Lo Senti Il Mio Cuore?

Text
Read preview
Mark as finished
How to read the book after purchase
Lo Senti Il Mio Cuore?
Font:Smaller АаLarger Aa
ROMANZO

Prima Edizione – Maggio 2014

Questo libro è un’opera verosimile basata su una storia vera. I nomi dei personaggi, i luoghi e alcune situazioni sono stati modificati dall’autore a garanzia della privacy delle persone. Qualsiasi altra analogia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

© Copyright 2014 – Andrea Calò

ISBN: 9788873042891

@ e-mail: andrea.calo_ac@libero.it

In copertina: Nicoleta Nuca (su gentile concessione)

Edizioni TEKTIME

A mia moglie Sonia, l’amore della mia vita.

Per sempre.


1

Quando anche l’ultimo degli amici lasciò la nostra casa dopo avermi salutata, chiusi la porta a chiave. Ero rimasta sola, e non era solo una solitudine fisica. Sentivo freddo e anche dopo essermi coperta con un maglione di lana la situazione non migliorava. Il mio cuore batteva lento nel petto. Un profondo battito sordo e poi un lungo silenzio che preannunciava la morte, disillusa dal tardivo battito successivo. Ero viva. Sentivo freddo, quindi ero viva. Il sole di maggio aveva spazzato via le gelide giornate invernali già da parecchi giorni, perché su di me non stava funzionando? Guardai fuori dalla finestra. I ciliegi erano già imbiancati da fiori che presto sarebbero divenuti frutti rossi e dolci. Alcuni avevano già ceduto il loro posto, staccandosi dai rami per posarsi a terra o sulle spalle dei passanti, come neve di cotone. Erano fiori senza un futuro o frutti senza un passato, proprio come me. Ma questi fiori colti dalla morte portata da un soffio di vento uccidevano il grigiore del cemento e dell’asfalto, donandogli vita. Io invece mi sarei lasciata solamente marcire sotto terra un giorno, immobilizzata per l’eternità e costretta a guardare le margherite crescere dalla parte delle radici. Oppure mi sarei fatta bruciare e poi riporre in un’urna fredda simile a quella di mio marito, per vedere se esiste davvero l’Inferno e per scoprire l’effetto che fa bruciarci dentro. Seppellita o bruciata, dovevo ancora decidere il mio modo per essere dimenticata. Dimenticata dai miei figli, dal mondo intero e da me stessa. Certa che nulla si sarebbe fermato dopo la mia partenza verso l’eternità. Mi voltai per guardare l’urna, non l’avevo ancora fatto dopo la fine della funzione. Era di colore grigio, un grigio scuro come quel “fumo di Londra” che lui tanto amava e che sceglieva ogni volta che andavamo a comprare un vestito. Pressato dalla mia insistenza, mi compiaceva provando vestiti di altri colori, un po’ più vivaci. Ma alla fine del gioco la merce scelta e deposta sul banco della cassa era sempre la stessa. “Dovrò sentirmici bene dentro, finché lo indosserò”, mi diceva ogni volta. E poi rivolgendosi alla cassiera e provocandole non poco imbarazzo le chiedeva “Signorina, lei cosa ne pensa?”. Ed ecco qui la mia scelta, ancora una volta dettata dalla sua ingombrante seppur impercettibile presenza. Io come la cassiera ho confermato che quell’abito grigio sarebbe stato adatto a lui. Ho pagato in prima persona e sono scappata via con la merce pesante stretta tra le mie mani stanche. Un’urna di colore grigio “fumo di Londra”, il suo ultimo abito, quello che lui non si sarebbe mai più tolto per l’eternità. Mi avvicinai e la accarezzai. La sollevai e sulle mie braccia riuscivo a pesare la sua vita. Sentivo il freddo pungente del metallo guadagnarsi spazio sotto il tocco della mia mano stanca. Mi faceva percepire un senso di calore etereo nel braccio, un calore che scalava il mio corpo avvolgendolo tutto, mi accelerava il cuore. Non capivo se fosse più un fastidio o puro benessere. Vivevo di più, vivevo meglio. Comunque vivevo! Staccata la mano, ecco comparire nuovamente il vuoto che bussava alla mia porta, la mano tornava a scaldarsi, il braccio a raffreddarsi, il cuore a rallentare. Riprendevo lentamente la mia corsa verso la morte. Ma io sapevo che non si sarebbe fermato subito, la sofferenza dettata da quell’abbandono non mi sarebbe stata scontata perché la vita non offre mai “saldi di fine stagione”. Il cerchio si richiudeva su sé stesso e il ciclo ricominciava da capo. Versai dell’acqua nel bollitore e lo accesi. Rimasi per qualche minuto immobile, con gli occhi fissi sulla spia luminosa rossa in attesa che si spegnesse da sola. Anche lei moriva a modo suo, come tutto, come tutti, come sempre. Ma lei poteva ritornare a vivere, poteva rinascere se spinta dall’esterno con una scossa di vita. Proprio com’era successo a me quasi cinquanta anni prima. Con quegli stessi occhi avevo guardato il mio compagno durante gli ultimi istanti della sua vita, i miei occhi immobili che fissavano i suoi, spalancati e altrettanto immobili ma ancora capaci di brillare di luce propria, come la spia del bollitore, con il silenzio fastidioso che solo la vita che lascia il corpo sa creare. Un trambusto creato da disordinati pensieri, immagini di felicità che si ergevano da un mare di lacrime. E sotto il piatto che conteneva la mia felicità c’era lui, l’uomo che usciva dall’acqua come un dio greco, imponente nella sua semplicità, terrificante nella sua dolcezza. Ed io, seduta su quel piatto banchettavo con la mia felicità fino a sentirmi sazia, più mangiavo e più mi sentivo leggera, abile nello spiccare un volo con un semplice balzo.

