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Read the book: «La montanara», page 16

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– Ora! – esclamò il vecchio Guerri. – Ma poi?

– E poi come ora; – replicò l'animosa fanciulla. – Ne dubiti? Lo giuro per te, e possa io non veder più la faccia di mio padre, se mi avverrà di spargere una lagrima. Vuoi di più? – soggiunse, animandosi, in quella amara voluttà di sacrifizio. – Se è vero quello che ti hanno riferito di lui… meglio così! Lo zio Orlando, per celia, vedendomi sempre coi libri per le mani, mi chiama qualche volta la romantica. Orbene, credilo, padre mio, leggendo molto i nostri poeti, ho veduto molte eroine, e mi son dispiaciute tutte ad un modo. Son donnicciuole, finalmente, povere creature deboli che il capriccio degli autori ha poste in condizioni difficili, e in cui le ha mantenute qualche tempo, ma senza merito loro. Son donnicciuole, ti ripeto, quando non sono fantasmi senza un'oncia di sangue. Era piuttosto necessario l'esempio d'una donna vera, capace di soffrire in silenzio, e di custodire entro l'anima il suo dolore, come un balsamo, come un'aroma prezioso. Sarò io quella donna. Va, padre mio, e non si parli più di queste tristezze fra noi. —

Il signor Francesco baciò ancora una volta sua figlia; poi si ritrasse, piangendo. La creatura debole, in quel punto, era egli, quel vecchio re della montagna, avvezzo ai geli del Cimone, provato, come diceva sua figlia, a tutti gli affanni della vita. Ma di questa debolezza lo scusava largamente il suo affetto paterno.

Aminta, dopo quel colloquio di suo padre con sua sorella, non poteva più esser tenuto al buio d'ogni cosa. Già nel silenzio del conte Gino egli aveva fiutato un cambiamento d'idee; ma taceva, anch'egli aspettando, e divorava la sua rabbia. Come seppe finalmente del matrimonio di Gino, non ci vide più lume e minacciò di farne una delle sue. Lo rattenne suo padre con fiere parole; lo calmò un poco Don Pietro con amorevoli esortazioni. Egli stesso, il buon prevosto delle Vaie, sarebbe andato a Modena, per informarsi di tutto. Forse non era vero niente di ciò che avevano detto a Pellegrino, e il silenzio ostinato del conte Malatesti poteva aver ragioni che di lassù non era dato indovinare.

Intanto, bisognava dir qualche cosa al cugino Ruggero. Ma qui, fosse o non fosse ammogliato il conte Malatesti, la risposta non poteva essere che una. E si prese il triste incarico di darla il signor Francesco, in quel medesimo giorno che aveva parlato a sua figlia.

– Vostro padre vorrebbe; – diss'egli al suo giovane parente; – ed io, figuratevi, non vorrei meno di lui. Ma la nostra parola era già impegnata.

– Col conte Malatesti? – chiese arditamente Ruggero.

– Sì; come lo sapete?

– Lo avevo immaginato fin dalla mia prima venuta; – rispose il giovane, con molta semplicità. – Ma poichè quell'altro si è ammogliato con una Baldovini… credevo di potermi avanzar io.

– Come sapete che ha preso moglie? – gridò il signor Francesco, che una notizia così certa non l'aveva neppur egli.

– Mi han detto… – balbettò Ruggero. – Ma in verità non ne so nulla. Eccovi almeno ciò che è giunto al mio orecchio: che il conte Gino Malatesti si ammogliava. Io, allora, ricordando di aver conosciuto qui il signor conte, e immaginando che potesse trattarsi di un altro matrimonio, domandai con chi, e mi fu detto il nome di una marchesa Baldovini. Allora pensai: non era dunque vero quello che io avevo sospettato? E perchè appunto in questi giorni mio padre mi aveva accennati certi suoi disegni, anzi era sospeso tra due proposte, una di Modena e l'altra di Reggio, mi son fatto coraggio e gli ho detto:

– Sentite, padre mio; se mi fossi ingannato, l'altra volta, alle Vaie!.. e se la nostra parente Fiordispina fosse ancor libera!.. – A mio padre non è parso vero, perchè infine l'idea di questa alleanza l'aveva avuta lui, e l'aveva sempre vagheggiata. Ed ecco, mio buon cugino, – conchiuse malinconicamente Ruggero, – ecco perchè son ritornato qua, a fare un altro viaggio inutile.

