Read only on LitRes

The book cannot be downloaded as a file, but can be read in our app or online on the website.

Read the book: «Brani inediti dei Promessi Sposi. Opere di Alessando Manzoni vol. 2 parte 2», page 17

Font:

C) TERZA STESURA

L'onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa, segnava una striscia [fuggente che] increspata, che si andava allontanando dal lido. I passeggieri silenziosi, [volgendosi [addietr…] indietro, guardavano le mont…] [coi dorsi volti a quello, ma] [coi vol] colle facce [piegate] converse [rivolte indietro,] [girate indietro] [seduti colle spalle converse] coi dorsi volti a quello, [ma coi volti girati] e la faccia conversa indietro, guardavano le montagne e il paese rischiarato dalla luna, e svariato qua e là di grandi ombre. Si discernevano i villaggi, le case, le capanne: il castellotto di don Rodrigo, colla [vecchia] sua torre piatta, elevato [sulle] sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un feroce, che ritto nelle tenebre sopra una [folla] compagnia di giacenti addormentati, vegliasse, meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; discese coll'occhio a traverso la china, fino al suo paesello; guardò fiso all'estremità, scerse la sua casetta, scerse la chioma folta del fico che sopravanzava [le muraglie] sulla cinta del cortile; scerse la [sua] finestra della sua stanza: e seduta com'era sul fondo della barca, appoggiò il gomito sulla sponda, chinò su quello la fronte, come per dormire; e pianse segretamente.

Addio, montagne sorgenti dalle acque, ed erette al cielo; cime ineguali, [conosciute] note a chi è [nato] cresciuto tra voi, e [distinte] impresse nella sua mente non meno che lo sia l'aspetto dei suoi più famigliari; torrenti dei quali egli [riconosce il fragore] distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche: ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo dell'indigena che si allontana da voi! Alla fantasia di quello stesso che [volontariamente vi lascia] [si parte da voi in cerca del guadagno,] [si di] se ne parte volontariamente, a procacciarsi guadagno, si disabbelliscono in quel momento i sogni della fortuna; egli [non sa capire come ab] si maraviglia d'essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che un giorno tornerà dovizioso. [A misura ch'egli discende] Quanto più s'avanza nel piano, il suo occhio si ritrae fastidito e stanco da quella ampiezza uniforme; l'aere gli simiglia gravoso e senza vita; egli s'inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le vie che sboccano nelle vie [gli tolgono il fiato] pare che gli tolgano il fiato; e dinanzi agli edifizii ammirati [agli] dallo straniero, egli pensa con desiderio inquieto [alla casuccia] al camperello del suo paese, alla casuccia a cui egli ha già posti gli occhi addosso da gran tempo, e che compererà, tornando ricco a' suoi monti.

Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli nè pure un desiderio sfuggevole, chi aveva [intrecciati] composti e intrecciati con essi tutti i disegni dell'avvenire, d'un avvenire tacitamente bramato, [e] che pareva [ormai] certo ormai e imminente, e ne è sbalzato [da una forza] lontano da una forza perversa! Chi strappato ad un tempo alle più care costumanze, e sturbato nelle più care speranze, [s'avvia] lascia quei monti per avviarsi in traccia di stranieri che non ha mai desiderato di conoscere; e non può colla immaginazione trascorrere ad un momento stabilito [del] pel ritorno! Addio, casa natale, dove sedendo con un pensiero occulto, s'imparò a distinguere dal romore delle orme comuni il romore d'un'orma aspettata con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si compiaceva di figurarsi un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, [nella quale si cantarono tante volte le lodi del Signore] dove la mente si rasserenò tante volte, e tante cure svanirono, cantando le lodi del Signore; dove era promesso, preparato un rito, dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l'amore chiamarsi santo: addio! Quegli che dava a voi tanta giocondità è dapertutto; ed Egli non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e maggiore.

Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia, e poco dissimili i pensieri degli altri due pellegrini, mentre la barca gli andava avvicinando alla destra riva dell'Adda178.

