volgermi decisivamente al male, era Graffigna. Si piaceva ad istillarmi ogni sorta di infami insegnamenti: come si concepiscono, si meditano, si preparano, si compiono i delitti. Era maestro in quest'arte sciagurata. Niuno meglio di lui sapeva far nascere le occasioni da un lato e fare sparir gl'indizi del fatto dall'altro. Aveva ridotto la cosa ad un giuoco di combinazioni che presentava la sua attrattiva come ogni lotta in cui l'attività e l'acutezza della mente s'impiegano più che le forze del corpo.

«A me poi, col serrato argomentare d'una logica inesorabile, voleva persuadere che ad ogni costo io doveva essere e sarei stato uno dei loro. Secondo lui, tutti gli uomini nascevano colle medesime disposizioni press'a poco; a gettarli di di qua o di là di quella linea ideale che separa nel mondo quelli che si chiamano galantuomini da quelli che si chiamano furfanti e che sono perseguitati dal codice penale, non è altro che il particolare presentarsi delle circostanze; in una sola parola, il caso. Per me questo giudice supremo aveva già pronunziato irrevocabilmente, ed avevo da appartenere di necessità alla schiera dei birbanti. Fossi non fossi reo di quel primo delitto, non montava nulla. Avevo assaggiato del carcere, e questo bastava per imprimermi il carattere indelebile d'individuo pericoloso alla società e condannato al bando dai cosidetti onesti. Uscito di là non avrei trovato più nè una mano che mi si tendesse, nè un pezzo di pane in compenso del mio lavoro; la sedicente virtù mi avrebbe chiuso la porta in faccia e lasciatomi dappertutto sul selciato a morir di fame, avrei dovuto riparare ad ogni modo nelle file dei reietti, e tanto valeva che di subito m'imbrancassi con loro. Ero povero, solo al mondo e colla nota di bastardo. La sorte mi aveva gettato in mezzo al genere umano precisamente apposta per accrescere d'una recluta l'esercito dei ribelli alla tirannia sociale: quello era il mio destino; uomo nessuno si può sottrarre al suo destino, ed io, avessi fatto qualunque cosa, avrei dovuto pur sempre soggiacere ai decreti di esso.

«Le parole di quell'uomo mi confondevano la mente; sentivo con terrore in me l'impotenza di rispondere alle sue ragioni, di respingere l'influsso che m'invadeva del suo dire. Delle volte mi nasceva la tentazione di esclamare: ebben sì, sarò dei vostri; e tenuissimo era l'ostacolo di ripugnanza interiore che tuttavia me ne tratteneva. Spesso mi sentivo agitato come da una battaglia che si combattesse nell'animo mio: poi ad un tratto ero lasso e fastidito, e parevami che, presa una volta la decisione di essere ciò che erano tutti coloro che mi attorniavano, sarei stato più tranquillo. Anche la ingiustizia del trattamento che soffrivo, io innocente, mi destava talora dei veri parossismi di sdegno. Provavo un odio accanito contro chi mi aveva procurato codesto immeritato supplizio; e Graffigna mi apprendeva che questo cotale era tutta la società, era l'ordinamento delle cose fatto apposta per rassicurare tutti quelli che possedevano e che si chiamavano onesti, ed opprimere coloro che non avevano nulla e che i primi avevano battezzato per mariuoli.

