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La plebe, parte I

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La plebe, parte I
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Vittorio Bersezio

La plebe, parte I

PREFAZIONE

Era mio pensiero dapprima scrivere una lunga prefazione, nella quale, con rinforzi di citazioni e di dottrina raccattata qua e colà, manifestare al lettore qual significato io creda si debba oggidì attribuire al vocabolo

Plebe

, e quale l'obbligo, cui verso questa parte diseredata del genere umano ha la società moderna; dimostrare il qual obbligo è lo scopo ultimo di questo mio nuovo romanzo.



Ma una posteriore ispirazione, che credo più felice, me ne sconsigliò affatto. Appunto per annoiar meno i miei buoni lettori io adotto la forma del racconto, vestendo della vita del dramma i concetti che voglio esporre, e sarebbe stato un andar contro del tutto alle mie buone intenzioni, quella noia cui voglio risparmiare ai miei lettori, dargliela dal bel principio tutta concentrata nelle pagine pesanti di una prefazione.



Lascio quindi ogni altro indugio ed entro di botto nel mezzo dell'argomento, dicendovi soltanto l'idea di questo lavoro essermi stata primamente ispirata dalle parole del nostro gran filosofo Vincenzo Gioberti, il quale in quell'aureo libro che è il

Rinnovamento

 scriveva essere fra i debiti e i bisogni più urgenti dell'epoca nostra quello di elevare la plebe a grado e dignità di popolo.



L'idea di questo mio scritto è certamente troppo superba ragguagliata alle mie poche forze; ma se queste riusciranno impari all'argomento, voi, diletti leggitori, mi userete indulgenza pensando alla rettitudine della intenzione.



CAPITOLO I

Era una notte d'inverno, ed una fitta nebbia copriva la città di Torino. Chi ha visto a quella stagione ed a quell'ora le brutte e infangate stradicciuole di quella parte dell'oradetta città che chiamano Torino vecchia; quelle stradicciuole in cui stanno raccolte e come a confino le miserie più gravi, i cenci più logori e le più scandalose turpitudini; chi le ha viste quando quella caligine nebbiosa le ingombra e depone sopra ogni cosa, sul selciato, sulle pareti annerite delle case, sui panni e in volto a chi passa, una specie di rugiada fredda e fastidiosa che ti punge con piccolissime goccie gelate negli occhi e ti immolla le vesti addosso e ti penetra sotto a dar freddo sino alle intime midolle; chi ha visto a quell'ora quei quartieri sa che cosa sia la cupa tristezza delle abitazioni dei poveri in mezzo allo squallore della miseria ed al cattivo tempo della stagione.



Se t'avviene di passare per quei luoghi, tu senti quasi una mano di gelo posarsi adagio e pesar poi sul tuo cuore. Una nuova melanconia t'occupa l'anima e i sensi; il respiro medesimo da quell'afa nebbiosa, da quell'umido freddiccio, da quell'angustia di spazio, ti pare impedito; una strana malavoglia, incerta, vaga, ma potente, piglia possesso di te; e tu, guardando i cenciosi che sfilano taciti e lenti a randa al muro, come ombre nel Tartaro degli antichi; ricevendo nei tuoi occhi il lucicchiar febbrile di quelli delle povere

traviate

 che in quegl'immondi casamenti hanno loro stanza e s'aggirano, vere anime in pena, facendo risaltar la miseria inorpellata de' lor panni di color gaio nello scuro del nebbiume; vedendo tra le imposte d'un uscio di bottega socchiuso tremolare un raggio giallognolo della lucerna ad olio, al cui lume misere creature faticano a compiere il lavoro della giornata che ha da comprare lo scarso pane alla famiglia, tu, anche tuo malgrado, se non hai cuore d'avaro o di borsiere, ti sentirai le lagrime entro gli occhi.



Freddo, fame, strappi, sozzure materiali e morali ti stanno dattorno; un vecchio che tende la mano, un bimbo che piange, una donna che si vende, e su tutto la tenebra della notte che col gocciolar della sua nebbia par proprio che pianga.



