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Read the book: «La montanara», page 14

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Finalmente! Era nel suo nido. Come lo avrebbe veduto volentieri, in ogni altra occasione! Ma allora, con tutte quelle tristezze, con tutte quelle curiosità pungenti nell'anima, non guardò, non vide nulla. Cioè… dico male; vide il campanello e suonò per chiamare il servitore.

E il servitore venne, ma non era Giuseppe.

– Ah, Silvestro, sei tu? – diss'egli, come per dissimulare sotto la cortesia del saluto un primo e naturalissimo gesto di dispiacere. – Puoi dirmi dov'è andato a ficcarsi il mio abito grigio! Sai? quello che ha i bottoni metallici.

– Illustrissimo, non ne so nulla; – rispose Silvestro. – Cercherò nell'armadio.

– Nell'armadio non c'è; – disse Gino. – In quei cassetti nemmeno.

Chiamami Giuseppe; egli forse ne saprà qualche cosa. —

Silvestro obbedì, e Gino respirò vedendolo andare così risolutamente. Aveva già incominciato a temere che gli avessero mandato via il suo fido Giuseppe.

Questi, da buon cospiratore, non si era mostrato molto premuroso, all'arrivo del padroncino, e infatti non era neanche venuto in anticamera. Bisognò andarlo a cercare nella camera di servizio, dove se ne stava tutto intento alle opere del suo ministero. Andò, chiamato, e fu felice d'incontrare per via il conte Jacopo, di esserne interrogato e di potergli rispondere: – vado dal signor conte Gino, che cerca un suo abito grigio e non lo trova. —

Le dimostrazioni furono brevi, tra Gino e il suo buon servitore. L'uscio della camera rimaneva aperto, qualcheduno poteva ad ogni momento passare di là. Ma fingendo di rovistare nei cassetti, aprendo e chiudendo via via un mobile o l'altro, per cercar sempre un abito grigio che era stato ritrovato alla bella prima, Giuseppe ebbe tempo e modo di dire al padroncino tutto ciò che più gl'importava di sapere.

Alla polizia ducale, forse venti giorni prima, era giunta notizia di una festa sulle rive di un lago, di discorsi pronunziati, di evviva all'Italia, di voti temerarii per la distruzione dell'ordine stabilito, di una piemontesata, insomma, come allora si diceva, riferendo ogni protesta, ogni dimostrazione di sentimenti patrii, alle mene, alle istigazioni dell'aborrito Piemonte. Capi di quel tentativo, di quel principio di ribellione, erano i Guerri, i ricchi padroni delle Vaie, nè da meno di loro si era mostrato un parroco, che aveva osato imporre ad una barca il nome scomunicato d'Italia. La cosa era enorme, tanto enorme, che a tutta prima non si voleva credere alle relazioni avute. Si erano chiesti nuovi particolari, e i nuovi particolari avevano confermati i primi, aggravandoli. L'autorità, grandemente turbata, vedeva necessario un castigo esemplare. Ma in quel frattempo il ministro di Stato aveva promesso di richiamare a Modena, prosciogliendolo dal confine, il giovane conte Malatesti; voleva mantenere la promessa fatta alla signora marchesa Baldovini. Perciò si era stabilito d'ignorare la parte avuta dal conte Gino in quella festa, non vedendoci al più che una nuova ragazzata; di richiamare a Modena il giovanotto, e, lui partito da Querciola, di aprire un'inchiesta sulla faccia del luogo, interrogando all'uopo tutti i famigli dei Guerri, e d'istruire un processo, se fosse stato del caso.

Gino fremette, udendo tutte quelle notizie, che gli dava a spizzico il suo fedel servitore.

– E la marchesa ha mano in tutto ciò? – chiese egli, come Giuseppe ebbe finito il racconto.

– Ha avuto mano nella liberazione di Vossignoria; – rispose il servitore; – è naturale che fosse istruita del resto. A proposito, non deve dimenticare che la signora marchesa mi ha mandato l'altro giorno a chiamare.

– E perchè?