Versai qualche foglia di tè verde in un bicchiere e lo arricchii con qualche foglia di menta che avevo congelato, perché si conservasse fresca e profumata. Il suo fresco profumo m’invase, portandomi via per un istante dal puzzo di una vita che sarebbe marcita totalmente in poco tempo. La mia decomposizione era già in corso da ore, giorni, settimane. Da quando lui si ammalò. Non so da quanto tempo e per quanto tempo ancora sarei stata me stessa o colei che gli altri volevano che io fossi. Poi mi voltai di scatto cercando anche l’altro bicchiere, quello che avrebbe usato lui, quello color panna con il suo nome inciso sopra in eleganti caratteri corsivi di colore rosso. Amava il tè alla menta, ne abusava. Era la sua droga quotidiana, non poteva farne a meno. Ricordo che una volta ci dimenticammo di fare la scorta. Era un freddo pomeriggio, nonostante la primavera fosse già arrivata da molto tempo. Pioveva. Arrivate le cinque del pomeriggio e non trovato il tè in casa si arrabbiò parecchio. Non con me, mi disse subito che io non avevo colpe per la sua stupidità. Prese il cappotto, s’infilò le scarpe e scomparve dietro la porta come un fuggiasco inseguito dalla polizia. Io sorrisi, amandolo nella sua goffaggine, per il suo attaccamento alle cose futili. Rientrò dopo un’ora buona, imprecando contro i gestori del supermercato perché avevano finito le confezioni di tè sfuso in foglie della marca che piaceva a lui e non le avrebbero più ordinate. Diceva sempre che nemmeno i negozi erano più quelli di una volta, che sarebbe stato meglio fornire bene gli scaffali dei supermercati piuttosto che spendere soldi per viaggiare nello spazio. Avrebbe dovuto cercare un’altra soluzione, quel giorno si dovette accontentare di tè già pronto in filtri e di marca scadente. Poi mi guardò, si avvicinò a me con il suo sorriso e prendendomi le mani mi consegnò una rosa rossa. “Questa non l’ho presa al supermercato, non avrei mai portato una rosa confezionata alla donna che amo. E’ la prima rosa spuntata nel roseto del giardino nel quale ci siamo incontrati, ricordi? Erano giorni che la curavo e che immaginavo il momento in cui te l’avrei data. Il tè era soltanto un pretesto, posso anche farne a meno. Ma del tuo amore no, a quello non posso davvero rinunciare!”. Lo baciai e lui rimase immobile come spesso faceva, diceva che gli piaceva sentire il sapore delle mie labbra e se anche lui mi avesse baciato avrebbe rovinato il gusto. E allora io lo baciavo ancora, ancora e ancora mentre lui, in silenzio, mi amava sempre di più. Quella sera facemmo l’amore. Fu diverso dal solito, fu ancora più intenso, più profondo e piccante. La rosa rossa ci scrutava dal vaso nel quale l’avevo riposta, ci proteggeva come una guardia della Regina, immobile e composta, più viva che mai seppur immobile. Provai un brivido diverso quando lui si liberò dentro di me, sapevo che qualcosa di grande, di potente e incomprensibile per l’uomo aveva preso vita nel mio corpo in quell’istante. Non era paura, non era dolore. Era il frutto dell’amore che lasciava un corpo e si congiungeva con un altro, catturato da un’anima vagante a noi assegnata e da essa guidato fino al completo compimento del suo tragitto impervio. Il primo viaggio. Il miracolo della vita era avvenuto dentro di me, per la prima volta. Lui mi guardò con i suoi occhi infuocati d’amore e di passione, cercando i miei occhi dai quali aveva cominciato a sgorgare una lacrima. In quella lacrima e nei miei occhi lui vide riflesso il vaso con la rosa. Si fermò, mi baciò, mi sorrise. Posò il suo dito indice sul mio naso, strappandomi un sorriso come sempre e mi disse “Si chiamerà Rose. Ti piace il nome Rose per una bambina?”. Rose arrivò nove mesi dopo, come un regalo caduto dal cielo. Era così gracile, indifesa e semplice. Mi sorrideva sempre, mi sorrideva con gli stessi occhi di suo padre.