– Povero ragazzo! – esclamò il vecchio Guerri. – Come siete buono, Ruggero, e come meritate di esser felice! Credete pure che io sono dolentissimo di non potervi chiamare mio figlio. Del resto, lo scriverò molto chiaramente a vostro padre, ringraziandolo dell'onore che ci ha fatto e dicendogli le cose come stanno. Mia figlia ha un suo modo di vedere, che sembrerà forse un po' strano, ma che in fondo ha persuaso anche me. Un altro padre vi tacerebbe la vera ragione; io voglio dirvela, anche per appagare il desiderio di Fiordispina. Ella si ritiene fidanzata al conte Malatesti. Se il conte ha dimenticato le sue promesse, peggio per lui, che ha mostrato di non meritarla. Ma nel fatto ella sarebbe… come ho da dire?.. un partito ricusato. E in questo caso (è mia figlia che parla) non si debbono accettare da un Guerri i rifiuti di un Malatesti.

– Rifiuti! Rifiuti! – borbottò il cugino Ruggero. – Son certi rifiuti, questi, di cui si contenterebbe un principe.

– Ho piacere che la pensiate così! – gridò il signor Francesco prendendo la mano dell'Ercole adolescente e stringendola forte tra le sue. – Perchè infine, la parola è di mia figlia, e va intesa con discrezione. —

Sospirò, così dicendo; ed era un sospiro, il suo, che esprimeva due sentimenti, uno di dolore e l'altro di soddisfazione. Soddisfazione momentanea, se vogliamo, mentre il dolore era continuo. Ma anche nel dolore sono i momenti di sollievo; quando, ad esempio, ci si dimostra con una buona parola che quel dolore è inteso, e che la nostra sventura non può avvilirci agli occhi di nessuno, perchè essa è della specie più nobile, e perchè infine non ce la siam meritata.

Quel giorno medesimo il cugino Ruggero partì dalle Vaie, calmo, tranquillo, sereno in apparenza, come era già partito una volta. Non lo giudicate severamente, vi prego. Sentiva anch'egli, e non meno profondamente di un altro; ma sentiva da uomo giovane e sano, che è sempre vissuto tra i monti, lontano dai piagnistei e dalle teatralità della vita cittadina. Sarebbe stato felicissimo se Fiordispina gli avesse detto di sì; ma non avrebbe intuonato un inno, nè spiccato un salto d'allegrezza, come faremmo noi, gente sensibile e nervosa. Gli avevano detto di no, in modo semplice e cortese, tale da non offendere la dignità della sua casa, nè il suo amor proprio di giovanotto, e ne sentiva un gran dispiacere; ma non era abbattuto, non piangeva, non rotava gli occhi, non digrignava i denti, non si disperava, come faremmo noi, gente… Vi ho detto già che gente siamo, e non ripeterò gli aggettivi.

Poi (perchè non dire anche questo?) ci sono gli uomini che parlano molto, e quei che parlano poco. Il cugino Ruggero apparteneva alla seconda categoria. Nella sua taciturnità aveva inoltre i conforti del pensiero, e materia a molti pensieri gliene offriva la novità del suo caso. Figuratevi che era partito da casa sua con tre partiti in vista. Egli veramente preferiva sua cugina, che conosceva già e che avrebbe amata moltissimo, quando fosse diventata sua moglie. Ma, perduta la speranza di aver quella, gliene restavano altre due, fra le quali poteva scegliere, altre due che non conosceva affatto, ma che avrebbe vedute, prima di ritornarsene a casa. Suo padre, infatti, gli aveva parlato così: – Tu andrai prima alle Vaie, e farai quest'altro tentativo coi nostri parenti; ma poi, bada, io non voglio che si perda altro tempo. Se è un no, o se non è un sì tanto fatto, come dobbiamo volerlo noialtri, scendi subito a Modena e vedi quell'altra; poi, essendo tutta strada, passi a Reggio e vedi quell'altra ancora. Son figliuole di nostri amici tutt'e due; gli affari ti danno il pretesto di una visita. Così, veduta la seconda e veduta la terza, ritornerai a casa, mi dirai quale ti sarà piaciuta di più, e noi risolveremo, con cognizione di causa. —

Uomo saggio, il signor Guerri del Reggiano, e che non amava andar per le lunghe; viva l'anima sua! È così piacevole aver da trattare con persone di questa fatta! Sì, sì, no, no; e avanti, senza perdersi in chiacchiere.

Ruggero, adunque, salutò i suoi parenti delle Vaie, li ringraziò delle amorevoli accoglienze, chiese i loro comandi per Modena, e partì. Con lui, approfittando della buona occasione, partiva un altro personaggio, il vecchio prevosto delle Vaie. Gran novità, come vedete, e gran meraviglia tra i suoi parrocchiani.