– Ne giudichi Lei, illustrissimo. Mi ha chiesto se conoscevo i signori Guerri. «Tu hai accompagnato il tuo padrone a Querciola, – mi disse, – e ne saprai qualche cosa. Che gente è quella? Quanti sono in famiglia? Come vivono? Sento che ci hanno anche una bella ragazza. L'hai veduta?» – Io, scusi la mia indiscretezza, ho creduto subito ad un sentimento di gelosia. Ma non sapevo nulla di nulla, e mi fu facile dimostrarglielo, poichè avevo accompagnato Vossignoria fino a Pievepelago, e non potevo conoscere le persone ch'Ella aveva conosciute poi a Querciola, o nei dintorni di Querciola. Persuasa dalle mie risposte, la signora marchesa mi fece altre interrogazioni. Voleva sapere da me se Vossignoria mi avesse scritto qualche volta. Io stetti in guardia, e risposi di no. Non si sa mai, ho detto fra me. La signora marchesa è donna, e potrebbe un giorno o l'altro lasciarsi sfuggire un segreto che al mio padrone importasse di non veder propalato. Ho fatto male?

– No, hai fatto benissimo; – rispose Gino, abbracciandolo. – Va, buon Giuseppe; parleremo meglio stasera. —

Ah, la signora marchesa voleva dunque conoscer tutto, per filo e per segno; sapere ciò che lo aveva trattenuto, ciò che gli aveva reso dolce il suo luogo di pena! Quella donna che per tanto tempo aveva mostrato di non darsi alcun pensiero dell'amico proscritto, quella donna che aveva lasciate senza risposta le sue lettere, che era passata da Fiumalbo, non curante di lui, superba, gloriosa di altre conquiste, quella donna aveva seguiti i suoi passi! Non già molto attentamente, nè giorno per giorno. Le sue erano notizie raccolte più tardi, e che ella cercava di completare, interrogando Giuseppe. Perciò allora soltanto ella si era ricordata dell'uomo che le aveva recata la lettera di Gino Malatesti!

La marchesa Polissena conosceva ancora l'episodio della fanciulla dei Guerri. Da chi poteva averlo risaputo? Dal ministro di Stato; era facile indovinarlo. Se la polizia ducale aveva avuto un referendario compiacente per la gita del Lago, niente di più facile e di più naturale che la relazione si fosse estesa dai particolari del fatto alle persone che ci avevano partecipato. E quali esagerazioni, in quel rapporto dello spione! Si parlava di discorsi, di evviva, di voti espressi per la caduta del governo ducale! Evidentemente il referendario non aveva cognizione diretta delle cose; scriveva d'udita, e le scarse notizie di un imprudente famiglio dei Guerri diventavano sotto quella penna assassina un vero atto di accusa. Non avviene sempre così, nell'esercizio di quel brutto mestiere? La spia vuol farsi un merito delle rivelazioni, e vi aggiunge sempre molto del suo.

Così il conte Gino ricomponeva nella sua mente ogni cosa, ricostruiva il fatto che doveva cagionargli tante angosce e tanti terrori. In quella ricostruzione mentale, vedeva anche il suo dolce segreto conosciuto dalla marchesa Polissena, fors'anche dal conte Jacopo, prima che egli fosse di ritorno a Modena, con la speranza di persuadere suo padre. Della marchesa, in ogni altro momento, gli sarebbe importato poco. Non era sicuramente la gelosia che la rendesse curiosa, ed egli oramai ne sapeva il contrario. Pure, mettendo da parte il sospetto della gelosia, il guaio non era che più grande per lui. Polissena, volendo dare la sua figliuola ad un Malatesti, conosceva il segreto di lui: e Gino e i Guerri, pur troppo, erano in balìa di quella donna, poichè ella conosceva il ministro e lo muoveva a sua posta. Come dubitare del poter suo, se ella aveva ottenuto il perdono di lui, proprio allora che per il rapporto della spia sarebbe stato il caso di aggravargli la pena?