Mia figlia Rose con suo marito Mike e i miei due nipotini Claire e Tommy sarebbero venuti a casa mia per cena. “Casa mia”. Mi meravigliavo di quanto fosse semplice adattarsi alle cose. Tuttavia pur girando in tondo come un clown colpito da uno schiaffo in pieno viso, non riuscivo a scorgere nessun altro pronto a parlarmi, a chiamarmi, a ricordarmi ancora una volta quanto io fossi bella per lui. Rose mi aveva lasciata per qualche ora subito dopo la cerimonia, doveva sbrigare alcune faccende e saldare il conto per il funerale. Io avrei dovuto dare retta ai restanti parenti e amici, ognuno dei quali voleva ricordarmi con le sue parole quanto mio marito fosse stato importante per me e quanto io lo fossi per lui. Parlavano, intervallando parole a freddi abbracci di convenienza che non sapevano di nulla, non esprimevano calore, non emanavano odore se non quello pungente della naftalina che aveva protetto i loro abiti fino a quel giorno e tirati fuori ancora una volta per l’occasione. Molto spesso le persone si rincontrano solo in occasione di matrimoni e funerali, per molti di loro fu davvero così. Quella sera stessa sarebbero stati riposti nelle loro custodie plastificate, cosparsi nuovamente di puzzolenti palline di naftalina insieme ai fazzoletti ancora ripiegati e sui quali nessuno aveva versato una lacrima sincera. L’esercito del commiato a turno mi scuoteva, mi percuoteva l’anima con parole studiate e acuminate come gli aghi sul guscio di un riccio di castagno, attendendo di vedere una lacrima sgorgare dai miei occhi, come estrema esternazione del mio dolore, della mia vulnerabilità. Solo allora si sentivano appagati, potevo percepire il loro ego esclamare “Era ora! Finalmente ce l’ho fatta a strapparle una lacrima!”. E io li accontentavo, nella speranza di far placare anche il mio dolore, la mia sofferenza, l’amaro sapore della solitudine che mi aspettava. Fotografavano quella lacrima, rubandola dai miei occhi per portarsela via come ricordo, come un trofeo vinto nella più estenuante delle battaglie. Per la loro vittoria avevano ricevuto in premio la mia sconfitta e mi toglievano la vita ogni volta che, dopo tutto questo, mi dicevano “Su dai, ora non piangere. La vita continua”.