Capitolo XIV.
Consolatore e giudice

Don Pietro era veramente addolorato. Si poteva dire che non lo fosse mai stato tanto per sè, come lo era per i suoi amici. Ma in quel rammarico non c'entrava anche un pochino di suo? Anch'egli, se ci pensava, anch'egli era stato ingannato da quella faccia d'angelo Gab… Ah, non angeli, nè santi, in paragone con gli uomini! Aveva ripreso Pellegrino, e non doveva cascar egli nel medesimo errore.

Povera fanciulla, così bella e così buona, così degna di esser felice! Se il conte Gino andava sposo ad un'altra, la bella Fiordispina non sarebbe stata felice mai più. Egli la conosceva, oramai. Se la fanciulla aveva detto a suo padre: «rimarrò a governare la casa» si poteva star certi che avrebbe fatto così. Se aveva promesso di non versare una lagrima, si poteva giurare che avrebbe mantenuta la sua promessa. Non avrebbe pianto, no; il cuore le si sarebbe spezzato, ma il suo volto non avrebbe tradito lo schianto. Quello che Fiordispina diceva, si poteva prendere per Vang… Ah, triste mania dei paragoni! Don Pietro si morse la lingua per punizione.

– Infine! – conchiuse, cercando una scusa al suo fallo. – È un modo di dire. Quella buona fanciulla non ha mai mentito; è l'innocenza, è la verità personificata. —

Il pretesto con cui Don Pietro partiva per Modena era la compera di certi drappelloni per la chiesa parrocchiale. Quelli che c'erano, li aveva trovati entrando in uffizio, e fin d'allora già vecchi, stinti e sgualciti. Immaginate come fossero diventati in quegli ultimi tempi. Eppure, il vecchio prevosto avrebbe tirato innanzi con quelle anticaglie ancora per un paio d'anni, pensando che i suoi parrocchiani non badavano a certe apparenze. Ma poichè a Modena doveva andare, i drappelloni fornivano facilmente la scusa.

Da vent'anni Don Pietro non era più sceso alla capitale del ducato. E che ci sarebbe andato a fare, semplice di costumi e privo di bisogni com'era? Già, cala mal volentieri al piano chi vive in excelsis, e non ha nessuna curiosità della terra chi vede i cieli vicini. La città si era abbellita, sicuro; glielo dicevano tutti, ed egli lo credeva facilmente. I marchesi Frassinori avevano fatto restaurare la facciata del loro palazzo; una facciata del Tignola, che i nuovi stucchi rendevano due tanti più goffa. I conti Ansiglioni avevano fatto dipingere sopra un muro, in fondo al cortile, una magnifica prospettiva, una fuga di colonne, con alberi e un po' di cielo attraverso. Veduto dall'ingresso del portone, quel colonnato, con quello sfondo di giardino e di cielo, dava l'illusione del vero. Ottimamente! Di queste e d'altre bellissime cose Don Pietro sentiva parlare, ma non gli entrava mai nell'anima la curiosità di vederle.

Un viaggio lo avrebbe fatto volentieri, prima di morire; il viaggio di Roma, della eterna città. Ma dipendeva da certe circostanze, quel viaggio, e Don Pietro aveva fatto a quel proposito un voto, che teneva chiuso gelosamente nel cuore. Non se n'era aperto mai con nessuno, neanche col signor Francesco Guerri, con cui pure non voleva aver segreti. «Quando l'Italia sarà libera e unita, con Roma per capitale, e lo Stato in pace con la Chiesa, andrò a sciogliere il mio voto sulla tomba del principe degli Apostoli.» Così aveva parlato a sè stesso il vecchio prevosto delle Vaie. Rosminiano in gioventù, e acceso di entusiasmo per il Nuovo saggio sull'origine delle idee, si era anche innamorato della gran sintesi giobertiana, ed aveva anch'egli intravveduta un'eco di concordia religiosa e politica in una applicazione dei concetti che ispiravano l'opera del Primato morale e civile degli Italiani. Ma che cosa non aveva sperato egli di pacificare e di concordare, dal suo alpestre ritiro delle Vaie? Perfino quei due grandi filosofi, che se n'erano dette tante nel corso di dieci o dodici anni, palleggiandosi anche l'accusa di panteista. – Infine, diceva egli, sono idealisti tutt'e due. C'è poi tanta distanza dall'ente ideale, astratto, possibile, indeterminato, in cui il Rosmini vede il primo psicologico, e l'ente reale, concreto, infinito, che è il primo ontologico del Gioberti? Due pensatori che cercano Dio! Lasciateli fare; sono ambedue sulla medesima strada, e si toccano col gomito più ch'essi non credano. —

