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Storia degli Esseni

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Che se questo fatto ed altri di simil tempra non provassero l’identità, che cosa proverebbero e quale più rimarrebbe spiegazione escogitabile? Certo che altra sola rimarrebbe possibile, ma tale che per la sua assurdità niuno vorria menar buona. Bisognerebbe supporre che in seno ad una stessa nazione, gli Ebrei; sotto gli influssi di una medesima religione, l’Ebraismo, in breve sotto l’azione di un concorso di cause identicissime, due istituti siensi generati, che tutto o pressochè tutto vantano comune, dottrine, genio, pratica giornaliera, usi, costumi e nonostante non si tocchino, non si combacino, non s’identifichino fra di loro, e nonostante sieno due riproduzioni fac simili di uno stesso tipo, due manifestazioni successive di uno stesso principio, di uno stesso genere. Io credo questa ipotesi inammissibile. Io credo che nella stessa guisa che nella vita di un popolo, di una fede, di una scienza, ogni principio, ogni germe nasce una sola volta, vive di una sola vita, e morto ed esaurito mai più comparisce in quella guisa medesima che la Grecia ebbe un sol Platonismo, una sola Stoa, un sol Peripato; l’età moderna un sol Cartesio, un sol Leibnizio, un sol Spinoza, un sol Kant, nè saria stato possibile che due ve ne fosse perchè nulla d’insulso, di inutile si produce in natura, così io credo che l’Ebraismo non ebbe nè poteva avere che un sol Essenato, come non ebbe che un sol Farisato, un solo Sadduceismo, un sol Caraismo; e che questo Essenato cangiò sì di nome col cangiare de’ secoli, senza cangiare però di natura, e le fattezze antiche serbando tutt’ora riconoscibili.

LEZIONE VENTESIMAPRIMA

Le istituzioni degli Esseni ci hanno sinora occupati. Celibato, comunanza di beni, abiti, refettorio furono da noi nel novero posti delle loro istituzioni; e come tali studiati. Potremo noi obliare il lavoro l’esseniche occupazioni? Potremo noi il carattere e l’esame disdirgli di organica istituzione quando le regole dell’istituto come tale lo consideravano, come tale ai socî lo imponevano? Io credo che nol possiamo. Troppo era per essi essenziale il lavoro perchè possa da noi pretermettersi. Il lavoro, dice il Salvador, era una delle tre basi su cui la società si fondava, e queste basi erano Lavoro, Carità, Contemplazione. Le quali basi attentamente osservando, mi venne fatto dimandar a me stesso: sarebbe egli possibile che di questa triplice caratteristica si faccia parola nelle antichissime sentenze di Abot? Sarebbe possibile che un equivoco, sino adesso perpetuato, ci abbia conteso la vera e genuina intelligenza della parola Abodà, e che non ad altro se non alla essenica organizzazione allude il testo antichissimo, quando tre dice essere le basi su cui poggia il mondo, il sociale edifizio, Carità, Lavoro, Contemplazione? Io non ardirei asserire che così sia veramente, che a questo e non ad altro abbia alluso la Misna e che la parola Abodà sin ora intesa come il culto esprimente e il servigio di Dio, stia piuttosto a significare lavoro, come pure il potrebbe. Tanto io non ardisco, ma ciò che si può a dirittura affermare, egli è che la congetturata interpretazione può stare a fronte di altre mille che la critica moderna partorisce ogni giorno; egli è sopratutto il conto grandissimo in cui il lavoro si tenne presso gli Esseni.

Ma qual lavoro? certo non il commercio per cui gli antichi professarono dispregio anzichè altro; per cui parve condegno agli Egizj, agli Indiani, antichissimi popoli, rilegarne i professanti sino alle ultime classi sociali. Per cui i Greci stessi non ebbero che parole di biasimo e di sdegno, che lo dissero proprio peculiare officio della classe servile, e non solo in pratica l’ebbero a vile, ma vile ancora l’ebbero in teoria i filosofi, i publicisti, come a bastanza apparisce nel 7º libro della Politica di Aristotile, e come dal nostro stesso Flavio Giuseppe apertamente risulta, il quale più obbediente ai paganici pregiudizj che alla storica verità, disse che gli stranieri soltanto praticarono appo noi il commercio ai tempi di Salomone; troppo disdicendo a popolo nobilissimo inchinare la mente ai pensieri, agli officï della mercatura. Queste frasi provano almeno una cosa, provano il concetto che del commercio prevaleva, ai tempi dello Essenato, il quale, siccome quello che aspirava a sovrumana perfezione, non poteva a quegli offici ossequiare che dallo universale e dal volgo medesimo erano dispetti.