 

Il tramonto stava arrivando. Lui passava sempre qualche minuto in giardino, seguendo il sole nell’ultimo tratto del suo viaggio verso la notte. In quei momenti io raramente uscivo fuori con lui, preferivo starmene quieta in casa ad osservarlo dalla finestra con la tenda lievemente scostata, quanto bastava per vederlo ma senza correre il rischio di essere scoperta. Se m’avesse visto mi avrebbe sicuramente invitato ad uscire con lui ma io preferivo osservare a pieni occhi la mia cartolina monocromatica, perché con lui dentro mi sembrava molto più bella. Scorgevo la sua sagoma nera che si confondeva con il paesaggio, il nuovo tronco entrato a far parte della mia vita per poi diventare prima albero, poi legno stagionato, infine polvere chiusa in un freddo vaso di metallo grigio. Ma io allora vedevo solo il mio albero e la prospettiva che mi regalava la fortunata posizione di quella finestra me lo rendeva più alto e possente di tutto il resto. Se ne restava lì fermo, immobile, lo sguardo perso dentro il rosso infuocato del cielo che non voleva ancora arrendersi alla notte che incessantemente bussava alla sua porta, chiedendogli di farsi da parte. “Che bella è la vita!”, vibravano le parole che cavalcavano la mia anima, tracciando una invisibile linea di brividi lungo la schiena che non riuscivo a seguire senza far scuotere il mio corpo. “Il tramonto come atto finale del giorno non è altro che l’inizio di una nuova alba. Quella che verrà, sempre se ce la saremo meritata”. Avevamo anche assistito all’alba lui ed io. Capitava spesso nelle notti d’estate, quelle calde e soffocanti fatte di silenzi interrotti dai fastidiosi ronzii delle zanzare assetate di sangue, assetate di vita. Non ci pungevano ma non ci permettevano nemmeno di dormire bene. Quando ci trovavamo lì nel letto, entrambi svegli con gli occhi spalancati e le gambe tenute aperte per non sudare, il più delle volte occupavamo il tempo facendo l’amore. Ma un mattino mi sorprese. Tornato dalla toilette si avvicinò a me sussurrando al mio orecchio “Melanie, vuoi assistere alla nascita di una nuova vita oggi? Sarà un’esperienza nuova, ti piacerà!”. Io non capivo cosa intendesse dire. Avevo dato alla luce Rose un bel po’ di anni prima e avevo lavorato per anni come infermiera e assistente al parto in ospedale prima di fuggire via dalla città della mia infanzia. Perché mi chiedeva se volevo assistere ad un parto? Declinai l’invito, rispondendo che alla fine tutte le nascite sono uguali e quell’esperienza l’avevo già vissuta troppe volte, fino alla nausea. “Ma il sole nasce ogni giorno in modo diverso. Le nuvole nel cielo, quando ci sono, regalano sfumature rosa diverse e irripetibili. Sei certa di volerti perdere tutto questo? Potrebbe non tornare mai più, sai?”. Con le sue parole scomparve anche l’ultimo residuo di sonno e un istante dopo ci trovammo seduti sulla nostra panca in giardino, quella più bella, quella che regalava la migliore vista sul lago. Restammo così appoggiati l’una all’altro, avvolti dal silenzio mentre la magia della vita partoriva un nuovo giorno. Le zanzare erano rimaste tutte in casa, dee della notte che temevano l’arrivo della luce del nuovo giorno, così come Satana teme la luce di Dio. E il primo vagito del nuovo nato fu un debole raggio di luce che ebbe però la forza di arrivare fino a noi, rischiarando i nostri volti, riscaldando al meglio che poteva le nostre mani. Lo baciai, lui fermo per assaporare il gusto delle mie labbra ancora una volta. Non osai chiedergli che gusto avessero, lo capii da sola. Capii che erano speciali per lui, come lui lo era sempre stato per me. Speciale come il modo in cui lui mi aveva fatto accogliere quel nuovo giorno, il primo vagito della vita. Unico come il modo in cui era tornato ad abitare nella mia stessa esistenza, riempiendo la mia vita con la sua presenza.

