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Agide

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ALLA MAESTÁ DI CARLO PRIMO RE D'INGHILTERRA

Parmi, che senza viltá né arroganza, ad un re infelice e morto io possa dedicare il mio Agide.

Questo re di Sparta ebbe con voi comune la morte, per giudizio iniquo degli efori; come voi, per quello d'un ingiusto parlamento. Ma quanto fu simile l'effetto, altrettanto diversa n'era la cagione. Agide, col ristabilire l'uguaglianza e la libertá, volea restituire a Sparta le sue virtú, e il suo splendore; quindi egli pieno di gloria moriva, eterna di se lasciando la fama. Voi, col tentare di rompere ogni limite all'autoritá vostra, falsamente il privato vostro bene procacciarvi bramaste: nulla quindi rimane di voi; e la sola inutile altrui compassione vi accompagnò nella tomba.

I disegni d'Agide, generosi e sublimi, furono poi da Cleoméne suo successore, che il tutto trovò preparato, felicemente e con grande sua gloria eseguiti. I vostri, comuni al volgo dei regnanti, da molti altri principi furono e sono tuttavia tentati, ed anche a compimento condotti, ma senza fama pur sempre. Della vostra tragica morte, non essendone sublime la cagione, in nessun modo, a mio avviso, se ne potrebbe fare tragedia: della morte d'Agide (ancorché tentata io non l'avessi) crederei pure ancora, attesa la grandezza vera dello spartano re, che tragedia fortissima ricavarsene potrebbe.

Sí l'uno che l'altro, ai popoli foste e sarete un memorabile esempio, e un terribile ai re: ma, colla somma differenza tra voi, che de' simili alla MAESTÁ VOSTRA, molti altri re ne sono stati e saranno; ma de' simili ad Agide, nessuno giammai.

Martinsborgo, 9 Maggio 1786.

VITTORIO ALFIERI.

PERSONAGGI

AGIDE.

LEONIDA.

AGESISTRATA.

AGIZIADE.

ANFARE.

Efori.

Senatori.

Popolo.

Soldati di Leonida.

Scena, il Foro, poi la prigione, di Sparta.

ATTO PRIMO

SCENA PRIMA
LEONIDA, ANFARE

ANFAR. Ecco, or di nuovo sul regal tuo seggio stai, Leonida, assiso. Intera Sparta, o d'essa almen la miglior parte, i veri maturi savj, e gli amator dell'almo pubblico bene, a te rivolti han gli occhi, per ottener dei lunghi affanni pace.

LEON. Di Sparta il re non io perciò mi estimo, finché rimane Agide in vita. Ei vive non pur, ma ei regna in cor de' molti. Asilo gli è questo tempio, il cui vicino foro empie ogni dí tumultuante ardita plebe, che re lo vuol pur anco, e in trono un'altra volta a me compagno il grida.

ANFAR. E temi tu d'esserne or vinto? Io 'l giuro, e gli altri efori tutti il giuran meco; Agide mai non fia piú re. Ma, vuolsi oprar destrezza or, piú che forza…

LEON. Egli era da tanto giá, che co' raggiri suoi, con le sue nuove mal sognate leggi, tutto sossopra a forza aperta porre, e me cacciarne ardia del soglio in bando: ed io, da' miei fidi Spartani al soglio richiamato, or dovrò con vie coperte la vendetta pigliarne?

ANFAR. Un velo è forza porvi: ei genero t'è. Quel dí, che in crudo esiglio, solo, abbandonato, e privo del regio serto, fuor di Sparta andavi, umano ei t'era. Ai percussor feroci che Agesiláo crudel su l'orme tue a svenarti inviava, Agide a viva forza si oppose; e di Tegéa (il rimembri) salvo al confin ti trasse: in ciò soltanto non figlio ei d'Agesístrata, ed avverso apertamente al rio di lei fratello. Sol del pubblico bene or puoi far dunque a tua vendetta velo.