Ma allora?.. Il perdono per lui, e un'inchiesta per gli altri. Tutti i ragionamenti, tutte le meditazioni di Gino venivano a quel punto. E allora gli si affacciò alla mente quella figura di commissario, tutto dolce e carezzevole, che davanti a lui aveva nascoste le unghie e fatte le fusa. Forse a quell'ora, mentre Gino ricordava la faccia patibolare e gli atti umili del signor commissario, l'inchiesta contro i Guerri era già incominciata; il signor Francesco, il signor Orlando, il povero Don Pietro Toschi, Aminta, suo fratello Aminta, erano già stati chiamati alla presenza del Minosse ducale. E non potevano esser già incarcerati? Dio santo! Un brivido corse per tutti i nervi del povero Gino. Ma no, non era possibile che si giungesse di primo colpo fin là. Il commissario non aveva che un applicato con sè; niente sgherri, niente apparato di forze. Si trattava di una semplice visita, di qualche interrogatorio abilmente condotto, per sincerare i fatti, e non altro per allora, non altro. Il peggio, sicuramente, sarebbe venuto poi; fors'anche presto, fra due o tre giorni, quanti bastavano per andare e tornare. Comunque fosse, non c'era tempo da perdere.

Quella sera, il conte Gino Malatesti, che aveva mostrato a suo padre tanta ripugnanza contro le visite, il conte Gino Malatesti andò al palazzo Baldovini. Non era giorno di conversazione. Meglio così.

Capitolo XII.
Una inchiesta misteriosa

Voi combattevate, o Gino, e la fanciulla dei Guerri pregava. Così, sui portali marmorei delle nostre città di Liguria, l'arte medievale ha raffigurato il virtuosissimo barone San Giorgio, che spinge il destriero a galoppo e calpesta il drago arrovesciato, ficcandogli la punta della sua lancia nella gola spalancata, mentre sul ciglio di un sasso una giovine principessa inginocchiata, a mani giunte, implora la vittoria del suo campione dalla clemenza di Dio.

Tra l'antica rappresentazione e il caso presente correvano per altro due differenze. Gino Malatesti non aveva ancora piantata la lancia nella gola del drago, e Fiordispina, anche pregando con tutto il fervore dell'anima sua, non aveva l'aria di guardare ad altro, come la principessa di Cappadocia. Fiordispina teneva gli occhi rivolti a Fiumalbo, a quella lunga fila di monti e colline che separavano il Cimone dalla pianura modenese. Di là aspettava oramai la luce degli occhi suoi, la vita del suo cuore: pregando il cielo, confidava anche nel suo Gino, e discacciava come indegni di lui, del suo carattere, della sua lealtà, i neri presentimenti che venivano ad assalirla.

Intanto a Fiumalbo s'incominciava a discorrere, a far castelli in aria, sulla presenza di quei due impiegati del governo ducale. Si era creduto a tutta prima che fossero due ingegneri, venuti a studiare per la costruzione di un ponte, già tante volte domandato e mai ottenuto, scambio di quello di legno che ogni piena un po' grossa abbatteva, e che i Guerri, buona gente, rifacevano sempre a spese loro. Il sindaco Cervarola, interrogato dagli anziani del paese, non diceva nè di sì nè di no; ma era molto pensieroso, il brav'uomo, più pensieroso del solito, e pareva che gli pesasse la carica. Al signor Aminta, che gli chiedeva anch'egli notizie, il signor sindaco aveva risposto:

– Che ne so io? Vogliono saper tante cose! Ora vi sembra che mirino di qua, ora sembra che guardino di là. Mi è passato per la testa che vogliano fare un censimento nuovo delle famiglie.

– Un censimento! Che diavolo? Ma se è stato fatto da poco!

– Che cosa ho da dirvi io? – Fors'anche un nuovo catasto. Vogliono poi tante cose! Chi è il tale, chi è il tal altro, che mestiere fa, dove abita, dove si può vederlo… Ieri, per esempio, mi hanno domandato anche di Pellegrino Menghi, che è il vostro servitore, e di Lorenzo Tamaroni, il vostro caposquadra alle Serre.

– Due uomini, – borbottò il Guerri, facendo una spallata, – che non hanno niente a vedere con la giustizia. —

Così erano rimasti, sapendone meno di prima, e sospettando ogni cosa. Ma il giorno seguente nuove voci si sparsero in paese. I due ufficiali del governo andavano di qua e di là, prendendo lingua da tutti i casolari, chiedendo cose di nessun conto; per altro, qualcheduno era anche chiamato alla loro presenza, nelle stanze della casa comunale. Di che si fosse parlato non si poteva sapere, perchè i chiamati all'interrogatorio non volevano appagare la curiosità degli amici, e neanche delle loro famiglie. Avevano paura, e si eran cucita la bocca.