D) Il testo della prima edizione, con le correzioni di quella del 1840, riveduta dall'autore179

I passeggieri silenziosi, [colla faccia rivolta] con la testa voltata indietro, guardavano [le montagne] i monti, e il paese rischiarato dalla luna, e [svariato] variato qua e là di [grandi] grand'ombre. Si [discernevano] distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di don Rodrigo, [colla] con la sua torre piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un feroce che, ritto nelle tenebre, [sopra una] in mezzo a una compagnia [di giacenti] d'addormentati, vegliasse, meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì: [discese coll'occhio a traverso la china] scese con l'occhio giù giù per la china, fino al suo paesello, guardò [fiso] fisso [alla] all'estremità, [scerse] scoprì la sua casetta, [scerse] scoprì la chioma folta del fico che sopravanzava [sulla cinta del cortile] il muro del cortile, [scerse] scoprì la finestra della sua [stanza] camera; e, seduta, com'era, [sul] nel fondo della barca, [appoggiò il gomito] posò il braccio sulla sponda, [chinò] posò [su quello] sul braccio la fronte, come per dormire, e pianse segretamente.

Addio, [montagne] monti sorgenti [dalle] dall'acque, ed [erette] elevati al cielo; cime [ineguali] inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che sia l'aspetto [dei] de' suoi più [famigliari] familiari; torrenti, [dei] de' quali [egli] distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul [pendìo] pendio, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d'essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più s'avanza nel piano, il suo occhio si [ritrae fastidito e stanco] ritira, disgustato e stanco, da [quella] quell'ampiezza uniforme; [l'aere] l'aria gli [simiglia gravoso e senza vita] par gravosa e morta; s'inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le [vie] strade che sboccano nelle [vie] strade, pare che gli [tolgano] levino il respiro; e [dinanzi] davanti agli [edifizii] edifizi ammirati dallo straniero [egli] pensa, con desiderio inquieto, al [camperello] campicello del suo paese, alla casuccia a cui [egli] ha già [posti] messi gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a' suoi monti.

Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli [nè pure] neppure un desiderio [sfuggevole] fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell'avvenire, e [ne è] n'è sbalzato lontano, da una forza perversa! Chi, [strappato] staccato [ad] a un tempo [alle] dalle più care abitudini, e [sturbato] disturbato nelle più care speranze, lascia [quei] que' monti, per avviarsi in traccia di [stranieri] sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può [colla] con l'immaginazione [trascorrere] arrivare [ad] a un momento stabilito [pel] per il ritorno! Addio, casa [natale] natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s'imparò a distinguere dal [romore] rumore [delle orme] de' passi comuni il [romore] rumore [di un'orma aspettata] d'un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si [compiaceva dì figurarsi] figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l'animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; [dove era] dov'era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l'amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! [Quegli che] Chi dava a voi tanta giocondità è [da] per tutto; [ed Egli] e non turba mai la gioia [dei] de' suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e [maggiore] più grande.

Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia, e poco [dissimili] diversi i pensieri degli altri due pellegrini, mentre la barca gli andava avvicinando alla [destra riva] riva destra dell'Adda180.

XI.
L'Innominato; brano della seconda minuta, stralciato poi dall'Autore181

Nello schizzo che siam per dare della vita e del carattere di quell'innominato noi collocheremo alcuni passi del Ripamonti, traducendoli alla meglio dal suo bel latino182. Pel rimanente non abbiamo altra autorità che quella del nostro manoscritto.

