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Read the book: «Agide», page 4

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SCENA TERZA
LEONIDA

Io 'l tengo al fine. Inciampi molti, è vero, e gran perigli incontro: eppur, vogl'io quest'orgoglioso insultator modesto, spegnere il voglio, anco in mio danno espresso. Ma il trucidarlo è nulla, ove la fama non gli si tolga pria: ciò sol può darmi securo regno. – Ah! che pur troppo io 'l sento! Né so dir come; anche al mio core un raggio vero divino al suo parlar traluce, e mel conquide quasi… Ah! no: mi squarcia, mi sbrana il cuor, quella insoffribil pompa di abborrita virtú. Pera ei: si uccida;… s'anco è mestier, per spegner lui, ch'io pera.

SCENA QUARTA
AGIZIADE, LEONIDA, AGESISTRATA

 
AGIZ. Padre, e fia vero?.. a tradimento… Oh cielo!
Infra soldati il mio consorte?..
 
 
AGESIS. È questa
la tua fede, o Leonida?
 
 
LEON. Qual fede?
Che promisi? Giurato a Sparta ho fede,
non ad Agide mai.
 
 
AGIZ. Deh! padre amato,
alla tua figlia… oimè!..
 

AGESIS. Spontaneo forse non uscia dell'asilo? e solo, e inerme, e di sua voglia, ei non venia di pace a parlamento or teco? E tu, dagli empj tuoi sgherri il fai nel carcer trarre? e contra il decoro di re, contra il volere di Sparta stessa?.. Iniquo…

LEON. E pianti, e oltraggi, vani del par sono a piegarmi, o donne. Il primo io son de' magistrati in Sparta, non di Sparta il tiranno. Agide reo, gli efori e Sparta giudicarne or denno; innocente, tornarlo al seggio prisco gli efori e Sparta il ponno. Ov'ei si fesse del tempio asilo, o della plebe scudo, né innocente né reo possibil fora chiarirlo mai. Tempo è, ben parmi, tempo, che Sparta esca dall'orrido travaglio del non saper s'ella ha due re, qual debbe, o s'un glien manca.

AGIZ. Ah padre!.. Agide in vita ti serba, e tu in catene Agide traggi? Gli dai tua figlia, e torgli vuoi sua fama? Anco reo, (ch'ei non l'è) tu ne dovresti pigliar, tu primo, or le difese. Io diedi non dubbia a te dell'amor mio la prova, nell'avversa tua sorte; or, nell'avversa d'Agide, a lui nulla può tormi: o in ceppi col tuo genero porre anco tua figlia, o trarne lui, ti è forza: abbandonarlo, per preghi mai, né per minacce io mai non vo'. Di lui non piglierai vendetta, che sopra me del par non caggia: il sangue versar tu dei di quella figlia istessa, che abbandonava, per seguirti in bando, la patria, e il trono, ed il marito, e i figli.

AGESIS. Oh vera figlia mia, non di costui!.. Spartana figlia e moglie, a non spartano padre indarno tu parli. – Invidia vile, vil desio di vendetta il cor gli chiude, e il labro a un tempo. – E che diresti?.. In core tu giurasti, o Leonida, l'intero scempio d'Agide, il so; tutti conosco gli empj raggiri tuoi. Ma, se pur darci morte potrai, (che la mia vita e quella del mio figlio son una) invan tu speri torre a noi nostra fama. A te la tua… Ma, che dich'io? l'hai tu? – Scopo non altro fu in te giammai, che di serbar col regno le tue ricchezze, e accrescerle. Dell'oro l'arte imparasti di Seleuco in corte, e l'arte in un di sparger sangue. In Sparta persian tu regni; e la uguaglianza quindi dei cittadin paventi, onde ben tosto ne sorgeria virtute; onde dal trono di nuovo espulso appien per sempre andresti: né il tuo cor osa a piú che al trono alzarsi.

LEON. Né le tue ingiurie l'animo innasprirmi, né le tue giuste lagrime ammollirlo possono omai. Sparta, non io, si duole d'Agide, e a darle di se conto il chiama. Forza non altra usar gli vo', (né s'anco il volessi, il potrei) fuorché di torgli ogni via di sottrarsi al meritato giusto gastigo…

AGESIS. Giusto? – Oserai, dimmi, quí appresentarlo, in questo foro, a Sparta tutta adunata, e libera dal fiero terror dell'armi tue?

LEON. Noto finora non m'è il voler degli efori; ma…

AGESIS. Noto mi è dunque il tuo, pur troppo! Agide innanzi, non agli efori compri, a Sparta intera tratto esser debbe; o verrá Sparta a lui. Ciò ti prometto, ancor che inerme donna; se pria del figlio me svenar non fai.

SCENA QUINTA
LEONIDA, AGIZIADE

AGIZ. Io dal tuo fianco non mi stacco, o padre; non cesso io, no, di atterrarmi a' tuoi piedi, non tue ginocchia d'abbracciar, se pria lo sposo a me non rendi; o se con esso me di tua man tu non uccidi.

LEON. O figlia diletta mia; deh! sorgi; a me dal fianco non ti partir, null'altro io bramo. Hai meco generosa diviso i tanti oltraggi di rea fortuna, è ben dover, che a parte della prospera sii: niun piú possente sará di te sovra il mio cor: te voglio, sotto il mio nome, arbitra far di Sparta: né cosa mai…

AGIZ. Che parli? Agide chieggo; null'altro io voglio. A me tu il desti; e torre, no, non mel puoi, se vita a me non togli; né torlo a Sparta, senza orribil taccia d'ingiusto re, d'uom snaturato e atroce.