LEON. Infame dono ei mi fea della vita, il dí ch'espulso m'ebbe dal seggio; e a vie piú grande oltraggio recar mel debbo. Ei mi credea nemico da non piú mai temersi? oggi nel voglio disingannare appieno. In me raddoppia l'esser egli mio genero il dispetto. Genero a me? deh! quale error fu il mio, d'avere a lui donna dissimil tanto data in consorte? Ammenda omai null'altra, che lo spegnerlo, resta. Unica figlia, Agiziade diletta, a me compagna, sostegno a me nel duro esiglio l'ebbi. Abbandonava ella il suo amato sposo, perché al padre nemico; ella i legami di natura tenea piú sacri ancora che quei d'amore: e al fianco mio trar vita misera volle errante, anzi che al fianco del mio indegno offensore in trono starsi.

ANFAR. Pur, per quanto sia giusto in te lo sdegno, premilo in petto, se sbramarlo or vuoi. Io men di te non odio Agide altero; e la sua pompa di virtudi antiche, finta in biasmo di noi. Sparta ridurre qual giá la fea Licurgo, è al par crudele, che ambizíosa stolidezza: è tale pure il disegno suo; quindi ebbe ei quasi la cittá nostra all'ultimo ridotta: e, sconvolta pur anco, in risse e affanni egra ella sta. Ma, van cangiando i tempi: quei traditori, efori allor, che schiavi eran d'Agesiláo, piú a lui venduti che ad Agide, con esso ora sbanditi son tutti, o spenti: e sta in noi soli Sparta. Ma il popol rio, mendico, e ognor di nuove cose voglioso, Agide ancora elegge mezzo a sue mire ingiuste. A schietta forza, mal frenare il potremmo; ogni novello governo erra adoprandola. Deluso, pria che sforzato, il popol sia. Tal cura, che a cor mi sta non men che a te, mi lascia. Ecco la madre d'Agide: gran donna ogni dí piú degli Spartani in core si fa costei: temer si debbe anch'ella.

SCENA SECONDA
AGESISTRATA, LEONIDA, ANFARE

AGESIS. Chi ne' miei passi trovo? oh! mentre io vado di Sparta al re, cui sacro asil racchiude, quí intorno io veggo irsi aggirando or l'altro re di Sparta novello?

LEON. E il fero giorno, ch'io, re di Sparta, esul di Sparta usciva, ebbi al mondo un asilo? Assai gran tempo dal trono io vissi in bando; e reo, ch'è il peggio, in apparenza io vissi. Avriami ucciso il duol, se in un coll'usurpato seggio restituita la innocenza mia non m'era appieno da un miglior consiglio di Sparta istessa. Il mio rival cacciato, quel Cleómbroto iniquo, a chi il mio scettro signor del tutto allora Agide dava, giá mie discolpe ei fece. A far le sue, che tarda Agide piú? Collega ei fummi sul trono; ancor mi è genero; e nemico mi sia, se il vuole. – Ma, cagion qual altra, che il suo fallir, chiuso or nel tempio il tiene?

AGESIS. A Sparta, e a me, Leonida, sei noto: quai sieno i tuoi, quai sien d'Agide i falli, è brevissimo a dirsi. Agide volle libera Sparta; i cittadini uguali, forti, arditi, terribili; Spartani in somma: e a nullo sovrastare ei volle, che in ardire e in virtude. In ozio vile, ricca, serva, divisa, imbelle, quale appunto ell'è, Leonida la volle. Falli son l'opre d'Agide, perch'havvi copia di rei, piú che di buoni, in Sparta: di Leonida l'opre or son virtudi, perch'elle son dei tempi. Oggi rimembra tu almen, se il puoi, che il mio figliuol mostrossi nemico aperto del regnar tuo solo, non di te mai; ch'or non vivresti, pensa, se cittadino ei piú che re, tua vita non ti serbava, ed in suo danno forse.

LEON. Vero è; nel dí, che il tuo crudo fratello a trucidarmi gli assassin suoi vili mandava, Agide, forse a tuo dispetto, per altri suoi satelliti mi fea vivo e illeso serbar: ma un re sbandito, cui l'onor, l'innocenza, il soglio tolto vien dal rival, fia ch'a pietade ascriva la mal concessa vita?

AGESIS. Al par che grande era imprudente il dono: Agide stesso tale il credea; ma innata è in quel gran core ogni magnanim'opra. Agide eccelso contaminar non volle col tuo sangue la generosa ed inaudita impresa di un re, che in piena libertá sua gente restituir, spontaneo, si accinge. Dal perdonarti io nol distolsi: e forse tentato invan lo avrei: d'Agide madre, mostrarmi io mai potea di cor minore a quel di un tanto figlio? È ver; mi nacque Agesiláo fratello; or di un tal nome indegno egli è. Con libera eloquenza, e con finte virtú suoi vizj veri adombrando, ei deluse Agide, Sparta, e me con essi…

LEON. Ma, non me, giammai.