«Te lo confesso schiettamente: stavo per cedere. Mi sentivo male. Il passare così ad un tratto dalla vita aperta dei campi all'aria impura di quel luogo chiuso dove si respirava in tanti: la passione stessa della mia anima combattuta, la rabbia, il dolore, la vergogna avevano scosso la mia salute già cagionevole fin dall'infanzia. Da più giorni mi ricorreva periodicamente una febbre che ad ogni volta si faceva più forte. Non dicevo nulla ma mi sentivo consumare la vita. Non potevo mangiar più neppure un boccone; avevo una sete inestinguibile e non avrei fatto che bere. I miei compagni che mangiavano la mia porzione si guardavan bene dal dirmi ammalato ai custodi: io nè voleva, nè osava parlare; nè pure ci pensavo. Quando l'accesso mi prendeva, avevo delle trafitture qui nel capo che mi pareva mi piantassero delle sottili lame arroventate traverso l'osso del cranio ed alle tempia a penetrarmi entro il cervello. Delle cose che mi attorniavano e di me stesso e del mio stato, avevo e non avevo coscienza. Le impressioni perduravano, ma non erano più esatte. I rumori e la vista degli oggetti a volta a volta mi tornavano velati, come lontani, come traverso ad una nebbia, oppure mi rispiccavano più vivi, più forti, destandomi una sensibilità quasi dolorosa. Perdevo in certi momenti la idea del tempo; tutto mi si confondeva in un tratto il mio passato a farmisi presente, e vivere in un attimo una serie d'anni; poscia quella confusione svaniva a lasciar sorgere più netta l'idea dello stato in cui mi trovavo; ed allora mi sentivo veramente a soffrire.

«In uno di questi accessi tutti i discorsi tenutimi da Graffigna mi sfilarono innanzi come incarnati in certe figure di persone che mi sembrava mi sorridessero, mi ammiccassero, mi chiamassero a sè passando. Ciascuno aveva la sua fisionomia propria, e mi guardavano molto onestamente, con aria d'interesse e con faccia d'amici. Li salutavo quasi con affezione, e siccome essi parevano invitarmi ad andar con essi loro, io mi drizzai sul mio giaciglio, pronto a seguirli e recarmi dal demonio tentatore a dirgli: sono cosa vostra.

«Ma ecco, di colpo, appena levatomi a sedere, tutta quella fantasmagoria sparire. D'improvviso io mi sentii libero il capo e chiara la mente; parvemi che un fresco alito mi ventasse sulla fronte a calmare il tumulto del mio sangue: provai un senso subitaneo di sollievo e di benessere; sentii che riprendevo per l'affatto il possesso della mia volontà e della mia intelligenza; mi trovai – te lo assicuro – nello stato medesimo di lucidità in cui sono al presente.

«Anche allora era sull'imbrunire. Il lume non era ancora stato acceso ed un'oscurità quasi piena ottenebrava il camerone. Innanzi a me, dritta ai piedi del mio pagliericcio, diffondendo intorno a sè una specie di debolissimo chiarore, stava quella forma incorporea di donna, stava lo spirito che da qualche tempo già non mi era più apparso. Benchè sempre incerte ne vedessi le sembianze, parvemi tuttavia che in esse fossevi una espressione di mestizia e di rimprovero. Io tesi le mani verso di lei e mandai una esclamazione. Ella si chinò allora verso di me; sembrommi che qualche parola pronunziasse, ch'io pure non potei afferrare; si volse alla parte dov'erano nell'ombra Graffigna e Stracciaferro e scosse la testa e fece un atto imperiosamente negativo colle mani, come per dirmi a loro non m'accostassi; poi si pose la destra sul petto, quasi volendo indicarmi, son io che te lo comando, io che te ne prego, e disparve.

«Parvemi che il buio della stanza si facesse maggiore. Fui per chiedere ai miei vicini se nulla avessero visto; ma poi questa mi parve quasi una profanazione e mi tacqui. Mi lasciai ricadere sul mio giaciglio, tutto riconfortato dell'anima. Questa benefica apparizione aveva fugate quelle perniciose della febbre: i sofismi di Graffigna erano vinti dalla sola presenza manifestatasi del mio buono spirito. Stetti più cheto, con una nuova tranquillità quale non avevo più da tempo gustata, e poco stante mi addormentai.

 

«Il domani ecco aprirsi la porta del camerone, ed il custode chiamarmi per nome.

« – Venite fuori, che c'è gente che vuol parlarvi.