E tu pensi alle necessità fatali di questa civiltà che mostra di aver testa soltanto e non cuore, o se cuore, non a sufficienza la mente da provvedere a questi danni; e il mistero del problema sociale t'afferra, e ad un tratto ti travolge dall'intelletto all'anima un mondo tumultuoso di pensieri e d'affetti avversi e pugnaci, mettendo in lotta gl'istinti e la ragione, il senno e la pietà, il possibile e il desiderio.



E così appunto, quella sera, per una di codeste strade, se ne stava dell'animo, camminando, un uomo, il cappello a larga falda tirato sugli occhi, il viso mezzo nascosto nelle pieghe d'un mantello anzi logoro che no, il quale non lasciava scorgere che il pallore delle guancie e la fiamma d'uno sguardo acceso, di persona nè alto nè basso, l'andare nè spedito nè impedito, curvo il petto, e il passo di chi va senza scopo che lo chiami o cosa che gli prema.



Invano già alle cantonate più d'un'Aspasia da dozzina gli aveva ammiccato col sorriso contratto; invano un cencioso, trascinandosi colle gruccie gli era venuto dietro neniando a domandare il quattrino per l'amor di Dio, al ripago de' suoi

pater ed ave

; invano una vecchia sbilenca, aggrinzita, sdentata e sciatta e sporca gli aveva susurrato infami parole all'orecchio; invano era passato innanzi ad una bettolaccia sconcia, convegno d'ogni peggio bordaglia, immondezzaio morale, da, cui veniva in istrada un tramestio di cose e di gente, un acciottolio di rozze stoviglie, un baccano di turpi canzoni sbraitate e di più turpi parole, e proverbiarsi, e minaccie, e bestemmiari da gole roche a voci squarrate; a nulla ei pareva badare, nulla sturbarlo dai suoi pensieri.



Sul passo d'una porticina scura, sopra la motriglia sozza ed attaccaticcia che a piastre copriva la pietra dello scalino, a metà seduto, a metà sdraiato, il capo contro uno degli stipiti umidicci, le mani nascoste nelle tasche de' calzoni a brandelli, tremante e battendo i denti pel freddo, pel bisogno, per la debolezza, piagnucolava un bambino.



Quell'uomo gli passò innanzi, come aveva oltrepassato tutti quegli altri oggetti, persone e cose, in cui si era abbattuto; ma quando fu in là due passi, quel piagnucolio giunse a ferirgliene le orecchie; ristette, si volse, vide un fanciullo, gli fu accosto sollecito.



Il poverino sentì che gli stava appresso qualcuno: cessò dall'infrignare; alzò gli occhi e la testa, trasse di tasca una manuccia livida come le sue guancie, colla quale teneva duo mazzi di fiammiferi, e colla vocina esile e rotta dal batter dei denti, disse in tono di preghiera e di pianto:



– 

Brichett!

 buoni

brichett

! due mazzi al soldo… Oh! ne pigli, signore.



L'uomo non rispose al fanciullo, ma gli stette sopra a guardarlo con occhio fiso, intenerito, compassionoso, amorevole.



Era un marmocchio da sette ad otto anni, sudicio, cencioso, brutto come la miseria.



– Povero bimbo! Disse quell'uomo a mezza voce parlando a sè stesso. Povero bimbo!



E questi, stato un poco, rizzatosi della persona a sedere, ripetè insistendo:



– Buoni

brichett

. La ne compri per carità!



Quell'uomo gli pose sulla testa carezzevolmente una mano, poi gli chiese:



– Perchè piangi?



– Ho fame: rispose il bambino.



– Chi t'ha insegnato a dar questa risposta? Tu non parli con tale che non conosca i misteri della miseria. Tuo padre e tua madre ti hanno comandato di piangere e di rispondere così.



Il bambino guardò il suo interrogatore cogli occhi larghi, larghi, e ripetè:



– Ho fame. Da questa mattina non ho più mangiato niente. E non avevo mangiato che una crosta di pane.



– Hai tu padre?



– Signor no.



– Madre?



– Signor no.



– Sono morti?



– Non li ho mai conosciuti.



Quell'uomo parve intenerirsi.



– Un derelitto: mormorò egli parlando di nuovo a se stesso; al pari di me!.. E in questa medesima strada!..



Guardò quel fanciullo con occhio più benevolo e compassionoso di prima.



– Tu non hai nessuno al mondo?