Altro che censimento! altro che catasto! C'era la ragion politica, lì sotto. Del resto, il signor Francesco Guerri conosceva i due personaggi per impiegati di polizia, ed era già troppo non aver capito alle prime che razza di commissione fosse la loro. Perciò il vecchio Guerri chiamò a sè Lorenzo Tamaroni e gli disse:

– Che è stato? Ti hanno interrogato ieri. Su che? —

Erano alla Serra, ma in luogo appartato, e nessuno degli uomini addetti al lavoro poteva udire il discorso. Lorenzo Tamaroni diede tuttavia un'occhiata sospettosa in giro; poi raccontò minutamente ogni cosa.

– Il signor sindaco mi ha fatto chiamare ieri mattina. – È per ordine del signor commissario, venuto da Modena; – mi ha detto subito, quando mi son presentato da lui. Infatti, poco dopo è capitato il signor commissario col suo aiutante; si son seduti tutt'e due alla tavola del sindaco, e quando siamo rimasti soli noi tre, mi han detto di sedere e di rispondere con sincerità a tutte le domande che mi avrebbero fatto. Uno domandava e l'altro scriveva. – E così? (mi ha detto il primo). Siamo al lavoro delle serre? – Sì, illustrissimo. – E si fatica molto? – Eh, sicuramente, non è un mestiere troppo comodo. – Guadagnerà molto, il vostro principale? – Non saprei. – Come? Non lo sapete? – Signor mio, che vuole? Faccio il boscaiuolo, io; si dà al tronco dell'albero fino a tanto che possa cascare con una spinta; si svetta, si scortica, e poi, giù nel gran solco, fino alla serra. Quando ce ne sono cinquecento ammucchiati, s'incomincia a voltargli l'acqua, che faccia lago, e ci possano galleggiar dentro; poi, quando se ne son fatti entrare tanti che bastino, si apre la cateratta, e via, che pare il diluvio. Ecco quello che faccio io, che facciamo tutti noi, illustrissimo; e quel che succeda del legname, quando lo abbiam perduto di vista, e i guadagni che può procurare al padrone, non è cosa che possiamo sapere noialtri. – A proposito d'acqua, siete andati un giorno a lanciare una barca in un lago? – Nel lago della Ninfa, sì, illustrissimo. – Ed era grossa? – Che! Un guscio di noce. – E perchè l'avete lanciata? – Per obbedire agli ordini dei nostri padroni. – Ma essi, che idea avevano? – Se ho bene inteso, quella di assicurarsi che non ci fosse un vortice nel mezzo del lago. – Benissimo; e si è anche fatto un po' di festa. – Capirà, illustrissimo, quando si è in tanti, e si è fatto un lungo viaggio… – Festa patriottica, con discorsi ed evviva; si è dato alla barca un bel nome… – Non so. – Come? Neanche questo sapete? – Signor mio, non lo so; forse dal posto in cui ero, non ho potuto sentirlo. – Ve lo dirò io, il nome d'Italia. Non vi piace forse? – Eh, gli è un nome come un altro. – E non sapete dunque chi abbia dato quel nome? Chi c'era, intorno alla barca? I signori Guerri, non è vero? – Come padroni, ci dovevano essere di sicuro. – E il prevosto Don Toschi? – Anche quello, – E il conte Malatesti? – Non so se si chiami così; ma un giovanotto che chiamavano il signor conte, l'ho veduto benissimo. – È forse lui che ha dato il nome alla barca? – Sarà, ma non posso giurarlo; Le ho già detto che ero distante, e non ho sentito nulla. – Dite piuttosto che siete duro d'orecchio, perchè eravate ben vicino, come caposquadra, al comando della manovra. Basta, andiamo avanti. E il conte Malatesti, come era amico coi vostri padroni? – Non lo so; non me l'han detto. – Voi non sapete mai nulla di nulla. Eppure, sentite, vi converrà parlare; è per utile vostro, se non volete aver guai. —

Qui Lorenzo Tamaroni fece una sosta, per introdurre nel dialogo una sua osservazione.