Che se il commercio non era la occupazione prediletta dei rigidi solitarj, potremo dire lo stesso dell’agricoltura? Egli è certo che Filone attesta il contrario. Ricorda Filone come gli Esseni si compiacessero attendere eglino stessi ai rusticani lavori, e le terre eglino stessi coltivare alla società pertinenti. Nè certo consuonavano, in questo, i lor costumi con quelli dei più famigerati popoli del mondo antico. I quali non meno che il commercio ebbero a vile l’agricoltura, e l’uno e l’altra affidarono a mercenarj, a schiavi. Testimoni gli Indiani che solo all’infime classi sociali concessero il lavoro dei campi; testimone l’Egitto, la Grecia, e Sparta segnatamente; e se una eccezione dovesse farsi fra i popoli antichi, ei sarebbe senza meno pei Cinesi e pei Romani. Ma dove oblio il popolo nostro? Che agricola per eccellenza, non alle conquiste, non alle arti, non alle scienze, poco ai commerci rivolse la mente, ma tutte si ebbe le sue cure la coltivazione della terra: e le terre feconde e le mèssi e i frutti abbondanti, si udì per secoli e secoli riprometter qual premio della sua fedeltà, e per contro suonar terribile, continua minaccia al peccato, la sterilità e la terra ingrata ai prodigati sudori.

Nè l’agricoltura fu meno in reverenza appo i Dottori. I quali non solo la consigliarono qual onesta, utile occupazione; non solo eglino stessi talvolta la praticarono (nella più corrotta epoca dello Impero romano rinnovando le virtù dei Cincinnati), ma preludendo alle grandi e famose quistioni, sorte ai nostri giorni tra i più celebri Economisti, in due campi, in due scuole si divisero; l’una il primato concedendo all’agricoltura, l’altra a questa anteponendo i commerci e le industrie; l’una vaticinando il definitivo trionfo dell’agricoltura, l’altra all’aspetto florido dei campi anteponendo il fervore, l’attività dei commerci e dell’officine. (V. Talmud Mezihà.)

Ma gli Esseni, e voi l’udiste, l’agricoltura onoravano ed esercitavano come esercitata ed onorata fu in progresso di tempo da illustri e famosi sodalizi che sul tipo dell’antico essenico istituto si modellarono nella Chiesa cristiana, a ritiro, a solitudine, a contemplazione. E non solo ricorda la storia onorata, e praticata da essi l’agricoltura, ma ricorda altresì lo studio che gli Esseni facevan solerte delle virtù e proprietà dei semplici, dei vegetabili specialmente in quanto potevano offrire di terapeutico, di curativo, dediti, come veduti li abbiamo, non meno a risanare gli spiriti che a restaurare nei corpi la perduta salute, siccome la doppia significazione ce lo avvertiva da bel principio del loro nome di Esseni o Essei, palesemente originato da quel di Assia medico e terapeuta. Nel quale studio ebbero non so dire se a imitatori o modelli la setta dei Pitagorici, che non solo della origine si occupò e della cura dei morbi, ma che lo studio e l’applicazione predilesse dei semplici e della musica, della prima specialmente, per la epilessia o morbo sacro, e per i morsi dello scorpione.

E che diremo dei Dottori? Se di questi volessi distintamente favellare, e se troppo la materia non soverchiasse, questo sarebbe il luogo di riandare quei molti e preziosi esempj che per entro si colgono alle pagine del Talmud, ove i semplici, i rimedj tratti dal regno vegetabile, si veggono studiati, celebrati e costantemente messi in opera dai più antichi Dottori; sarebbe il luogo di fare nell’ordine botanico ciò che il dottore Rabbino Levinson fece, non ha guari, rispetto alla zoologia, e dettare una Botanica talmudica siccome egli scriveva una Zoologia talmudica, che ebbe l’onore di essere letta e pubblicamente laudata dal principe dei naturalisti moderni, dal venerabile Alessandro di Humboldt.