Frattanto, era invecchiato con la voglia di Roma. I due grandi filosofi erano morti, punto pacificati tra loro: uno di essi in odio alla Curia, l'altro a mala pena tollerato in un freddo «Dimittantur opera» che accennava ad una tregua, ad una sospensione d'armi, anzi che ad un patto d'alleanza tra le idee moderne e lo spirito antico. Anche le speranze d'Italia, così vivaci nel 1848, erano andate a male, per diffidenza di principi e per discordia di popoli, nè si vedeva quando potessero rinascere. Nulla appariva in aria, o si sperdeva al primo soffio di vento. Chi sarebbe stato così forte, o, essendo pur così forte, si sarebbe mostrato così animoso, da accettar la difficile impresa di collegare tanti sparsi voleri? Don Pietro, qualche volta, per disperato, esciva in certi voti terribili, invocando da Dio un solo governo, ed austriaco, da Milano a Palermo. – Ah, se l'amore scambievole e se la cura del futuro non vi possono unire all'opera santa, – diceva egli tra sè, – vi unisca in uno sforzo violento l'odio di un comune oppressore. —

Intenderete ora come e perchè Don Pietro Toschi non fosse andato a sciogliere il suo voto sulla tomba del principe degli Apostoli. Oramai, desiderando sempre, non sperava più nulla. Quanto a Modena, che ci sarebbe andato a fare? Non sentiva nessun desiderio di veder da vicino il governo del Duca. Bene aveva corso il rischio di esser chiamato alla città, per ricevere nella Curia vescovile una solenne lavata di capo. Ma quella burrasca era passata, e ci voleva un altro dolore per condurlo laggiù.

Ecco dunque il buon prevosto delle Vaie che entra in città, in una grande città, dopo vent'anni di vita ristretta al suo borgo campestre. Quante volte non vi sarà accaduto di vederlo, il prete di montagna, per le vie cittadine, dove pare una dissonanza, assai più del medesimo contadino con cui vive, e a cui dice la messa! Il prete di montagna lo riconoscete subito, qualche volta al suo nicchio spelato, al suo soprabitone stinto, luccicante sulle costure, qualche altra alle grosse scarpe munite di fibbie enormi, alle calze di lana, rugose e nodose, e simili altri difetti del suo vestiario trasandato, ma sempre alla sua andatura semplice, allo sguardo attonito, al viso arsiccio e screpolato, dove gl'inverni e le estati han giuocato a chi tagliasse di più. Quella figura vi parrà stupida e goffa, accanto a quella del prete di città, che passa svelto, a piccoli passi, con la mantellina raccolta in armoniche pieghe sul braccio, guardandosi appena d'attorno, e di tanto in tanto incurvando l'indice verso la fronte, per prendere il suo nicchio nero e lucido e rispondere al saluto della gente. Quando il prete di città s'imbatte per via in un prete di montagna, non c'è caso che lo guardi o lo saluti; non c'è spirito di corporazione, non c'è vincolo, non c'è relazione di gerarchia tra quelle due autorità. Ma lo guardiamo noi, il prete di montagna; e sorridiamo, guardandolo, e un diavolo che vorrebbe parere arguto ci bisbiglia all'orecchio: – domandagli un poco come sta Perpetua. —