– Ho la nonna che mi aspetta a casa.



– Ah!



L'uomo ritrasse la mano dal capo del bimbo.



– Perchè ti lascia ella andare attorno a questa ora e per questo tempo?



– Me ne manda per guadagnar qualche soldo.



– È tardi, fa freddo, tornatene a casa.



– Non oso.



– Perchè?



– Se non le porto almeno dieci soldi la nonna mi batte…



– E te ne mancano?



– Sei.



– Menami a casa tua. Darò alla nonna i dieci soldi per te.



Il fanciullo non mostrò stupore nessuno, nè gioia, nè riconoscenza: s'alzò e si pose a camminare a costa dello sconosciuto, ma tutto ingranchito ed intirizzito com'era, co' piedi irrigiditi e dolorosi per la gonfiezza, mal potè farlo, onde mossi appena alcuni passi, si fermò e ruppe in pianto.



Lo sconosciuto fermessi pure e gli domandò:



– Che cosa hai?



Il bambino rispose della solita guisa:



– Ho freddo, ho fame.



– A casa la nonna non ti darà da cena?



Il fanciullo scosse la testa.



– Una crosta di pane se la è di buon umore e non lo è mai.



E seguitava a piangere, e batteva i denti.



Nell'oscurità della via, poco lontano brillava il rosso chiarore che gettava per l'uscio a vetri la bettolaccia che ho già accennato.



Lo sconosciuto guardò verso quella porta, sopra i cui sucidi cristalli stavano scritte le classiche parole: BUON VINO E BUON RISTORO e parve esitare un momento; poi, come se subitamente si decidesse, prese per mano il bimbo e gli disse:



– Vieni: te ne darò io da cena.



E col fanciullo s'introdusse nell'osteria piena in quel punto di rumore e di gente.



CAPITOLO II

La bettola si trovava in una bassa casipola che ora fu distrutta affine di allargare la strada. Per entrarvi bisognava scendere due scalini.



Lo sconosciuto apri l'uscio a vetri e si trovò in uno stanzone più lungo che largo, colle pareti affumicate, col pavimento composto d'assi inchiodati, tutto ronchioso pel fango recatovi ed appiccatovi qua e colà dai piedi degli avventori, con un'atmosfera grassa, densa, impregnata di acri odori, in cui il fumo faceva con pieno successo le funzioni che per la strada adempiva la fitta nebbia di quella sera invernale.

 



Dal trave del soffitto annerito, insieme con infiniti arazzi di ragnateli, per una cordicella ripiegata da tirarsi su e giù passando in mezzo ad una colomba di piombo, pendeva una lampada a tre becchi, di cui due soli avevano acceso il lucignolo, con certi tubi di vetro affumicati, e con una vernice rossa che era mezzo staccata dalla latta.



Lunghesso le pareti eran poste, ad uguale distanza l'una dall'altra, delle tavole oblunghe, e ai lati di esse delle panche di legno lunghe quanto le tavole medesime; nelle pareti, al di sopra di ciascuno di codesti deschi, era scritto in nero con cifre alte un palmo un numero diverso e progressivo.



In fondo allo stanzone, da una parte c'era un banco a mezzo ripieno di fiaschi e fiaschetti, e dietrovi seduto l'oste, con davanti un libro di conti dalla copertina sucida e strappata e un calamaio di piombo con un mozzicone di penna piantato nella bambagia immollata d'inchiostro: dall'altra parte si apriva una botola, con una cateratta che stava sempre sollevata ed appoggiata contro il muro, per la qual botola si scendeva nella cantina sotterranea, dove si custodivano i vini e si cucinavan le pietanze consumate in quell'orribile stamberga.