Ma coteste sono opere meglio che lezioni, meglio che digressioni, e noi dobbiamo stimarci felici di costeggiare le rive anzichè ai pericoli avventurarci di lunghe navigazioni. – Ci basti che il Talmud, che i Medrascim ci porgono di questo studio e di queste terapeutiche applicazioni l’esempio, e sopratutto ci basti che l’uno e l’altra ci sieno porti dal Zoar. Il quale siccome quello che rappresenta il Cabbalismo e i suoi Dottori, meglio torna all’uopo opportuno per quella identità dimostrare, che è costante e prediletto argomento delle nostre lezioni. E che il Zoar ce lo porga, ne son testimoni quelle frequenti allusioni alla natura, alla proprietà delle piante, degli alberi in ispecie, e del palmizio segnatamente, del quale si descrivono le maravigliose proprietà sessuali così esattamente dai moderni chiarite, e presentite se io non erro, sino dall’antichissimo Empedocle, filosofo greco delle scuole antisocratiche: testimone il 2º vol. a pag. 15, ove si tenta una classificazione dei vegetabili improntata, non v’ha dubbio, di caratteri mistici, trascendentali, ma pure senza meno un tentativo di classificazione: testimone il fatto di cui vi feci non ha guari menzione, in cui di un medico si favella, di un Asia, che un libro possedeva preziosissimo per lo studio dei semplici, e per la cura dei morbi; e infine, testimone lo stesso 2º vol. a pag. 20, ove si parla in termini apertissimi della distillazione. Gran che! quando rilessi di recentissimo questa pag. 20, quando intesi a favellare di distillazione non era molto tempo trascorso dacchè le pagine aveva svolto di un trattato di Fisica elementare, ove con termini più che non era mestieri laconici, si attribuiva l’origine, l’onore della distillazione agli Arabi, ai Musulmani. Io dico il vero; quelle parole mi avevano tratto in errore: aveva creduto che gli Arabi, della distillazione inventori, fossero gli Arabi del Medio-evo, i conquistatori della Spagna e della Sicilia, i coetanei di Averroe o di Avicenna. Epperò dissi fra me: qual occasione, qual festa, qual trovato non sarebb’egli cotesto per gli anticabbalisti? Come facile il provare la età modernissima del Zoar che del moderno trovato favella, della distillazione? Perciò, che feci? Usai, perdonate la mia franchezza, usai un’astuzia; ma non temete; una pia e religiosa astuzia, pia et religiosa calliditas, un’astuzia innocente; scrissi all’illustre amico Professor Luzzatto, siccome a quello che più splende tra i moderni cospicuo per la guerra intimata al Zoar e ai Zoariti; e senza favellargli del Zoar e del suo contenuto gli chiesi semplicemente se nulla poteva dirmi della origine della distillazione; e se i libri rabbinici più antichi ne facessero, ch’egli sapesse, menzione alcuna. Mi rispose con quella sincerità che lo distingue: della distillazione non ne so nulla. Io non aveva nulla guadagnato; e i miei dubbj perseverarono, più che mai fastidiosi, quando una buona ventura venne a tempo a togliermi d’imbarazzo. Le indicazioni da me pur lette nel trattato di Fisica elementare erano incomplete. Non gli Arabi del Medio-evo, ma i più antichi loro predecessori, eran quelli di cui si era voluto favellare, e questi stessi appreso avevano l’arte del distillare dalle orde tartariche. Ecco il Zoar tutelato, ed ecco al tempo istesso riprova degli studj e delle cognizioni comuni tra Esseni e Cabbalisti.