L'innominato era un tiranno, nel senso che si dava allora alla parola, che non mi andaste ad accusar per giacobino: tiranni, nell'uso comune e nelle gride erano nominati coloro che col mezzo dei loro servi o bravi, resistevano più o meno agli ordini ed alla forza pubblica, e ne esercitavano una arbitraria, capricciosa, più o meno iniqua sopra i meno possenti. Fra quelli ai quali le ricchezze e la nascita rendevano, in quella condizione di tempi, possibile una tale tirannia, ben radi erano che non ne usassero un pochetto, almeno in certe occasioni, talvolta forse senza averne una coscienza ben distinta; molti la usavano come una professione; fra i molti spiccava quest'uno. Unico erede d'una famiglia primaria, nato con un talento superbo, imperioso, feroce, cresciuto fra l'apparato d'una grande opulenza e d'una gran forza domestica, fra il chinar riverente di facce bellicose e le dimostrazioni d'una servilità pronta a tutto intraprendere, fra il concerto di cento voci che esaltavano a gara la potenza della casa; e divenuto padrone in età assai giovanile, egli non fu contento della porzione di superiorità che avevano goduta i suoi maggiori. Queglino erano riveriti; egli volle esser terribile: eran lasciati stare anche dai più potenti e irrequieti; a lui pareva di scadere, quando non facesse stare nessuno: erano per lo più rimasti al di sopra in ogni impegno dove avessero parte; egli volle essere arbitro negli altrui, in quelli dove non aveva pure un pretesto per intromettersi. Già da più generazioni la sua casa spiccava per una sontuosità principesca; egli riformò tutto quello sfoggio di conviti, di caccie, di torneamenti, e ne impiegò il costo in aumento di forza, in bravi, in armi, in ispedizioni. Passava allora una gran parte del tempo in città, e quivi la sua prima occupazione o il suo divertimento fu di andare in cerca di quelli che nella turba dei soverchiatori di mestiere erano i più famigerati, di pararsi loro dinanzi in qualunque occasione, per tastarli, per provarsi con loro e diminuire quella loro gran riputazione, o farsegli amici, d'un'amicizia però subordinata dalla parte loro, che era la sola che gli piacesse, la sola, per dir così, ch'egli sapesse intendere. In poco tempo ne ridusse molti a desistere da ogni rivalità e a dargli la mano in ogni congiuntura, ne conciò male qualcheduno dei più superbi e indomiti, e n'ebbe molti amici al modo ch'egli desiderava. Nessun d'essi lo avrebbe confessato, ma tutti sentivano alla sua presenza, e pensando a lui, una certa inferiorità, che gli sforzava a risguardarlo e a trattarlo piuttosto come un capo, che come un amico. Nel fatto però egli veniva ad essere il faccendone, lo strumento di tutti coloro, e alle volte in affari in cui la cooperazione sarebbe sembrata anche a lui vile, obbrobriosa, se non vi fosse entrata la difficoltà e la forza, cose che nel concetto comune, e più nel suo, nobilitavano tutto. Era a quei tempi cosa trita e quotidiana, massime fra i soverchiatori di professione, il richiedere negli impegni scabrosi l'aiuto e l'opera degli amici; cosa disonorevole il rifiutarla senza buone ragioni; e perchè l'ingiustizia o il pericolo dell'impresa fossero contate come tali, bisognava che arrivassero a un grande eccesso. Una simile consuetudine, che era pei tiranni un mezzo e un carico del mestiere, secondo le occasioni, doveva naturalmente dar molte faccende a un tiranno come questo. I molti suoi amici avevano molte e varie passioni da soddisfare; la predominante in lui era quella di far cose vietate e difficili, e di non iscapitare, massime appo loro, di quel gran concetto di audacia e di potenza. Pigliava quindi facilmente i loro impegni, concorreva alle loro spedizioni e le dirigeva; mandava i suoi bravi a minacciare i loro rivali di amorazzi e di precedenze; a questo faceva intimare che non passasse nella tal contrada, a quello che non persistesse nella tal lite, risguardava il renitente come suo nemico personale, lo affrontava nella via con un pretesto, e gli dava una pena infamante sulla superficie del corpo, o una più nobile al di dentro, secondo la condizione della persona. E in quanti ebbe di questi scontri, in tanti rimase al di sopra, più gagliardo, più coraggioso, più destro, com'era, e meglio accompagnato d'ogni altro. Per una strada tale, e di quel passo, non si poteva, manco in allora, andar lungo tempo senza incontrarsi colla giustizia. Ben è vero che l'innominato non lasciava di adoperare tutte le cautele usitate dagli altri per eluderla e scansarla; e massime nelle cose più gravi, come per esempio quando si trattasse d'un omicidio premeditato, o d'un ratto, andava travestito, cercava i luoghi, aspettava i momenti scuri: anche i suoi bravi a fare le intimazioni più arrischiate e le spedizioni più atroci, andavano acconciati in forma, parlavano in modo, da lasciar conoscere a cui appartenevano, quanto era necessario per incuter più terrore, non tanto che bastasse a provare che appartenevano a lui. Di modo che ad ognuno di quei suoi attentati, la giustizia non aveva fatta altra dimostrazione che di pubblicare una di quelle gride, chiamate d'impunità, colle quali si prometteva questa e un premio al complice che facesse conoscere l'autor principale o i principali autori del delitto, dando indizii sufficienti a procedere: gride che nei casi di quest'uomo non avevano mai prodotto alcun effetto, per ragioni che in parte s'indovinano facilmente, e che in parte accenneremo in appresso. Quanto alle violenze ch'egli aveva commesse a fronte scoperta, in pien meriggio, nella via, v'era ad una per una il verso di rappresentarle come necessitate dalla difesa, o dall'onore, il codice del quale era allora molto più rigido e sofistico riguardo alle offese, e infinitamente più largo riguardo alla misura e ai modi delle soddisfazioni, che non lo sia al presente; e nello stesso tempo era più considerato come obbligatorio anche dove fosse in opposizione colle leggi, non solo dal più dei privati, ma anche da quelli che promulgavano ed eseguivano le leggi. Con questi mezzi un uomo del suo grado poteva assicurarsi l'impunità di mal fare, fino ad un certo segno; ma costui passava tutti i segni. Ne faceva più che nessun altro del suo mestiere; offendeva piccoli e grandi senza distinzione; e nello stesso tempo trascurava altri mezzi indispensabili anche per fare impunemente meno di lui.