Nella parete, alla destra di chi entrava, presso al banco a cui sedeva l'oste, aprivasi una porta che metteva in un'altra stanza; ma questa era una stanza riservata, in cui non s'avventurava la comune dei bevitori, ed entravano soltanto alcune brigatelle di soliti accorrenti che, per la conoscenza avutane dal bettoliere, e per la vistosità dei guadagni che gliene recavano eran meritevoli di siffatto privilegio. I misteri di quella camera erano difesi dallo sguardo dei profani per certe cortine di stoffa di cotone di color rosso tirate accuratamente ai vetri dell'uscio. Al momento in cui lo sconosciuto col fanciullo per mano entrava nella bettola, quest'uscio misterioso si era aperto, per dar passo alla fante dell'oste, giovane grassotta e belloccia, con aria sfacciata, la quale portava colà dentro un vassoio e sopravi parecchi bicchieri e due boccali colmi di vin rosso. Chi si fosse trovato in quella di prospetto all'uscio avrebbe potuto vedere nella stanza di cui si tratta un allegro fuoco fiammare in uno di quei caminetti che pigliano il nome da Franklin, e intorno ad esso seduti cinque o sei uomini di varia età e di vario aspetto, che dalle vesti però apparivano appartener tutti alla classe degli operai, tutti, tolto uno, con figure risentite, e come si suol dire con di quei certi ceffi che non fa piacere incontrare nel nostro cammino, la sera.



Quasi tutte le tavole dello stanzone erano occupate dalla folla dei bevitori. Di questi tutti portavano la livrea della miseria, molti quella della abbiezione. Alcuni giuocavano alle carte, altri alla

morra

; gridavasi da ogni banda in un disarmonico concerto, nel quale più disarmoniche suonavano tratto tratto le voci e le risa roche di luride donnaccie di mala vita.



Lo sconosciuto personaggio, il quale primo ci apparve in questo dramma, di cui siam dietro a svolgere le scene, entrò colà dentro colla medesima sicurezza che avrebbe avuto un uomo avvezzo a quei luoghi ed a quelle cose. Quell'afa impregnata di acri odori e di ingrati vapori, percotendogli sul viso non parve destare in lui il meno del mondo quella ripugnanza, da cui non avrebbe potuto difendersi, e cui non avrebbe saputo al certo dissimulare una persona all'atto nuova a quell'atmosfera.



Egli guardò intorno per cercare un posto a cui assidersi, e, da parte loro, il maggior numero dei bevitori, nell'udire il campanello della porta che suonò all'aprirsi dell'uscio, levarono la testa e si volsero a guardare chi entrasse.



Lo sconosciuto aveva tirato giù dal viso la falda del mantello, onde si copriva per la strada, e potevano vedersene i lineamenti alla rossigna luce della lampada di latta appesa al soffitto.



È una figura originale. In tutta la sua persona, come nei tratti del viso, un misto di forza e di debolezza, di bontà e di malizia, di sentimento e di noncuranza. Al primo vederlo mal sapreste dirne al giusto l'età. Vi è qualche cosa di giovanile nello sguardo, nella fronte, nella rara lanugine di barba scura che appena gli vela le guancie: vi è alcun che di vecchio e direi quasi di logoro nella curva del petto, nel floscio delle carni giallognole, nella mestizia abituale dell'aspetto infermiccio.



S'ei tiene spianata la spaziosa e pallida fronte su cui pare abbia impresso un segno il dito di Dio, quella fronte coronata da corti capelli d'un nero lucido ed azzurrigno, i quali irti e ribelli ad ogni ravviatura, danno alla sua testa una meravigliosa apparenza di risoluzione e di forza; se egli, i suoi occhi, che hanno il colore del mare, e ti appaiono come questo profondi, fa brillare d'un lampo di letizia o d'affetto; se sulle smunte gote gli corre un istante a colorarle il sangue, e sulle sottili e scialbe labbra erra un sorriso, tu nol diresti giunto per anco ai vent'anni; ma se egli, qual è suo costume, tiene aggrottate le sopracciglia e turbata come da incessante lotta di pensieri la fronte, dimesso lo sguardo, serrate le labbra, curva la testa, tu lo crederesti presso ai quaranta, e ti appare per soprappiù roso da una di quelle interne infermità degli organi vitali che distruggono lentamente la vita.



Avreste detto che la natura lo aveva creato per essere il più forte e robusto degli uomini, e che le circostanze e la sciagura lo avevano ridotto ad essere debole e miseruzzo. Un capo grosso stava sopra un corpo non a sufficienza cresciuto nè sviluppato, il quale pareva aver difficoltà a portare un tanto peso; il petto incavato pareva concedere a stento l'agio di respirare ai polmoni; delle mani grosse, nodose e da gigante si annodavano a braccia esili, piccole, forse troppo lunghe a paragone della corporatura, poco meno che da rachitico; una macilenza malaticcia gli ammenciva, per così dire, tutte le membra e lasciava apparire più che non convenisse l'ossatura grossa e sformata.