– Capirà, signor Francesco; non era un bel complimento che mi faceva il signor commissario. Ma io non mi sono perduto d'animo. – Son qui per dire tutto quello che vogliono (risposi) ma a patto che io lo sappia. Ora, dell'amicizia di questo signor conte coi miei padroni io ne ebbi la prima notizia quel giorno. Ho saputo che erano vicini di casa. – E il conte era sempre alle Vaie? – Non lo so. – Badate, Tamaroni, il tacere le circostanze che vi son note, il trincerarvi dentro i vostri eterni «non so» potrebbe costarvi caro. – Oh senta, illustrissimo; costi un po' quel che vuole; non mi si potrà far dire quello che non è alla mia cognizione. Sono da vent'anni al servizio dei signori Guerri, ma non ho altre occasioni di vederli che tra i boschi, dove passo le mie giornate. – Ma là, sul lago della Ninfa, dov'eravate tutti, che discorsi sono stati fatti? Che cosa diceva il signor Francesco Guerri? – Niente, stava a vedere. – E il prete? Non ha simulato di battezzare la barca? – Nossignore, ha dato una benedizione. Anche a me han benedetta la casa, quando i signori Guerri l'han fatta costruire, e non mi sembra che abbia fatto niente di diverso per la barca. – Qui – (soggiunse Lorenzo Tamaroni, ritornando alla forma narrativa) – il signor commissario si è volto all'aiutante, che scriveva sempre come un altro sant'Agostino, e gli ha detto sottovoce, ma in modo che potessi sentirlo ancor io:

– Questo è un merlo del becco giallo! Ora vedremo un po' gli altri. E, voltandosi a me, mi congedò con queste parole:

– Andate, Tamaroni; vi richiameremo, se ci occorrerà di saper altro da voi, di quello che non sapete. – Ed io andai, senza aspettare che me lo dicesse una seconda volta. A dirle il vero, signor padrone, mi pareva mill'anni. —

Il vecchio Guerri stette saldo davanti a tutti quei segni precursori di una grossa burrasca che minacciava di scaricarsi sulle Vaie. Non così saldo si mostrava il povero boscaiuolo, che amava i suoi padroni e aveva ragione di temere per essi.

– Ed ora, signor Francesco, – riprese egli, – che cosa succederà?

– Che vuol che succeda? Nulla.

– Dio voglia! Ma se mi chiamano ancora, come mi hanno minacciato di fare?..

– Se ti chiamano ancora, di' pure liberamente tutto quello che sai. Infine, tu non hai detto niente di meno, e non potevi dire niente di più. Discorsi sovversivi, brindisi, evviva, non se ne sono fatti. Io, poi, non so nemmeno chi abbia dato il nome alla barca. Vorrei essere stato io, per vantarmene. —

Il signor Francesco non diceva tutta la verità, in quel momento. Ricordava benissimo che il nome era stato dato da sua figlia e dal conte Gino; ma, come padre e come ospite, non voleva che il boscaiuolo lo dicesse, in un secondo interrogatorio.

– Del resto, – soggiunse il vecchio Guerri, – se domandano la cosa a me, non ho nessuna difficoltà a caricarmi la coscienza di questo peccato. Che cos'è l'Italia? Un'espressione geografica. Dando questa sua bella definizione, il principe di Metternich ha proferito la parola, e il principe di Metternich è uno dei loro. Dopo un così grande esemplare di ortodossìa politica, perchè non potremmo proferirla noi?

– È giusto; – rispose il boscaiuolo, che non conosceva il signor principe, ma che si sentiva istintivamente raffidato dalla confidenza con cui ne parlava il padrone; – si dice Italia come si direbbe un'altra cosa: Francia, Spagna, America, Portogallo… ed altri paesi. —

La geografia di Lorenzo Tamaroni non andava niente più in là. Con quei quattro nomi aveva vuotato il sacco della sua erudizione. Ad un esame lo avrebbero bocciato di sicuro; ma il bravo boscaiuolo non era fortunatamente a quell'impegno, e quelle poche cognizioni bastavano alla sua felicità.