 

Io dissi non ha guari come larga mèsse di cognizioni, d’idee mediche, potria dai libri talmudici raccòrsi e dalle opere contemporanee, e come tanta ne sia la copia, che da ogni particolar citazione mi saria rimaso. Pure egli è un passo tra mille che sarebbe colpa tacere, perchè più davvicino riguarda i nostri Esseni: che dico? egli è uno di quei pochissimi in cui a parer mio i Dottori alludono manifestamente all’Essenato ed ai suoi costumi. E dove è? È nel trattato Sciabbat a pag. 133, ove parlando di un farmaco composto di cera e resina e per non so quale malore indicato, si aggiunge che questa indicazione fu comunicata da Rabbà ai suoi uditori in un pubblico sermone, ma che (udite, significantissime parole!) a quella indiscreta propalazione, la scuola di Beniamino l’Asseo die’ segno di dolore e di sdegno squarciandosi persino le vesti, ch’è quanto dire, come io intendo, che uno dei farmaci che formavano parte della Materia medica riservata gelosa dell’Essenato fu propagato, vuoi a pubblico vantaggio, vuoi per indiscreta osservanza degli Statuti sociali, da Rabba in Mahoza, e tanto più mi confermo in questa sentenza, in quanto veggo lo stesso Raba nella stessa Mahoza, esporre al pubblico la misteriosa lettura del nome di Dio, ed esserne ripreso da un Sabà, da un Dottore anonimo, lo che prova e la indole di Rabà, e il suo sistema di propalare i segreti della scuola, e la presenza nell’uno e nell’altro caso, di persone, di Dottori che protestano contro la divulgazione delle dottrine sociali.

Ma di questo basti per ora. Bisogna dire degli altri offici a cui sacravano le ore i nostri Esseni, come detto abbiamo sinora, dell’agricoltura, dello studio dei semplici, e della pratica medica. Gli Esseni non abborrivano dai mestieri. Filone ci ammonisce come parecchi di loro si dessero ad opere manuali non isdegnando passare dallo studio al lavoro, e dal lavoro allo studio; ed altra e parlantissima analogia al tempo istesso offerendo coi più antichi e venerandi tra i Farisei. I quali ogni arte o mestiere reputavan nobile purchè onestamente esercitato: nè di tanto è mestieri che io vada oggi esempj accumulando, sì perchè è il fatto per se stesso notorio, sì perchè non è molto che fuori di qui ne parlai pubblicamente a disteso, esempj recando sì numerosi e autorevoli da persuaderne, se bene estimo, i più dubitosi. Ed altrettanto fecero pur essi gli Esseni al dir di Filone. Non sì però che certi mestieri severamente non s’interdicessero, nè a niuno di essi fosse dato rivolgere lo ingegno e la mano. E quali erano i mestieri interdetti? Ve lo dica Filone colle parole stesse del testo. «Tu, egli dice, non troverai tra costoro niuno artista che voglia lavorare intorno una freccia, un dardo, una spada, un elmo, una corazza, uno scudo nè di alcuna spezie di armi, di macchina, o strumento che serva alla guerra.»

Che vi dirò? Quando lessi queste parole in Filone io ringraziai Iddio, e lo ringraziai di cuore. Lo ringraziai in primo per avermi posto nella buona via inspirandomi il mio favorito sistema d’identità essenico-farisaica; e poi lo ringraziai di non avere comunicato vana infondata congettura ai miei uditori. E se di tanto lo ringraziai, ne ho ben d’onde. Perocchè egli è questo uno dei punti più culminanti ove Esseni e Farisei s’incontrano, si abbracciano, s’identificano. Come gli Esseni, aborrivano i Farisei, come un antico Baraita lo attesta, dal fabbricare, dal vendere, dallo affilare spade o armi qualsiasi, da vendere o fabbricare ceppi, catene, collari, ad uso di guerra; e se qualche contestazione si produce egli è a proposito degli scudi. – Ne vogliono gli uni lecita la vendita, la fabbricazione perchè armi sono puramente difensive. Ne vogliono gli altri interdetto lo spaccio perchè, notate singolare ricordo, perchè, dice il Talmud, quando nel bollor della pugna ogni arma è spezzata, è caduta, si suol non di rado battagliare cogli scudi; che dico? non è lo scudo soltanto che fu subbietto di disparere tra i Farisei, egli è il cavallo, il cavallo che per alcuno si dice strumento di guerra, per altri come tale non si qualifica. Vogliono i primi che venderlo non sia lecito, perciocchè, notate quest’altra storica singolarità, egli avviene non infrequente, dice il Talmud, che il prode cavaliero ammaestri il focoso animale a finire con calci e coll’orribile calpestare i nemici caduti in battaglia, e quindi a buon diritto estimare si debba bello e forte arnese di guerra, e terribile guerra. Ecco due capi soltanto intorno a cui si avvolsero discordi le dottrine, le opinioni farisaiche; lo scudo e il cavallo; pel resto per le altre armi o strumenti qualsiansi, che a strage, a schiantare, a oppressar possano essere rivolti, una fu la voce, una la sentenza per interdirne la fattura, la propagazione.