Poveri preti montanini, poveri sacrificati! Son essi, infine, che celebrano nei luoghi altissimi, come l'antico Melchisedec; son essi gli unici consolatori di tanto popolo afflitto. Perchè, badate, in città, quando siete ammalato e triste, non vi mancano i conforti, le assistenze e gli aiuti; lassù il contadino non ha che il suo parroco. Non sono la gente più felice del mondo, i montanari, e l'aria purissima che spira sulle alte convalli penetra in un soffio gelato da tutte le fessure della casa, da tutti i buchi del tetto. Sta bene che se ne contentino: che una panca dalla spalliera alta, davanti al focolare, una paiuolata di castagne, un pezzo di polenta, o di pattona, o di pan di veccia, bastino al loro bisogno. Le legna costano poco, a mala pena la fatica di raccoglierle; il cibo è gramo, ma sano, e li tien magri come cani da caccia: avanti dunque, avanti sempre così. Dio concede loro anche le gioie della famiglia; che cosa si vorrebbe di più? Sicuro; ma quando la moglie è sopra parto, dov'è la levatrice, che l'assista? Quando la bambina è inferma, e le arde la fronte, e un punto bianco si forma e cresce nascosto nella cavità della gola, dov'è il medico che curi in tempo l'angina difterica? Qualche volta ce n'è uno in condotta, e per tre comuni ad un tempo; e va, e trotta tutto il santo giorno, quel poverino, ma senza bastare a tutti i bisogni. Poi, ci sono i malati a cui occorrerebbero due visite al giorno, ed è bazza se la famiglia del montanaro ha il medico una volta per settimana. Aggiungete che la medicina ordinata lì per lì domanda un viaggio, spesso di notte, per vie scoscese, sotto il flagello della pioggia, o dentro il turbinìo della neve che accieca. Ne passo, e delle peggio. La società è matrigna col montanaro; non le basta di lasciarlo ignorante; ha ancora da mantenerlo infelice. Vedete la Chiesa; essa non lo abbandona, e se pure non può far nulla, pochissimo, per il suo bene materiale, si occupa almeno della sua pace spirituale. Dove noi non mandiamo più un maestro, nè un medico, contenti di mandarci a certe scadenze un esattore, ella manda a vivere un parroco, un prevosto, un arciprete, un pievano, un rettore. Chiamatelo come volete, è un amico per tutti quei derelitti, e li consola tanto più facilmente, in quanto che le sue consolazioni le distribuisce in latino.

Don Pietro Toschi, prevosto di montagna, è a Modena. Vedrà finalmente il conte Gino Malatesti. Ringrazia il giovanotto che lo ha accompagnato fino in città; si congeda brevemente da lui; non ha bisogno d'altro, poichè conosce la strada del Vescovato. Capirete che la prima visita di Don Pietro è per Monsignore, per il suo ordinario. È ricevuto dal segretario. Non ha niente da chiedere, soltanto da ossequiare, ed è presto ricevuto anche da Monsignore. Ossequi, genuflessioni, bacio all'anello episcopale, tutte queste cose s'immaginano facilmente. Poi il vescovo domanda notizie di Fiumalbo, della chiesa delle Vaie, dello spirito di quelle popolazioni; conforta il buon prevosto a perseverare, e gli ripete anche il «pasce oves meas» degli Atti apostolici. Di ramanzine, di lavate di capo, di accenni alla festa del Lago, neanche l'ombra. Evidentemente, il vescovo di Modena non ha saputo nulla di nulla. L'inchiesta famosa, l'inchiesta terribile del signor commissario, è rimasta a dormire negli scaffali della direzione di polizia; forse, non c'è nemmeno arrivata. Tanto meglio, perbacco! Altre due chiacchiere sui tempi guasti, sul bisogno di certi restauri al Duomo, che Don Pietro vedrà, appena uscito dall'udienza episcopale, e una benedizione congeda il visitatore. In mezz'ora, Don Pietro s'è sbrigato di quell'ufficio preliminare; se ne va in Duomo a pregare; poi si mette in viaggio, per trovare i suoi drappelloni. Ci sono i mercanti da ciò, ed egli non deve cercar molto; il curato del Duomo gli ha dato gli opportuni recapiti.

Frattanto il buon prevosto prende lingua. Dov'è il palazzo Frassinori, che è stato decorato di una nuova facciata? Da tanti anni non ha più veduto Modena, e vorrebbe, poichè finalmente gli è accaduto di ritornarci, fare un viaggio e due servizi, comperare i drappelloni per la chiesa parrocchiale delle Vaie e dare una guardata a tante belle novità modenesi, di cui gli han detto mirabilia. Dov'è il palazzo Ansiglioni, che ha nel cortile una così bella prospettiva? Dov'è il palazzo Baldovini, celebrato fra i più insigni della città? Dov'è il palazzo Malatesti, che gli hanno citato ancora come un esemplare di severità architettonica?

Capirete che di tante indicazioni gliene premeva una sola, e quella sola ritenne. Il palazzo Malatesti era anche vicino al Duomo, nella via di S. Eufemia. E lo vide subito, e lo guardò lungamente, passando. Dunque viveva là dentro il signor conte Gino? E per parlare al suo giovane amico, al confinato di Querciola, all'ospite delle Vaie, non aveva da far altro che infilar quell'androne, e dire il suo nome al portiere gallonato, in fondo alle scale?