Rose entrò in casa usando il suo mazzo di chiavi. Andava fiera di quel mazzetto di ferraglia che desiderava possedere fin da quando era piccola, quando mi diceva sempre che tutte le sue amichette ne avevano uno, che i loro genitori avevano deciso di darglieli perché si fidavano di loro. Non capiva quindi perché io fossi di parere totalmente contrario, non condivideva il motivo delle mie paure. Suo padre era invece accomodante come sempre, la maggior parte dei vizi che Rose aveva avuto portavano la sua inconfondibile firma. Nei momenti dell’esasperazione affermavo spesso con fastidio che se Rose un giorno si fosse persa, anche un turista di passaggio avrebbe capito subito di chi fosse figlia e ce l’avrebbe riportata. Rose era la sua copia al femminile. Aveva i suoi stessi occhi, il suo naso, la sua fronte allungata e candida, così come candidamente bianca, quasi pallida, era la sua pelle. Riuscivano a capirsi per mezzo di discorsi fatti di interminabili silenzi. Io spesso mi sentivo tagliata fuori e cominciavo a parlare con me stessa, per farmi compagnia. Al compimento del sedicesimo anno d’età decidemmo di accontentare Rose. Preparammo un mazzetto di chiavi e lo impacchettammo come se fosse stato un regalo. Lui prese un foglio di quella carta che lui stesso preparava e con il pennino ad inchiostro che usava per le occasioni speciali vi scrisse sopra “Per la mia piccolina che diventa donna”. Me lo porse perché io potessi leggerlo, forse attendeva il mio consenso ma so per certo che se anche gli avessi detto che per me non andava bene, lui non avrebbe cambiato nemmeno una delle parole che aveva scritto su quel biglietto. Toccai più volte quella carta durante un periodo della mia vita, vidi spesso le sue parole impresse su di essa con quella stessa calligrafia, l’inchiostro nero leggermente velato che a stento copriva le imperfezioni di quel supporto fatto in casa. Quando Rose aprì i suoi regali e trovò le chiavi pianse. Pianse al punto tale che cominciai a temere di aver fatto la cosa sbagliata. Avevamo confermato la nostra fiducia in lei e questo per Rose era una cosa davvero importante.

* * *

«Ciao mamma, siamo arrivati!».

«Ciao Rose, venite! Ciao Mike! Ciao angioletti miei!».

Mike e i miei nipoti mi abbracciarono, Rose mi baciò stringendomi forte a lei. Claire era triste e come Rose non riusciva a nascondere i suoi sentimenti. Tommy saltava come un canguro per la casa, per smaltire le energie in eccesso che aveva accumulato. Era un vero trambusto e in sua presenza ogni luogo prendeva vita.

«Claire, tesoro! Non devi essere triste. Dove hai nascosto il tuo bel sorriso?».

«Claire ha ricevuto una brutta notizia oggi», disse mia figlia Rose mentre le accarezzava teneramente la testa, «Oltre al funerale del nonno ha dovuto ingoiare anche il rospo di sentirsi lasciata da Morgan, il suo fidanzato».

«Morgan ti ha lasciata oggi?», le chiesi io fingendo una esagerata espressione di stupore.

«Si, quello stupido idiota! Mi ha lasciata con un messaggio sul telefono. Non ha avuto nemmeno il coraggio di parlarmi, di guardarmi in faccia quel codardo!».

«Oh, capisco! E che cosa dice quel messaggio?».

«Dice che mi lascia. Che cosa vuoi che dica?».

«Le parole sono molto importanti tesoro mio! Da quelle parole puoi capire se lui ha paura, se ha solo bisogno di un po’ di tempo, se c’è ancora speranza oppure se è davvero finita per sempre», replicai con la fierezza di una donna che aveva maturato una certa esperienza a riguardo.

Scocciata, Claire infilò una mano in tasca e recuperò il telefono. Schiacciò un po’ di tasti con una velocità impressionante, movimenti che a me sembravano del tutto casuali ma che per lei avevano un senso preciso. Poi, ritrovato il messaggio, me lo lesse.

«Allora, dice così: Ti prego di perdonarmi ma non penso che tra noi possa funzionare. Ti ho voluto tanto bene e tu hai voluto bene a me, questo lo so bene. Ma ora questo tempo è finito. Io ho fatto una scelta diversa, so che mi capirai e che mi accetterai anche per questo, per la mia debolezza e per la mia codardia. Non cercarmi più, io non ti cercherò. Buona vita Claire, addio. Questo è tutto!».

Richiuse il telefono e lo infilò nuovamente in tasca mentre con un dito asciugava una timida lacrima che si affacciava sui suoi splendidi occhi blu.

«E’ un ragazzo maturo, Claire. Le sue sono parole sincere e quindi dolorose da sentire, soprattutto quando il cuore non le vorrebbe mai sentir pronunciare dalla persona che si ama».

«Maturo o non maturo non è una cosa che mi riguarda più. Ha la mia età nonna e a quindici anni è concesso conservare un briciolo di immaturità!», sbottò. Io la lasciai sfogare, era la cosa migliore da fare in quel momento.