LEON. Come acciecarti or tanto puoi? Non vedi, ch'Agide è reo? ma fosse anche innocente; non vedi, ch'egli in mio poter non stassi? Gli efori udirlo, giudicare il denno gli efori: nulla io per me sol non posso, né a pro, né a danno suo.

AGIZ. Sei padre; m'ami; a fera prova il filíal mio amore hai conosciuto; e simular vuoi pure con la tua figlia? – A tradimento, or dianzi, il potevi tu solo al carcer trarre, e innocente salvarlo or non potresti? Deh! non sforzarmi a crederti…

LEON. Che vale? Nulla in ciò posso: anzi, è mestier ch'io tosto d'Agide conto, e del mio oprare a un tempo, renda agli efori.

AGIZ. Ah, no! piú non ti lascio: né crudo ordin puoi dar, che in parte anch'egli su la tua figlia non ricada…

LEON. Or cessa; torna alla reggia mia…

AGIZ. Teco men vengo. Tutto farai, tutto dei fare, o padre, pel tuo innocente genero, che salva t'ebbe la vita… Ah! no, svenar nol puoi, se la tua propria figlia non uccidi.

ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Limitare del carcere di Sparta.

LEONIDA, ANFARE, POPOLO che si va introducendo.

ANFAR. Tardo assai giungi; e il tempo stringe.

LEON. Al padre l'indugio dona: mi fu forza or dianzi fin nella reggia accompagnar la figlia. Io dal fianco spiccarmela a gran pena potea, sí forte ella in pianto stempravasi per lo suo sposo. Assai gran doglia in core il suo pianto mi lascia.

ANFAR. E che? turbato, commosso sei? Piú della figlia forse ti cal, che non di tua vendetta?

LEON. Abborro Agide piú, che non m'è caro il trono: ma pure, i detti della figlia, e i pianti, duri a me sono. – Eccomi all'opra: il tutto disposto hai tu?

ANFAR. Nol vedi? In questo vasto limitar delle carceri mi parve fosser da porsi i seggi nostri; il loco, men capace che il foro, assai men feccia ragunerá di plebe: ma pur tanta introdur quí sen può, quanta n'è d'uopo a nostre mire. Havvi all'entrar chi veglia, e in copia ammette i nostri fidi. – Or mira; giá piú che mezzo è riempiuto il loco; né alcun v'ha quasi degli avversi a noi. Per anco il grido non s'è sparso appieno del gran giudizio: e spero, anzi che giunga a intorbidarlo con sua fera scorta l'ardita madre, avrem compito il tutto.

LEON. Ma, sei tu certo, che tornarne a danno or non possa tal fretta?

ANFAR. Oltre la nostra dignitá, stan per noi forze non poche. Grande accortezza, or nell'espor le accuse, vuolsi; e giusti mostrarci ai nostri stessi dobbiamo, e del lor ben, piú che del nostro, caldi amatori. Alcun tumulto forse insorger può; previsto è giá. Ma basta per noi, che piú non esca Agide vivo di queste mura. Al primo impeto audace della plebe far fronte i tuoi soldati, e i cittadini nostri appien potranno, e degli efori il nome, e l'ardir tuo. Tempo intanto si acquista; e avrem dal tempo piena poi la vittoria…

LEON. Ecco il senato; ecco gli efori tutti: il popol molto li segue, e par non torbido in aspetto; lieto anzi par di assistere all'accusa di un re sovvertitore. Ardire, ardire. Mentr'io gli animi lor, con opportune lusinghe adesco, al carcer entra, e in breve Agide a noi ben custodito traggi.

SCENA SECONDA

LEONIDA, POPOLO, EFORI, SENATORI, ciascuno collocato ordinatamente

LEON. – Lode agli Dei! quí radunarsi veggio i cittadini veri; e non frammisti con la torbida, audace, e sozza plebe, che col numero suo voi ne strascina negli error suoi, mal grado vostro. – A Sparta inaudito spettacolo si appresta; il maggior, che ad uom libero mai possa appresentarsi: un vostro re, dai vostri efori tratto, ed accusato, innanzi a voi. Gli error ne udrete, e le discolpe, e il giudizio, di cui voi stessi parte sarete, spero. Io, benché re, con gioja pur ve l'annunzio. Ah! non ebb'io tal sorte in quel funesto a me, non fausto a Sparta, orribil giorno, in cui dal trono in bando cacciato, in forse della vita io stetti. Non accusato, e non udito, a ria forza soggiacqui allora; eppur, piú doglia che l'ingiusto mio esiglio, erami al core il sovvertito ordin di leggi, e il fero periglio in cui lasciava io Sparta. Instrutti voi stessi al fin dai vostri danni appieno, me richiamaste, e in un le leggi, in trono: Agesiláo, Cleómbroto, e i lor fidi efori, a Sparta traditori, in bando cacciaste. Agide resta: havvi chi reo nol vuole; e forse, ei reo non è. Ma intanto, io preso il volli, e ad altro fin nol tengo, che per chiarirlo in faccia a voi. S'ei fosse reo convinto pur mai, primier mi udreste implorar pel mio genero perdono: che agli occhi vostri, e ai miei, sua giovinezza nol rende affatto or di pietade indegno. – Efori, senatori, cittadini, la vera vostra maestá non sorse a dritto mai piú nobile di questo: conoscer oggi, e perdonare i falli dei vostri re: che sottopongo io pure oggi a voi l'opre mie. Prova non lieve del cor mio puro, e del regnar mio giusto, parmi, fia questa; ed io di darla anelo. A tremar delle leggi Agide insegni a Leonida re. – Ma, giá si appressa Agide al vostro tribunale: ed ecco ch'io taccio, e seggo; io, cittadino, attendo dai cittadin dell'alta lite il fine. Ben sostener d'ogni mia forza io giuro, qual ch'esser possa, la immutabil santa libera vostra unanime sentenza.