Congedato dal padrone, se ne ritornò sul lavoro. Il signor Francesco lo seguì poco dopo, tranquillo in apparenza, e tutto intento alla distribuzione delle acque nella serra. Ma quel giorno, dopo il pranzo, fu una gran conferenza nella casa dei Guerri, avendo il capo della famiglia creduto necessario di consigliarsi coi suoi. Fiordispina fu più addolorata di tutti, e la sua agitazione commosse il vecchio, che si studiò di calmarla, fingendo una sicurezza che non aveva nel cuore.

– Non temo per me; – disse la fanciulla. – Son donna, e poco mi posson fare. Temo per te, babbo; temo per voi uomini.

– Eh via, non esageriamo! – raccomandò il signor Francesco. – Ho detta la cosa, perchè era necessario avvertirvi tutti, e intenderci sulle risposte che daremo, se verranno ad interrogarci. Ma andiamo al fondo e guardiamo che c'è. Son venuti in due, come l'altra volta, ma per dare una buona notizia al conte Gino. L'occasione sarebbe stata scelta male, per annunziargli la sua grazia, se avessero avuto dei gravi sospetti. Fanno una piccola inchiesta, per uso, per amore dell'arte; ecco tutto.

– Ma porteranno la loro relazione a Modena; – osservò la fanciulla.

– Che relazione! Un pugno di mosche; – replicò il vecchio Guerri, facendo una spallata.

– Speriamolo; – disse Aminta. – Ma nel dubbio, bisognerà avvertire il conte Gino.

– Sì, bravi! perchè la lettera caschi in mano alla polizia del Duca.

– Possiamo mandarla per mezzo di un uomo sicuro. Pellegrino per esempio. —

La conferenza si fermò a questo punto. Pellegrino, in verità, era stato interrogato anche lui; ma non aveva avuto da dire niente più del Tamaroni. Pensando a tutti quegli interrogatorii, il signor Francesco capì che i suoi servitori e famigli erano tutti fedelissima gente. Da loro, per certo, non era partita l'accusa; probabilmente da qualche invidioso, da qualche nemico celato, come tutti ne hanno, e come potevano averne anche i re della montagna a Fiumalbo. Questa supposizione era avvalorata dal fatto che si accennava a discorsi non fatti, ad evviva non proferiti. L'accusatore non era dunque da cercare tra i presenti alla scena del Lago. Del resto, e si cascava sempre qui, se anche i famigli di casa Guerri si fossero sbilanciati nelle loro risposte al commissario, poco potevano aver detto, perchè poco c'era da dire, e tutto il guaio si restringeva ad un nome, al nome d'Italia, che era stato imposto ad un misero burchiello.

Don Pietro, che aveva sulla coscienza quell'altro peccato della benedizione, capitò quella sera all'ora solita. Non sapeva ancor nulla, lui; nè il commissario lo aveva chiamato al redde rationem.

– Curiosa inchiesta, che non si estende agli accusati! – disse il prete, com'ebbe udito ogni cosa. – Del resto, e quanto a me, so già quel che mi tocca: una chiamata in Curia e una solenne lavata di testa. Ma io potrò rispondere a Monsignore: – Non so ancora che il nome d'Italia sia scomunicato. Mi diano istruzioni, e starò all'obbedienza. —

Tutto ciò andava benissimo, ma non toglieva di mezzo le apprensioni. Ad accrescerle, anzi, venne poco dopo l'annunzio di una visita. Il signor commissario e il suo applicato, domandavano di essere ammessi a riverire i signori Guerri. A riverire, capite? Questo era il linguaggio ufficiale, la veste, la maschera del pensiero; ma bisognava vedere, che cosa ci fosse sotto.

I due visitatori furono ricevuti con calma solenne da tutta la famiglia riunita. Non si era re della montagna per nulla. Ed anche alla calma solenne si accompagnò una squisita cortesia.

– I nostri incarichi sono finiti; – disse il signor commissario, premendo al solito sulle parole; – non abbiamo voluto andarcene, senza una visita di congedo a lor signori.

– Come? – non potè trattenersi dal dire il vecchio Guerri. – Finiti così presto?