Ma no, egli non sarebbe entrato là dentro. Con qual fine, oramai, e con quale utilità avrebbe cercato di parlare al conte Gino? Poc'anzi, il curato della cattedrale gli aveva data una triste notizia. Egli stesso, il signor curato aveva congiunti in matrimonio il conte Gino Malatesti e la marchesina Elena Baldovini. Da quel fausto giorno ne erano già passati quaranta, e gli sposi felici erano già ritornati dal loro viaggio di nozze. Che trafittura per il cuore di Don Pietro! No, egli non voleva più vedere il conte Gino; non sarebbe andato a cercarlo; avrebbe ripresa la via dei monti, rinunziando volentieri anche alla triste soddisfazione di farlo arrossire. Sospirò, il povero prete, dopo aver fatta quella risoluzione, e se ne andò dal mercante a cui lo aveva indirizzato il suo collega del Duomo. Ma nelle attraversare la piazza Grande, per andarsene sul corso di Canal Chiaro, dov'era la bottega indicata, Don Pietro non poteva astenersi dal ricordare tratto tratto la biblica sentenza: «Maledictus homo qui fidit in homine!»

Vi è mai accaduto… Ma perchè vi domando io una cosa tanto naturale! Certamente vi è accaduto, e più volte, di cercare una persona per ore e per giorni, senza combinarla mai, nè in casa, nè per via; poi di imbattervi in essa, al primo angolo di strada, quando avevate smesso di cercarla, o non v'importava più di vederla. Il caso toccò per l'appunto a Don Pietro. Egli si era avviato da piazza Grande al corso di Canal Chiaro, quando alla prima svolta della strada gli occorse di dover cedere il passo ad un signore, che veniva sullo stesso marciapiede, e che si disponeva ad usargli la medesima cortesia. Affrontati, si guardarono necessariamente, volendo cansarsi a vicenda.

– Conte! – esclamò il vecchio prevosto.

– Don Pietro! – esclamava Gino.

Nè altro disse, turbato com'era. Ma prese con affettuosa reverenza la mano del suo vecchio amico e lo trasse in mezzo alla via.

– Dove va? – disse poscia, non trovando una frase migliore, per attaccare il discorso.

– Qui presso, per una commissione.

– Non può rimandarla?

– Ma… – balbettò Don Pietro, che non vedeva la utilità di una conversazione con lui.

– Via, si lasci trattenere! – riprese Gino. – Se non si tratta di una cosa urgente, si degni di venire a far due passi con me.

– Le pare, signor conte? – disse di rimando il vecchio prete. – Non siamo mica più alle Vaie! —

Il conte Gino si rannuvolò, udendo ricordare quel nome.

– Perchè mi dice questo? – esclamò.

– Perchè qui, a Modena, – replicò Don Pietro umilmente, – fra tante persone civili, al fianco di Lei, elegantissimo cavaliere e conosciuto da tutti, stonerebbe un poco la mia giubba montanara.

– Dica piuttosto che sarà sempre bene andare in luogo meno frequentato; – mormorò Gino, sospirando. – I curiosi son tanti! Andiamo dunque da quella parte, se non le spiace.

– Dove?

– Accanto al Duomo. Sull'ingresso della chiesa, non parrà strano che l'elegantissimo cavaliere si fermi a parlare col ministro di Dio, ancorchè sia montanaro, come Ella dice.

– E andiamo! – rispose Don Pietro, mettendo fuori un lungo sospiro.

Che cosa aveva da dirgli, il conte Gino Malatesti, e che a lui fosse ancor utile di sapere? Don Pietro non poteva immaginarselo; indovinava per altro che avesse da dirgli molto, e che sentisse ancora di non essere indegno di perdono, poichè non aveva sfuggito il colloquio, anzi mostrava di desiderarlo tanto.

Cionondimeno, da quell'ottima pasta d'uomo ch'egli era, Don Pietro Toschi reputò conveniente di non tenere il suo compagno in angustie.

Andò anzi incontro alle sue confidenze, dicendogli:

– Ho notizie dei signori Guerri, che Ella certamente ricorderà. Stanno tutti bene, e l'altro giorno hanno celebrato l'onomastico del capo della famiglia. Se ne rammenta? Il quattro di ottobre era la festa di san Francesco. Non mancava che Lei, e fu doloroso che si dovesse aspettarla inutilmente. —

Gino, a quelle parole, si fermò sui due piedi, guardando in viso il compagno.

– Mi aspettavano! – diss'egli, commosso.

– Certamente; – rispose Don Pietro. – Non aveva Ella promesso di venire per quella occasione alle Vaie? È vero, – soggiunse il prete, tentennando la testa, – che molte cose aveva promesse… —

Gino badò poco all'accento di triste ironia, con cui Don Pietro aveva proferite quelle ultime parole.

– Ma che cos'è dunque avvenuto? – gridò egli, interrompendolo. – Le mie lettere al signor Francesco?..