«Se si è immaturi non si possono portare in tasca le chiavi di casa», dissi accennando un leggero sorriso mentre voltavo lo sguardo verso Rose, «Dico bene bambina mia?».

«Ma… mamma!».

«Io ho già le chiavi di casa in tasca da molto tempo nonna», replicò Claire, mostrandomele con orgoglio e una leggera smorfia. Le sorrisi, Claire ricambiò, Rose abbassò lo sguardo verso il pavimento, ammutolita e a disagio.

«Anch’io voglio le chiavi di casa, anch’io le voglio! Mamma, papà, quando me le date? Ci voglio giocare!», strillò il piccolo Tommy che nel frattempo ci aveva raggiunti, divertito dalla scenetta recitata proprio davanti ai suoi piccoli occhi da improvvisati attori rimasti da soli a riempire il palcoscenico della vita.

Chissà come ci vedeva quel bambino da laggiù, con lo sguardo perennemente rivolto verso l’alto. Questi adulti “strani” che parlavano di cose “strane” invece di starsene belli tranquilli a giocare con i loro pupazzi. Forse si chiedeva dove li avevamo messi tutti i nostri pupazzi, i nostri giocattoli. Forse avrebbe voluto vederli, toccarli, prenderli per giocare con noi. E lui li avrebbe animati con la sua fantasia, gli avrebbe dato vita, forme e colori come solo un bambino sa fare. Per lui tutto è un gioco, la vita stessa è un gioco. E ogni volta il gioco è diverso anche se i pupazzi sono sempre gli stessi, perché nessuno meglio di un bambino è in grado di valutare tutte le possibili alternative, per renderle reali e dargli forma nella sua mente. Quindi perché mai non giocare, perché gettarsi tra le braccia di una esistenza fatta di paure, preoccupazioni e problemi? Lui chiedendo le chiavi voleva entrare a far parte del nostro mondo, ma noi avevamo già superato la fase della spensieratezza, avevamo affrontato con successo quella della conquista, della fatica. Ed io, a differenza degli altri, avevo già provato anche il gusto acre di quella dell’abbandono, per ben due volte. Gli altri, i più giovani, erano ancora fermi alle stazioni precedenti e da lì si godevano il paesaggio, bello o brutto che fosse, in attesa che il treno della vita li conducesse altrove, senza sapere dove. Potevano guardare in avanti alla ricerca di una meta. Ma anche indietro, verso il punto di partenza dove tutto il loro mondo ebbe inizio, nel fumo dei ricordi raddolciti dallo scorrere del tempo. Nel loro viaggio erano accompagnati da altri passeggeri, alcuni tristi altri felici, sani o malati. Proprio come loro. Cloni di una civiltà che vuole rendere tutti uguali, un formicaio osservato da un essere superiore dove i “diversi” sono considerati come anomalie, come formiche che camminano nella direzione opposta e non troveranno mai le briciole. Io invece potevo sforzare lo sguardo se lo rivolgevo verso l’inizio, verso il mio passato, attraverso la fitta nebbia dove tutti i miei ricordi si mescolano. Sono i miei, solo miei, disordinati e sparsi come soldati morti su un campo di battaglia che non avevano deciso dove cadere, uccisi mentre cercavano di portare a compimento il loro progetto e lì abbandonati per sempre, dimenticati da tutto e da tutti. Se guardo in avanti so che l’ultima stazione del mio viaggio non è poi così lontana. La posso quasi vedere, toccare con mano, la sento. Raggiungere la mia stazione d’arrivo è il mio ultimo progetto, quello che porterò a compimento prima o poi. E ora che anche l’ultimo mio compagno di viaggio entrato nel mio vagone a metà del tragitto, l’uomo che mi aveva tenuto compagnia facendomi sentire più viva che mai, era sceso dal treno senza nemmeno salutarmi, mi sentivo più prossima alla meta seppur in preda alla paura e al totale smarrimento. Lui era arrivato alla sua stazione, dove si concludeva la sua vita, il suo viaggio. Il prezzo che aveva pagato all’inizio per il suo biglietto gli permetteva di arrivare fino a lì, non gli era concesso andare oltre. A volte fantastico sui tramonti che vedrà da quel luogo, seduto da solo su una panchina in una stazione deserta. Mi chiedo anche se i raggi del sole che vedrà spuntare al mattino assomiglieranno a quelli che avevamo visto insieme durante le nostre mattine, seduti sul treno che procedeva nel viaggio senza che noi ce ne rendessimo conto. Attenderò quindi il mio tramonto con serenità ma senza fretta, accompagnata dal fumo dei miei ricordi e in attesa di fondermi con loro, per trasformarmi in un nuovo soldato caduto sul campo di battaglia e lì dimenticato. Da oggi sarò solo una spettatrice e osserverò le immagini della mia vita dispiegarsi al di là del finestrino del treno in corsa e ad ogni suo sobbalzo sulla rotaia ricorderò che sono ancora qui. Osserverò i passanti e aiuterò quelli che, smarriti nelle loro esistenze, mi chiederanno informazioni per raggiungere la loro meta. Ma non pretenderò mai di essere ascoltata e accetterò le critiche che mi saranno avanzate sul modo in cui io, semplice donna di periferia, ho affrontato il mio viaggio. E all’arrivo dell’alba ci sarà lui ai piedi del mio letto, lui come un’ombra nera e dai dettagli indefiniti mi risveglierà e mi chiederà di seguirlo per assistere ancora una volta ad una nuova nascita, la mia.