«Appena potevo reggermi in piedi. Mi trascinai a stento dietro il carceriere fino in una stanza a piano terreno.

«Colà Don Venanzio commosso mi tendeva le braccia e sclamava colle lagrime agli occhi:

« – Maurilio, tu sei libero.

«Gettai un grido di gioia e l'emozione fu tanta che per la debolezza non potendovi reggere, caddi svenuto nelle braccia del buon sacerdote.

«Don Venanzio non mi aveva dimenticato. Persuaso che io era vittima d'un errore, non aveva avuto pace più finchè non l'avesse visto riparato. A Torino egli conosceva una famiglia potente… (Qui Maurilio esitò un momentino.) La famiglia Baldissero.

– Quella a cui appartiene il tracotante che insultò Benda? Domandò Selva.

– Quella stessa: rispose Maurilio. Al marchese, capo di questa famiglia, ricorse Don Venanzio, ed ottenne che sollecitamente si mandasse a procedere all'esame dei cadaveri di Menico e di Giovanna, che se ne scoprisse la cagion vera della morte, e che si dichiarasse non esser luogo a procedimento contro di me. Il buon prete aveva voluto recarsi egli stesso di persona a darmi la notizia della mia liberazione ed accompagnarmi fuor della carcere.

«Ma la infermità che mi aveva assalito mi obbligò a passare dalla prigione all'ospedale. Don Venanzio quando mi ebbe visto per sua cura allogato in un letto dell'ospizio X… raccomandatomi con ogni premura alle suore di carità che pietosamente servivano i malati, se ne partì di nuovo pel suo villaggio, facendomi la promessa, che in realtà mantenne, di venirmi a vedere di sovente.

«Parecchi giorni rimasi senza cognizione; quando risensai mi sentivo una gran fiacchezza addosso, precisamente come allorchè incominciò la guarigione da quell'altra uguale malattia che sostenni qui dopo che tu mi avesti raccolto e dato ricetto. Ero in un lungo camerone a pareti tutte bianche; due file di letti nella direzione della lunghezza si schieravano in faccia l'una all'altra. Tutti questi letti erano similissimi, incortinati intorno d'una stoffa di cotone a righe bianche e bleu, con una coperta uguale: a capoletto di ciascuno di essi era appesa una lastra con suvvi la polizza che diceva il numero del letto, l'età, le condizioni, la malattia di chi vi giaceva. Non avvezzo sino allora che allo strame del soppalco di Menico ed al pagliericcio del carcere, io trovava quel materasso su cui ero allora disteso il più soffice del mondo; quella di sentirmi posare sulle membra un lenzuolo pulito mi pareva la dolcezza maggiore che avessi provato mai.

«Mentre stavo così meco assorto a gustare quel soddisfacimento tutto materiale, e non avevo pensiero fatto, ecco dal letto che m'era più vicino alla mia destra uscire un gemito dolorosissimo fatto per istraziare il cuore anche al più insensibile uomo del mondo.

« – Oimè! Oimè! Diceva una voce d'uomo faticosamente: oh quanto soffro!

«Volevo rivolgermi a guardare questo infelice che si lamentava, e la debolezza non mi consentiva moto nessuno. Il respiro affannoso del soffrente, interrotto tratto tratto da un'esclamazione di profondo dolore, da un lagno di spasimo incomportabile, mi faceva una pena da non potersi dire.

« – Da bere! Si mise poscia a domandare con quel po' di voce che gli rimaneva, onde appena era se poteva farsi udire fino da me: da bere!.. un po' d'acqua, una goccia d'acqua per carità.

«Nessuno degl'inservienti poteva udirlo: io guardava intorno e non vedevo anima viva che fosse in caso da accorrere; le due lunghe file di letti soltanto, dai quali od uscivano gemiti o un silenzio di tomba. Facendo uno sforzo con tutto quel pochissimo vigore che mi restava, giunsi a volgere il capo verso quel povero tormentato, e lo vidi. Era un uomo sul mezzo della vita, con una folta ispida barba sul volto cresciutagli durante la malattia, le guancie incavate, giallo di colore, i pomelli sporgenti, le occhiaie infossate e al fondo le pupille accese d'un luciore di febbre.