– Ne ha Ella mai scritte? – domandò con piglio ironico il vecchio.

– Tre, rimaste tutte senza risposta. Confesso, – soggiunse Gino, – che non erano liete; confesso che esponevano al signor Guerri una condizione di cose molto difficile per tutti, e che forse perciò era da argomentare che la famiglia Guerri volesse lasciare a me tutto il carico di una risoluzione incresciosa. Cionondimeno, e persuaso già di questa necessità alla seconda mia lettera, scrissi ancora la terza.

– Non ricevuta, – disse Don Pietro, – come non furono ricevute le altre due.

– Possibile? Eppure, sospettando di tutto e di tutti, le due prime le avevo consegnate io medesimo alla posta; e la terza, poi, per maggiore sicurezza, andai ad impostare a Bologna, dove mi chiamavano i tristi preparativi delle mie nozze. Potevo io credere che neanche quella giungesse alla sua destinazione? Ma è orribile, sa? – gridò Gino, infiammandosi via via, quanto più pensava alla gravità della cosa. – È orribile, questa congiura, ordita contro di noi. Neanche il segreto dell'anima mia fu rispettato! Non mi fu dato neppure di dir le ragioni per cui operavo contro i voti del mio cuore, contro la stessa mia felicità! E mi si è fatto passare agli occhi dei signori Guerri per il più sconoscente, per il più vile degli uomini!

– Signor conte, – mormorò Don Pietro, – non teme che questa sua esaltazione possa essere notata? Qualcheduno che passa, anche senza udire le sue parole, può osservare i suoi gesti. Si calmi, la prego, si calmi!

– Ah, vedano e osservino pure tutto quello che vogliono. Nessuno giungerà a vedere che inferno ho qua dentro.

– Eppure, è necessario che Ella si calmi; – riprese Don Pietro. – La prudenza lo vuole.

– Prudenza! Perchè? Non c'è più ragione di temere, oramai.

– Che so? – disse Don Pietro. La polizia ha cent'occhi e cento orecchi.

– E n'abbia mille! – rispose Gino. – Ho comperato a caro prezzo il diritto di non temerla più. Mia suocera è potente; – soggiunse egli, con un amaro sorriso; – mia suocera ha nelle sue bianche mani il cuore del ministro; è la padrona di Modena, lei! Fa ciò che vuole! Non ha fatto di me, di me, capisce? non ha fatto di me il marito di sua figlia? Ah! Tutto avrei creduto possibile al mondo, anzi che questo, che io conducessi in isposa la figliuola di Polissena Baldovini. Ah, mio buon amico, mio padre, se sapesse quanto ho bisogno di sfogarmi con Lei! Non è forse Dio che l'ha mandata? Ho molto sofferto, Don Pietro, e soffro ora più che mai. Perchè, infine, se lassù… alle Vaie… non sanno per quali terrori, per quali angosce è passato il mio cuore, io sono un uomo disonorato, mi capisce. Don Pietro? disonorato!

– Povero signor Gino! – esclamò il vecchio prete. – Ella mi spaventa, ora, con la sua esaltazione.

– Voglio raccontarle tutto! – riprese Gino. – Anche Lei mi avrà giudicato male. Anche Lei mi avrà disprezzato. Ebbene, Don Pietro, io non merito il suo disprezzo; merito la sua compassione; merito il perdono dei suoi amici, che non ardisco più chiamar miei dopo ciò che è avvenuto. Senta! – soggiunse il giovanotto, con l'atto e l'accento di un uomo alla cui mente si affacci un'idea improvvisa, che dovrà signoreggiarlo, – mi crede Ella un uomo serio?

– Ma sì, la credo tale, non ho mai creduto altrimenti di Lei; – rispose Don Pietro.

– E aggiunga, – riprese Gino, – e aggiunga: incapace di commettere un sacrilegio. Perchè sarebbe un sacrilegio, non pure per me, ma per un miscredente, per un ateo, abusare con Lei del suo alto ministero, e della opinione che Ella ne ha.

– La credo incapace di ciò; – rispose ancora Don Pietro. – A che vuol venire, con queste proteste?

– Or ora vedrà; – disse Gino. – Entriamo in chiesa, e riceva la mia confessione. Non può ricusarmelo, Don Pietro! Ella verrebbe meno al suo ufficio di consolatore e di giudice. Venga! —

La voce e il gesto tradivano la commozione violenta dell'animo. Don Pietro temette che, ricusando egli ancora, potesse accadere di peggio.