 

Claire mi guardava, forse aspettava una replica da parte mia che alimentasse quella discussione che appariva sterile ai miei occhi anziani. Potevo fare di più per lei, potevo farle un regalo. Quindi la delusi, non replicai alla sfida, ma mi arresi spogliandomi totalmente davanti a lei.

«Claire, vieni con me in giardino. Ti racconterò una storia se ti fa piacere».

«Di cosa si tratta nonna? Non mi parlare di favole o cose del genere, non sono più una bambina e non sono nemmeno dell’umore adatto per ascoltare storielle alle quali non credo più da tanto tempo».

«Si, forse è una favola piccolina mia. Dici bene. E’ per questo motivo che quando ci ripenso e prendo coscienza di quanto sia stata importante per me, sento i brividi attraversarmi il corpo in lungo e in largo. Ti parlerò della mia vita se vorrai stare ad ascoltarmi, perché tu possa confrontarla con la tua e per scoprire che nonostante le nostre generazioni tra loro così distanti non siamo poi così diverse tu ed io».

Claire fissò Rose per un istante. Rose le sorrise invitandola a seguirmi. Era commossa, lei conosceva tutta la mia storia fin nei minimi dettagli, anche quelli più intimi, uno dei quali si era trasformato in lei stessa. Accettò il mio invito con un silente movimento del capo, gli occhi bassi fissavano il pavimento. Era il suo modo per dirmi grazie. Il sole al crepuscolo confondeva i colori del mondo, uniformandoli in un’unica macchia nera e piana, privata della sua profondità. Sedute sulla stessa panca dove noi ci fermammo ad ammirare il tramonto per tante primavere, assaporavamo il gusto di un mondo che ci si mostrava in due dimensioni, dai colori indefiniti e privi di dettagli, scontornati da tutto e per tutti, perché nessuno nutrisse mai alcun dubbio sulla sua bellezza. Seguivamo con lo sguardo fisso l’arcobaleno dei colori dipinto nel cielo, dal rosso intenso a ridosso degli alberi anneriti dal sole che scendeva fino al blu intenso generato dalla profondità dello spazio, così come appare agli occhi se viene guardato da quaggiù. Presto quei colori si sarebbero disciolti come un dipinto ad acquarello dimenticato ancora fresco sotto la pioggia. Il rosso avrebbe preso il sopravvento sulla terra per poi cedere spazio all’oscurità incalzante della notte. Una notte senza luna, una notte con tante stelle.

Claire si sdraiò appoggiando la sua testa sulle mie gambe. Muoveva gli occhi seguendo i tratti del cielo, per contare quelle stelle che già si potevano scorgere nonostante la luce del giorno non fosse stata ancora spenta del tutto. Forse cercava una stella in più nel cielo, quella che non aveva ancora visto e che non era ancora stata avvistata da nessun osservatorio, da nessun telescopio. Si dice che quando si muore si diventa stelle. E’ bello pensare che potrebbe essere davvero così. L’accarezzai e notai che stava piangendo, quindi iniziai il mio racconto.