Eppure, a malgrado, e forse anche a cagione di tutto ciò, la sua era una di quelle figure che ti sorprendono e ad ogni modo non puoi trovare indifferenti; di certo era tutt'altro che bella, ma pure chiamava l'attenzione del riguardante e non si sapeva perchè. Quella faccia stranamente impressa ti destava tutt'insieme una qualche simpatia, quasi direi un senso di rispetto, eppure una certa diffidenza; per poco tempo tu guardassi quelle sembianze, le ti si stampavano nella memoria, ed o ti attraevano o ti ripugnavano, o ti consigliavano a farti amica l'anima che vestivano od a sfuggirla; o eri disposto ad amarla, o la temevi come un pericolo.



Quest'uomo volse tutt'intorno uno sguardo sicuro, e visto che un'unica tavola era disoccupata quasi in capo allo stanzone presso la botola e di prospetto all'uscio a vetri della stanza vicina, si avviò verso quella, seguito dal ragazzo.



Era evidente che la venuta di costui non avea fatto una aggradevole impressione in quelli dei frequentatori della bettola, che al suono del campanello d'entrata avevano alzato la testa e guardato chi venisse. Certo non era che i panni dello sconosciuto fossero signorili ed eleganti; molto anzi ci correva, e si rimanevano all'essere puliti, colle traccie appariscenti d'un uso lungo e continuato senza intermittenze, ma erano alla foggia che è propria del ceto dei ricchi, e da essi agli strappi che portava la maggior parte degli uomini raccolti là dentro correva una infinita distanza.



– Oh oh! Aveva incominciato uno dei bevitori ammiccando cogli occhi: un

muscadino

 con tanto di guanti alle mani.



– E che vien egli a fare qui, questo bel coso? Aveva detto un altro.



– Che sì ch'ei si mena dietro il nipotino della

Gattona

: soggiunse un terzo che conosceva il piccino da cui lo sconosciuto era accompagnato.



– Un milorde che viene a cenare colla frittata alle cipolle di mastro Pelone.



– Gli è proprio il piccin della

Gattona

 quel marmocchio: disse un altro. Sta a vedere che sto bastarduzzo ha trovato finalmente suo padre, che è questo milionario, il quale viene a pagargli il buon arrivo con un quintino di quel brusco di quest'oste della malora.



E sghignazzavano seguitando coll'occhio beffardamente insolente lo sconosciuto che s'avanzava senza darsene per inteso, come se quello non fosse fatto suo.



Per arrivare al desco disoccupato, convenne al nostro personaggio passare accosto a due uomini che stavano cioncando e discorrendo seduti alla tavola immediatamente prossima a quella verso cui camminava il nuovo venuto. Costoro erano due tipi curiosi e degni di fermar l'attenzione dell'osservatore; e siccome avremo da trovarli attori non degli ultimi nelle scene del nostro racconto, non è fuor d'opera che ci fermiamo alquanto ad esaminarli.



CAPITOLO III

Questi due uomini appartenevano l'uno e l'altro alla classe degli operai, ed al vederli poteva dirsi che contavano fra i più miseri di essi. Erano presso a poco della medesima età, fra i quaranta e i cinquant'anni; ma uno recava nelle sembianze tutti i segni dei patimenti fisici e morali cui conduce seco la miseria, onde pareva troppo più invecchiato che l'età non volesse, mentre l'altro, quantunque nei panni fosse strappato e sordido al pari e più del suo compagno, aveva nelle guancie rubizze, nella corporatura piena e robusta un certo aspetto di floridezza e di benessere che contrastava affatto col suo vestire da accattone.



A dispetto di questa differenza, chi li mirasse aveva da sentire più fiducia verso il primo che non verso il secondo. Quello, nella sua aria di sofferenza e di scoraggiamento, e diremo anche di degradazione, aveva pure alcuna traccia di bontà, e un resto di quel non so che onde si svela all'apparenza l'anima onesta; mentre il suo compagno nella sua faccia grassa e colorata portava l'espressione dei più bassi istinti, e nello sguardo degli occhi piccoli e nascosti sotto folte sopracciglia di color fulvo, aveva qualche cosa di losco, di falso e di feroce.