AGESIS. Noto e simile ei t'era. – A tor per sempre dei creditori e debitor, de' ricchi e de' mendici, i non spartani nomi, Agesiláo, piú ch'altri, Agide spinse. Vistosi poi dal nostro esemplo astretto di accomunar le sue ricchezze, ei vinto dall'avarizia brutta, il sacro incarco contaminando d'eforo, impediva la sublime uguaglianza. Il popol quindi, sconvolto e oppresso piú, dubbio, tremante fra il servir non estinto e la sturbata sua libertade rinascente appena, te richiamava al seggio: e te stromento degno ei sceglieva al rincalzare i molli non cangiabili in lui guasti costumi. Il popol stesso, avvinto in man ti dava qual Cleómbroto re pur dianzi eletto: e il popol stesso alla custodia or sola di un asilo abbandona il giá sí amato Agide, il riverito idolo suo.

ANFAR. Piú custodito è dalle leggi assai, che da questo suo asilo. Ei delle leggi sovvertitore, annullator, pur debbe ad esse e a noi la sua salvezza. E a noi efori veri, a Sparta tutta innanzi, ei dará di se conto: ove non reo vaglia a chiarirsi, ei non del re, né d'altri temer de' mai.

LEON. S'egli in suo cor se stesso reo non stimasse, a che l'asilo? al giusto giudizio aperto popolar me pria perché non trarre?

AGESIS. Perché d'armi e d'oro tu ti fai scudo, ei di virtude ignuda: perché tu pieno di vendetta riedi, ed ei neppure la conosce: in somma, perché i tuoi, non di Sparta, efori nuovi suonan ben altro, che terror di leggi. Nulla paventa Agide mio; ma torsi vuol dalla infamia; e darla, ancor che breve, altrui può sempre chi il poter si usurpa.

LEON. Che fará dunque Agide tuo? piú a lungo racchiuso starsi omai non può, s'ei teme la infamia vera.

ANFAR. E molto men può Sparta nelle presenti sue strane vicende d'un de' suoi re star priva. Agide il nome tuttor ne serba; e il necessario incarco pur non ne adempie: mal sicura intanto e dentro e fuori è la cittá; sossopra gli ordini tutti; e manca…

AGESIS. Agide manca; e con lui tutto. Al par di noi ciò sanno i nemici di Sparta, in cui novello fea rinascer terror dell'armi nostre Agide solo. Sí, gli Etoli feri, cui disfar non sapea canuto duce il grande Aráto co' suoi prodi Achei, tremar d'Agide imberbe; antico tanto spartano egli era. – A non imprender cosa or contro a lui, Leonida, ti esorto: che se pur anco, ingiusto spesso, il fato palma or ten desse, onta non lieve un giorno ne trarresti dal tempo, e danno espresso della patria. Non so, se patria un nome sacro a te sia: ma primo, e forte tanto nome è fra noi, che se in mio cor sorgesse un leggier dubbio mai, ch'anco i pensieri, non che d'Agide l'opre, al ben di Sparta non fosser volti tutti, io madre, io prima, il rigor pieno delle sante leggi implorerei contra il mio figlio. – Or dunque opra a tuo senno tu: tremar non ponno Agide mai, né chi a lui dié la vita, che per la patria lor: tu, benché in armi, ed in prospera sorte, entro al tuo core conscio di te, sol per te stesso tremi.

 

LEON. Donna, sei madre; e d'uom ch'ebbe giá scettro, il sei; quind'io ti escuso. In voi temenza non è; di' tu? meglio per voi: ma Sparta, gli efori, ed io, vi diam sol uno intero giorno, a mostrar questa innocenza vostra, sempre esaltata e non provata mai. Esca al fin egli, e se difenda; e accusi me stesso ei pur, se il vuol: tranne l'asilo, tutto or gli sta. Ma, se a celarsi ei segue, digli, che al nuovo dí né Sparta il tiene piú per suo re, né per collega io il tengo.

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