Nè qui si fermava lo scrupolo farisaico: vollero all’israelita interdetto il vendere ai Pagani orsi, leoni, pantere, elefanti, che facevano allora frequenti comparse negli stadj, nell’anfiteatro e nel circo, a sollazzo della plebe corrotta e servile; e sotto ai cui morsi, ai cui artigli cadevano trafitte, sanguinose, migliaja di vittime; vollero interdetta la cooperazione dell’Ebreo alla edificazione di quelle basiliche o tribunali ove si rendevano allora iniqui e ipocriti giudizj; di quei luoghi di supplizio ove tanti innocenti sostenevano crudeli martirj; di quegli stadj ove l’uomo contro l’uomo, o la belva contro dell’uomo venivano scatenati a trastullo di un popolo feroce e corrotto; e infine di quelle cupole balnearie che ornavano gli edifizi destinati ai pubblici bagni, e che la Misnà chiama chippà; volta o cupola dove pare che la imagine fosse sculta o dipinta di qualche paganica divinità, spesso di Venere afrodisea, come mi è dato dedurre da una preziosissima Misnà in Aboda Zarà. Ed egli è là che Raban Gamieil vediamo alle prese con un Proclo detto filosofo, che io dissi, se non erro, altra volta identico per avventura a quel Proclo che fu seguace di Iamblico e di Plotino nella schiera dei nuovi Platonici. – Questo orrore di ogni arme, di ogni strumento di omicidio vediamo altresì in due leggi, in due pratiche, biblica l’una, rabbinica l’altra, prova tra altre mille della medesimezza del genio, dello spirito che informa ambidue. È la prima la prescrizione che si legge nell’Esodo per cui a comporre l’altare di Dio, pietre s’impongono intiere e dal contatto immuni di ferro o scalpello: è l’altro il consiglio di rimuovere ogni ferro, ogni arma dalla mensa privata quando conchiuso il pasto ci accingiamo a benedire, appunto per quell’analogia che abbiamo altra volta notata tra l’altare e la mensa, nel concetto, nei principj e nelle pratiche eziandio di Esseni e di Farisei.

Ma questi abbiam veduto non solo abborrire dal nuocere al corpo, interdicendosi il commercio dell’armi, ma dal nuocere altresì allo spirito, ai costumi, astenendosi da por mano a basiliche, a cappelle, a tempj pagani. E del come osservassero il presente divieto, illustre ce n’offre un esempio lo storico Giuseppe, anzi Ecateo Abdiretano dallo stesso Giuseppe rammemorato nella risposta ad Apione, quando narra di un governatore di Babilonia per nome Alessandro, che volendo riedificare il tempio di Belo ed obligati avendo i suoi soldati a cooperarvi colla persona recando i mattoni necessarj allo edifizio, gli Ebrei furono i soli che a quest’opra si ricusarono; nè minaccie poterono nè castighi persuaderli; tanto che furono alla perfine dispensati. Nè meno scrupolosi osservatori ci appariscono infatto dell’armi, non solo ogni fabbrica o vendita interdicendosi di armi da guerra, ma anche il portarne indosso considerando qual disdicevole cosa. E chi lo dice? Egli è lo stesso Giuseppe che ce lo attesta e con parole non meno formali: «Dal divieto delle armi nasce, egli dice, che quando vanno attorno da una città in un altra, per i latrocini solamente si armano, e da questo caso in fuori niun’arme recano indosso.» Voi lo udiste, Giuseppe è esplicito. Gli Esseni non recano armi tranne in luogo di imminente pericolo. Ma ciò che non meno riesce esplicito, egli è la doppia bellissima analogia che ne offrono i Farisei e i Farisei Cabbalisti. La prima ci è offerta dalla Misnà, la seconda ci è porta dal Zoar. È la prima in Sciabbat laddove indagando quali sono gli arnesi d’impune trasporto fuor del recinto murato, s’interdice la spada, l’asta, la alabarda e non sì tosto mostra R. Eliezer di volere assolto chi li trasportasse, perchè egli dice tornano spesse fiate ad ornamento, che i Dottori ad una voce insorgono, e non ornamento, gridano, ma disdoro sono coteste, conciossiachè sia scritto. E nei giorni del Re Messia le spade saranno in vanghe converse, le aste in falci mutate, perchè le armi più non impugnerà popolo contro popolo, e l’arte disimpareranno del guerreggiare. Se l’Abate di S. Pietro, se Cobden, se Bright, se tutto il congresso della pace fosse stato a quei tempi, e Cobden e Bright e tutti i promotori della pace universale sariano stati Farisei.