In questo momento, di cui stiamo discorrendo, il primo de' due era seduto contro il muro appoggiandovi le spalle e il capo, mentre il braccio sinistro gli cascava inerte lungo la persona, e il braccio destro s'appoggiava alla tavola tenendo in mano un bicchiere quasi pieno di vino. La testa che gli si dimenava lentamente di qua e di là contro la parete, lo sguardo incerto e semispento, le labbra allividite nella faccia pallida, la parola balbuziente indicavano abbastanza com'egli si trovasse in uno stato di ebbrezza assai inoltrata. Riscaldato di molto dal vino altresì, ma più padrone di se stesso, appariva il suo compagno, il quale sedutogli dinanzi, si curvava verso di lui, parlandogli con molta vivacità, come chi vuol persuadere alcuno di cosa che gli prema.



Sul desco, in mezzo a loro, quattro fiaschi vuoti rendevano chiara ragione dello stato in cui si trovavano ambedue.



Per giungere alla tavola a cui aveva posta la mira, lo sconosciuto dei capitoli precedenti doveva passare precisamente dietro quell'uomo dalla figura malvagia fra lo scanno su cui egli sedeva e il braciere che, pieno di carboni spenti e di cenere, faceva le mostre di scaldare lo stanzone; e siccome quel cotale, stando curvo verso il suo compagno a discorrergli, si teneva seduto in bilico sullo scanno pencolato, da tenere le due gambe posteriori in aria, avvenne che lo sconosciuto, passando, urtasse in una di queste gambe. L'uomo si volse bruscamente, ed al vedere in chi l'aveva scosso gli abiti d'un ceto sociale superiore al suo, aggrottò le sopracciglia, contrasse la bocca ad un sogghigno di scherno e mandò una specie di grugnito minaccioso.



– Perdonate: disse gentilmente il nuovo venuto, continuando il suo cammino e andando a sedersi alla tavola vicina.



– Eh! fate attenzione in vostra malora, cazzatello d'un

muscadino

 delle mie ciabatte: borbottò quell'uomo coi denti stretti, guardando a stracciasacco lo sconosciuto.



Questi fece come se non avesse udito quelle parole, e quando fu seduto ed ebbe seduto del pari innanzi a sè il ragazzino raccattato per via, battè sulla tavola colla palma della mano per chiamare l'attenzione dell'oste.



– Che razza d'animale è costui? Disse ancora l'uomo dall'aspetto di scellerato, guardandolo di traverso con infinito sospetto ed avversione. Non mi piace vedere a svolazzare qui dentro di questi uccelletti dalle belle piume. Che sì che glie ne levo io il ruzzo, po' po' che mi tocchi!..



Lo sconosciuto, avvertisse o non avvertisse gli sguardi e le parole di quell'uomo, teneva gli occhi bassi e mostrava non udir nulla. Il popolano, stato ancora a guardarlo così un poco, scuoteva poscia le spalle, come per dire che non era cosa da dovergli importare, e riprendeva il discorso col suo ubbriaco compagno.

 



La venuta di quell'incognito in panni quasi signorili non pareva esser di gusto nemmeno dell'oste, il quale stava dietro il suo banco in fondo alla stanza.



Una curiosa figura e degna del Callotta era quest'oste, diverso affatto da tutti gli osti che voi trovate d'ordinario nella realtà entro le osterie, e nelle finzioni dei romanzi. Mentre per ordinario il bettoliere è una persona prosperosa, rubizza, grassa, dall'aspetto ilare e giovialone, questo cotale, che già abbiamo sentito chiamarsi mastro Pelone, era invece la più secca, allampanata, brutta persona che possano fare quattro ossa d'uomo ricoperte di pelle d'alluda. Lungo lungo, magro magro, scarna la faccia in cui dominava un naso mostruosamente voluminoso, pelato il cranio del colore dell'avorio ingiallito, su cui una berretta nera a fiocco, unta e bisunta; in mezzo al mostaccio una squarciatura che serviva di bocca e quando la si apriva pareva quella d'un forno, gli occhi infossati al di sotto di una arcata sopracciliare protuberantissima, lo stampo dei sette peccati capitali nei bernoccoli della testa, certe mani a dita adunche da parer le graffe di un animale di rapina; braccia e gambe lunghe, dinoccolate, ridotte alla sola ossatura grossa e deforme; la voce rauca, velata che usciva faticosamente dal petto, una tosse profonda e cavernosa che di frequente gli scuoteva i precordi; tal era il taciturno e poco aggraziato e per nulla simpatico mastro Pelone. L'avreste detto, piuttosto che un ostiere, un becchino, ed anzi la morte medesima vestitasi sopra il suo scheletro di panni d'uomo.