– Andiamo! – diss'egli. – Ella non avrà invocato inutilmente il mio ufficio di consolatore. Quanto al giudice, – soggiunse, – egli è molto più in alto. —

Gino Malatesti si calmò a grado a grado, seguendo il vecchio prete nell'antico duomo di mastro Lanfranco e della contessa Matilde. Le tre vaste navate, partite da colonne e pilastri alternati, che ricordano nella robusta fattura gli ultimi anni dell'undicesimo secolo, erano deserte in quell'ora, e una luce fioca penetrava dall'alta galleria di colonnini sostenente la volta ogivale del tempio. Don Pietro andò alla sagrestia, per rivestire gli abiti sacri. Era nella chiesa metropolitana della sua diocesi, e poteva confessare colà, come ogni altro ministro del santuario. Gino Malatesti lo vide ritornare, e tosto lo seguì verso un confessionario, dove s'inginocchiò alla grata, con un aspro desiderio di versare nel seno amorevole di Don Pietro, del prevosto delle Vaie, del confessore di Fiordispina, tutta la piena delle sue afflizioni.

Ciò non vi parrà troppo conforme alla solennità dell'atto religioso. Ma perdonate, io descrivo un uomo, con tutte le sue passioni, e con tutte le contraddizioni che la passione comporta, che la passione richiede.

E disse, nell'impeto della passione e del dolore, disse lungamente, il povero Gino Malatesti, con voce soffocata spesso dalle lagrime, com'egli fosse venuto riluttante ad accettare la legge altrui, a compiere il sacrifizio di tutte le sue affezioni, della sua dignità, dell'onor suo. Già, fin dal primo colloquio che aveva avuto con suo padre a Sassuolo, si era persuaso della impossibilità di vincerne l'animo, di renderlo propizio ad una alleanza coi Guerri. Avrebbe potuto resistere, sì, certamente; ma, nella condizione in cui era, non lo doveva già più. Sospettato dal governo ducale, mal perdonato, e solamente per grazia della famiglia, non avrebbe egli con la sua costanza procacciato persecuzioni e danni gravissimi ai suoi amici delle Vaie? Ma questo non era ancor tutto. A lui, quantunque mal perdonato, non avrebbero torto un capello; in vece sua, per ciò che era avvenuto nella festa del Lago, sarebbero stati processati e puniti i Guerri, e non solamente essi, ma ancora quanti altri avevano preso parte alla festa. Appena ritornato a Modena, aveva infatti conosciuto fin dove giungesse il mandato del commissario di polizia. E proprio allora, lasciandogli intendere quanta parte potesse avere una sua risoluzione nella sorte dei Guerri, gli era stato imposto di chiedere la mano della giovane Baldovini. Del resto, che chiedere? Già il conte Jacopo, suo padre, l'aveva chiesta per lui; non si trattava più d'altro che di accettare quanto aveva fatto suo padre. Si decidesse, adunque; sarebbe finita male per i suoi amici, per i re della montagna, se non avesse appagati i desiderii, obbedito ai voleri della marchesa Polissena. Costei, per ragioni che oramai tornava inutile il dire, voleva il matrimonio di Gino Malatesti con la sua figliuola. Lei potente in Modena; lei padrona del cuore del ministro; da lei dipendeva che i Guerri fossero molestati o non fossero. Nè tuttavia il conte Gino si era arreso agli argomenti del padre; si schermiva ancora contro gli assalti della marchesa Polissena; difendeva con ogni sforzo la sua felicità minacciata. Ma il commissario era ritornato da Fiumalbo; la sua relazione, piena di fatti, e più di bugie, conchiudeva per la massima severità contro i Guerri, di cui si riferivano altri discorsi, e gravissimi, oltre quelli che erano stati tenuti nella festa del Lago. Anche il conte Gino aveva letto quel documento, poichè gli era stato posto sott'ccchio dal padre, ed aveva veduto come il commissario zelante fosse andato a rivangare nel passato, accennando ai profughi che i Guerri avevano soccorsi, ospitati, aiutati a passare il confine, nei primi tempi della restaurazione ducale; non tacendo delle armi che avevano nascosto nei sotterranei delle Vaie; raccogliendo infine con arte malvagia tutto ciò che la leggerezza dei testimoni, l'invidia degli emuli, avesse riferito a danno dei Guerri. Il conte Gino si era spaventato; aveva veduta la rovina di una egregia famiglia, non d'altro colpevole che di averlo accolto come ospite e di averlo trattato come uno de' suoi.

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12+
Release date on Litres:
25 June 2017
Volume:
440 p. 1 illustration
Copyright holder:
Public Domain