– Che vuole? Cose da nulla… almeno, per quanto risguarda il tempo che si poteva mettere a sbrigarle.

– Ci duole, – disse il signor Francesco, – ci duole che se ne vadano senza accettar nulla da noi. Se avessimo saputo che la loro partenza era così imminente…

– Oh, grazie! – interruppe il commissario. – Non ci è neanche permesso di dare incomodo alle persone in mezzo a cui ci chiamano i nostri doveri d'ufficio. Il nostro ministero è delicatissimo, e ciò in compenso dell'essere qualche volta odioso.

– Che dice Ella mai?

– Oh, non dubiti, perchè la cosa è proprio così come ho l'onore di dirle; – rispose con un sospiro il commissario. – Siamo servitori fedeli, con l'obbligo di essere accorti, di vigilare, di sospettare, sì, anche di sospettare. Infine, – soggiunse egli, con un altro sospiro, ma che pareva di sollievo, – su noi riposa lo Stato, da noi dipende la sua tranquillità, la sua sicurezza interna, che è principio e fondamento della sicurezza esterna. Ci sono tante piccole cose, germi inavvertiti di malcontenti, che bisogna osservare! Dal trascurarli derivano i guai maggiori all'ordine stabilito. Principiis obsta, lo ha detto anche il poeta, sero medicina paratur. —

Nessuno osò più interrompere il signor commissario, che era montato sul pulpito e voleva far la sua predica, anche col testo latino, come avrebbe fatto Don Pietro.

– Una cosa è da raccomandare, anche a questi paesi più lontani dalla vigilanza e dall'azione del governo centrale; – proseguì il commissario. – Fiducia in lui, che è provvido, paterno, bene intenzionato. Abbiamo in esso il tipo, il modello, l'esemplare dei governi possibili. Pure, non mancano quelli a cui sembra di star male, e che si voltano di qua o di là, sperando meglio. Se si domandasse loro: «che cosa?» si troverebbero bene impacciati a rispondere. Le novità allettano gli spiriti deboli, ecco il guaio. Ma tante novità sognate, si vedrebbe che cosa sono, allo stringer dei conti: miseria e rovina per tutti, salvo per coloro che hanno interesse a pescare nel torbido. Qui, infine, si è felici, relativamente, lo capisco, come si può esser felici sulla terra. E infatti noi ci occupiamo della terra; è istituto del reverendo di parlarci del cielo. —

Don Pietro, così personalmente indicato, reputò necessario di far riverenza al predicatore. Questi frattanto proseguiva:

– La terra dà quel che può, e, aiutando l'avvedutezza dei proprietarii, dà tutto ciò che basta ai loro desiderii. Non è gravata da altre tasse fuor quello che servono a mantenere un'autorità, distributrice di sicurezza, di benefizii morali e materiali a tutto lo Stato. Non coscrizioni che defraudino i campi delle valide braccia e le famiglie dei loro sostegni. Non cure del domani, che se ne prende il carico momentoso un principe umano e prudente, vero padre dei sudditi. Sotto l'egida sua, sotto l'imperio delle provvide leggi, il piccolo commercio respira, le piccole industrie fioriscono, e fanno le fortune anche grosse. Questa verità palmare dovrebbero intenderla primi fra tutti i grandi proprietarii, scambio di sognar novità, di favorire idee sovversive. Perchè, poi, che cosa succede? Il padre è amoroso, è buono; ma viene il giorno che non vuol parerlo tre volte. Ammonisce con gli esempi; ma se gli esempi non servono, mette mano ai castighi. Non le pare?

– Fa il dover suo; – rispose il signor Francesco, a cui era rivolta la domanda.