« – Da bere, da bere: seguitava a dire il misero colla manchevol voce, ma con una specie d'irritazione nell'accento: da bere, un po' d'acqua per amor di Dio!.. E non ci sarà un cane che mi dia una goccia… e mi lascieranno crepare senza pur darmi una stilla d'acqua!..

«Come avrei voluto potere saltar giù e andargliene a ministrare! Ma mi sentivo inchiodato nel letto del pari e forse più ancora che quegli non fosse; e ad un tratto mi assalì il pensiero che se ancor io avessi avuto quel tormento della sete non avrei potuto levarmelo, e nessuno sarebbe venuto neppure in mio soccorso. Bastò questo pensiero perchè tosto mi paresse davvero già esserne assalito ancor io. Volli chiamare e mi mancò la voce: mi parve che un'altra voce mi pronunziasse entro la testa: « – qui ci lascieranno crepare senza darci neanche una stilla d'acqua.»

«Intanto guardavo sempre quell'uomo, ed egli guardava me. Quegli occhi lucenti cupamente in mezzo a quel viso giallo di cadavere mi facevano paura: e non potevo distogliere da essi i miei quasi affascinati.

«Egli si lamentava sempre. Ad un punto cessò di fissar me per volgere il suo sguardo al tavolino verso il tazzone di terra in cui c'era la pozione da bersi. L'intensità del desiderio che c'era in quello sguardo, l'agonìa di arrivare a quella bibita, il tormento di non poterlo, erano indescrivibili. Vidi agitarsi lievemente la coltre sopra il petto di quell'infelice, e poi una mano scarna uscirne fuori a rilento, protendersi verso quell'agognata tazza, allungarsi, allungarsi, mentre quello sguardo brillava sempre più e più di desiderio. Già la mano era per arrivarvi; il corpo s'era stentatamente voltato ancor esso ad assecondare quel movimento; io seguiva con infinito interesse quell'atto, parevami che a vedere quel dolorante afferrare la tazza e potersi saziare la sete, ne avrei provato grandissimo sollievo ancor io… Ma quando già era per toccare la sospirata meta, quella povera mano di botto ricadde; un sospiro o meglio un gemito sfuggì da quel petto affranto; il capo del giacente rimase più abbandonato sul guanciale, gli occhi si chiusero ed un'immobilità di morte gli tenne tutte le membra. Lo credetti estinto. Quella faccia cadaverica esprimeva nella contrazione de' suoi lineamenti una rabbia profonda: la mano giaceva sulla sponda del letto, pendente all'infuori; era una rozza mano di un rozzo uomo della plebe; ma ora la pelle villosa e bruna si piegava sulle ossa rugosamente, in modo che ogni falange, ogni tendine, ogni vena ne spiccava al di sotto con brusco risalto. Pensai che quella mano un tempo era di certo forte da sollevare ogni peso, ed ora non poteva nemmanco prendere una tazza d'acqua; così era quel povero uomo ridotto dalla malattia!

«Dopo un tempo che mi parve abbastanza lungo, il mio vicino risensò e si rifece da capo a lamentarsi, ma più fiocamente, e a domandar da bere, ma con appena intelligibili parole.

«E così durò lo spasimo di quell'infelice, senza che niuno venisse in suo soccorso, finchè il momento non giunse della visita medica.

«Io, che non avevo mai visto ospedale, nè uditone parlare, quasi mi spaventai quando vidi quella frotta d'uomini vestiti di nero, accompagnati da una monaca, che s'avanzavano pell'androne, si fermavano a tutti i letti, ora un po' più, ora un po' meno, ma non oltre i dieci minuti mai, borbottavano alcune parole fra di loro e passavano.