Ma io dissi di un secondo esempio che il Zoar ci porge, e questo è di gran lunga più interessante perciocchè ci offre ad un tempo e la regola e l’eccezione; la regola di non impugnare le armi nei tempi e luoghi quieti, normali, la eccezione nei luoghi e nei tempi torbidi ed anormali, e l’uno e l’altro si veggono come dissi nel Zoar in un fatto ivi narrato. In cui R. Hja e Ribb Josè per via procedendo veggono un uomo venire a loro incontro. – Egli recava indosso un manto sacro ornato nei quattro angoli delle frange di obbligo. – Però sotto a quello si travedeva una cintura e dalla cintura pendergli di ogni maniera micidialissime armi. A quella vista sclama R. Hija: grande giusto è cotesto, o grande impostore – e qui notate come potesse e dovesse a senso di R. Hija essere giusto e pio in sommo grado cotesto che pure in sì strana guisa se ne giva armato di tutto punto. – Ma l’incognito si appressa, e salutato dai due Dottori, al saluto non risponde. Discostatisi dallo straniero i Dottori, ripigliano le dotte e sante consuete conversazioni. – Ciò che non potè il saluto poterono le parole sante dai Dottori profferite. A quel suono gli si fà lo straniero dappresso, e salutatili come l’usato: Deh mi dite, lor chiede, o Maestri, qual giudizio vi formaste della mia scortesia quando da voi salutato, al saluto non corrisposi? – Forse, dicemmo, pregavi, forse meditavi, ripresero i Dottori. Allora datosi a conoscere, prese lo straniero a narrargli le sue avventure; come andando un dì per cammino e imbattutosi in un masnadiero ne ricevesse molestia, come non conoscendo chi essi si fossero avere di essi pure sospicato, come da ciò provenisse il tacer suo, e dallo essere in quello istante immerso in qualche meditazione. E volendo dar loro prova, chi egli si fosse, prende a ragionare sur un verso dei Salmi ove si palesa veramente per ciò che era, per Dottore, e Dottore cabbalista. – Qual fatto e qual comento! qual comento dico all’uso, alla pratica da Giuseppe e da Filone narrata pei nostri Esseni, di non gire mai colle armi sulla persona tranne ove muovendo di luogo in luogo se ne munissero per propria difesa. – E qual eloquente conferma della identità essenico-cabbalistica, se ben si mira agli autori del Zoar ignari al tutto della esistenza degli Esseni se essi medesimi nol sono, e quindi alla impossibile imitazione! Nè più bella infine potrebbe sorgere presunzione in favore dell’autenticità di quel libro ove schiette e genuine si son dipinte le figure, i costumi delle sètte contemporanee, tali quali il nostro tardissimo confronto li fa sorgere dopo 18 secoli vivi e parlanti al paragone, e che niuna impostura avrebbe potuto togliere a contraffare perchè mancava il tipo istesso da imitare nella mente del falsario, nulla cognizione particolare avendo avuto i posteriori Dottori dell’antica società degli Esseni, e nulla quindi di essi avendo potuto prendere ad imitare. – Bacone diceva: Poca filosofia fa l’uomo incredulo, molta lo fa religioso. Noi diremo a nostra posta: Poca critica fa credere apocrifo, falsato lo Zoar, molta critica lo chiarisce autentico.