– Ho piacere che in questo Ella sia del nostro avviso. Lo sia in tutto, e sarà grande vantaggio per tutti. Umili servitori dello Stato, e ignari delle conseguenze che può portare l'opera nostra, non possiamo rassicurare, nè promettere; c'è una gerarchia, e noi siamo ai più bassi gradini. Solamente ci è dato di esprimere un modesto desiderio. Ella, signor Guerri, per consenso di tutti, è il primo proprietario e per conseguenza l'uomo più autorevole di questa regione, i cui semplici costumi ritraggono della antica convivenza patriarcale. Il suo ufficio potrebbe dunque esser quello di un Mentore, cioè di una guida amorevole, di un esempio sicuro per queste buone popolazioni, che il governo tien d'occhio, come ogni altra parte dello Stato. Ma l'ora è tarda; – conchiuse il commissario, parendogli di aver detto quanto bastava, e dando perciò la sbirciata d'uso al suo orologio; – noi dobbiamo levar l'incomodo a questa bella riunione, dolenti di avere interrotte le sue occupazioni.

– Una partita di briscola chiacchierina; – disse il signor Francesco, sorridendo; – e non ancora incominciata, com'Ella ha potuto vedere. I nostri ossequii, signor commissario, ed anche i nostri augurii migliori per il suo prospero viaggio. —

Il signor commissario se ne andò, seguito dal suo taciturno e malinconico aiutante. Povero signor commissario! Aveva egli predicato invano, che lo accomiatavano con una burletta? Tale non era la sua opinione, e la burletta gli pareva assai povera, certamente poco spontanea, non accompagnata da nessuna allegrezza di spirito.

– Ad ogni modo, – pensò egli, scendendo le scale, – te la daremo noi, la briscola chiacchierina. La tua gente ha chiacchierato poco, ma gli altri, che non dipendono da te, hanno detto quanto basta, per far onore alla mia commissione. Nei nostri quaderni c'è tanto da darvi noia per un pezzo. —

Ai soliloqui del commissario e alle sue legittime speranze di gratificazione, se non forse di un aumento di grado, rispondeva il colloquio dei rimasti.

– Ahi, ahi! – disse primo Don Pietro. – La lezione è stata dura.

– Infine, – rispose Aminta, poichè il vecchio Guerri taceva, – se ne vanno senza chiederci nulla.

– E questo è il male, figliuol mio; – replicò il vecchio prete. – La predica del commissario mi dice che non se ne vanno con le pive nel sacco. Questi signori hanno raccolto quanto bastava. Non volevano andarsene senza far l'atto di presentarsi. Certamente, potevano supporre che fosse giunta a voi altri qualche notizia dei loro interrogatorii, e in questa supposizione molto ragionevole non hanno potuto dispensarvi da qualche allusione. Mi par chiaro.

– È chiarissimo; – aggiunse il vecchio Guerri. – Ma che farebbe Lei, Don Pietro?

– Cercherei di avvertir subito subito il conte Gino di ciò che si prepara. È una burrasca che potrebbe dar noia anche a lui. —

Pellegrino Menghi, famiglio di casa Guerri, partì quella medesima notte da Fiumalbo, conducendo a Modena un carico di legname. Erano bei tronchi d'acero, debitamente stagionati, che andavano ad uno stipettaio modenese, la cui commissione era stata ricordata in buon punto. Ora il bravo Pellegrino conduceva un carro; ma portava una lettera, nella gran buca della sua giacca di fustagno, ed anche un libricciuolo, per il conte Gino Malatesti. Quella lettera, scritta da Aminta Guerri, diceva poco o nulla; accompagnava un libro che il conte Gino aveva dimenticato alle Vaie, nell'ultima notte che era dormito lassù, e prendeva occasione da quell'invio per mandare all'amico, all'ospite gradito e caro, i saluti suoi e quelli di tutta la famiglia.

Il libro, che Gino Malatesti non aveva punto dimenticato, era stato scelto tra i più innocenti della libreria delle Vaie. Figuratevi che era il Novellino, in una piccola e modesta edizione di Parma. Non dava molto impaccio al portatore, e non c'era caso che gli si vedesse far grinze di fuori, al petto della giacca. Comunque, se avessero frugato Pellegrino alla porta, perchè tutto poteva darsi e bisognava prevedere ogni cosa, l'invio di quel libro innocente giustificava la innocentissima lettera. Pellegrino Menghi, arrivato alla presenza del conte, avrebbe detto l'essenziale a voce. Sapeva pure tutto ciò che importava di far conoscere al conte, poichè era un giovanotto intelligente, ed anche a lui era toccata la noia di un interrogatorio intorno alla famosa gita del lago.