Di dietro il suo banco, dov'egli stava meglio che seduto, accoccolato sopra una seggiola, le nodose ginocchia quasi sotto il mento, avendo ripiegate le lunghissime gambe, così da tenere le zattere che gli servivan da piedi appoggiate al piuolo che univa le due gambe anteriori della seggiola, mastro Pelone aveva veduto entrare lo sconosciuto e in mezzo a due sbruffi di tosse aveva borbottato fra quei pochi denti che gli rimanevano nelle pallide gengive:



– Uhm! Una faccia nuova… Un nuovo agente del signor Commissario, ci scommetto… La Polizia mi vuole un bene a me!.. Uhm! Che il fistolo li colga tutti quanti.



Ed aveva seguitato collo sguardo sospettoso e diffidente il nuovo venuto nel suo cammino sino al desco a cui aveva preso posto. Quando lo sconosciuto aveva picchiato sulla tavola, l'oste, non cessando mai di fissarlo con quel suo sguardo semispento, aveva tirato giù lentamente una gamba, e poi l'altra, aveva drizzato ancora più lentamente il petto incurvato, e poi puntando al banco una delle sue manaccie s'era levato in piedi colla medesima lentezza. Era uno strano spettacolo vedere quella magra figura sgomitolarsi, per dir così, a poco a poco ed allungarsi, allungarsi dietro il banco. Quando tutto fu diritto, mastro Pelone tentennò un pochino, come fa l'albero d'una nave che sta per mettersi in via, e poi uscì con piede riguardoso, e che non faceva rumore, di dietro il suo banco, e venne a passi misurati verso la tavola dove lo avevano chiamato.



Colà puntò sul desco le sue manaccie ossee senza carne, curvò la lunga persona da far pendere il suo naso enorme sopra la testa dello sconosciuto, e domandò colla voce rauca e soffocata:



– Che cosa comanda?



– Ci avete del buon brodo caldo? Disse lo sconosciuto.



L'oste accennò di sì col capo, e poi seguitò a dondolare la testa, come per significare: – Diamine! Si figuri, se nella mia osteria non si ha da trovar di questa roba!



– Ebbene, riprese lo sconosciuto, portateci una scodella di brodo con del pane, formaggio ed una mezzina di vino.



Mastro Pelone si tirò su del corpo, e facendo piombare il suo sguardo offuscato sul viso dello sconosciuto, disse interrogativamente:



– Una sola scodella?



– Sì.



– E il vino, quale? Quel da dodici?



– Quel da dodici.



Allora l'oste si rivolse sui suoi talloni e mandò in giro i suoi occhi infossati.



– Uhm! Borbottò egli fra sè tossendo; quella pettegola di Maddalena è ancora di là; quando si caccia nella stanza di quei sciagurati demonii, che Dio li confonda, la non sa più venirne via, figliuola di una mala femmina che la è… Bisogna chiamare quell'imbecille di Meo.



Andò alla botola che metteva nelle stanze di sotto e curvatosi su di essa, gridò con quanta voce gli rimaneva nella magra cassa dello stomaco: – Meo! Meo! – sforzo che gli eccitò un accesso non indifferente di tosse. Nulla rispose, nè alcuno comparve. Pelone sembrò esitare un momento intorno al da farsi; ma poi gli mancò il coraggio di rinnovare quella prova infelice, andò all'uscio a vetri della camera vicina, e picchiò colla nocca delle dita in un certo modo particolare: Quando ebbe ripetuto due o tre v