Gli altri tiranni (prescindo da alcuni disperati, che in guerra aperta colle potestà e colla società, vivevano or raminghi, or rintanati nei loro castellacci, e stavano anche alla strada come veri capi di masnadieri; parlo di quelli che volevano abitare in città e godere i comodi, gli spassi, gli onori della vita civile) gli altri tiranni mantenevano più aderenze che fosse possibile col poter legale, si valevano delle parentele, coltivavano cogli ufici e col corteggio le amicizie degli uomini più graduati si obligavano i subalterni colle protezioni e con certi atti di cortesia degnevole, e avevano dipendenti e creati fino tra gli infimi esecutori, ai quali compensavano le minacce coi regali, Cercavano insomma di tenere una mano su le bilance della giustizia, per farle tracollare dalla parte loro in una occasione, in un'altra farle sparire che non si trovassero, per darle anche, se veniva un bel tratto, su la testa di qualcheduno che non avevano potuto finire colle armi della violenza privata. Costui, all'opposto, dopo essersi inimicati molti potenti, dei quali aveva toccati in varie occasioni i protetti, gli amici, i congiunti, non solo aveva sempre sdegnato di fare il più leggiero uficio per raddolcire quegli odii e per soddisfare quegli orgogli irritati, ma non s'era nè anche curato mai di procacciarsi almeno amici egualmente potenti da contrapporre a quelli. Le sommissioni, le pratiche, anco le cerimonie necessarie a questo fine, gli erano insopportabili: affettare una gran noncuranza per ogni autorità era un elemento della sua passione, uno di quei piaceri per cui egli affrontava tanti pericoli e faceva tante male vite. I suoi parenti stessi, che ne aveva più d'uno in alti posti, oltre che gli era lor divenuto un peso con quel suo metterli sempre a petto or d'un collega, or d'un superiore, col porli sempre al partito di combattere con rischio, o di cedere con diminuzione di credito, se gli era poi anche disgustati col suo tratto verso di loro. Avrebbero essi voluto difenderlo, ma insieme regolarlo; rattoppar bensì certe sue malefatte, ma tenersi in possesso di fargliene qualche buona riprensione, e dì prescrivergli norme dì prudenza e di moderazione per l'avvenire: egli con quel suo animo precipitoso e ricalcitrante aveva altamente sdegnato favori di quella sorte. Con tutto ciò, queglino, per l'onor del nome, avevano continuato per qualche tempo a sostenerlo; ma finalmente, vedendo meglio d'ogni altro, nella regione delle nuvole dove abitavano, il grosso temporale formato contro di lui; informati che dalla bocca stessa del governatore erano usciti certi tuoni sordi e cupi, per non commettere il loro credito nel sostegno d'una causa che alla fine doveva esser perduta, s'erano ridotti a far vista di abbandonarla volontariamente, a mostrarsi irritati più che altri contra il loro scandaloso parente, a far gli antichi romani, e lasciarsi intendere che, mettendo le leggi e l'ordine pubblico innanzi agli affetti privati, avrebbero lasciato un libero corso alla giustizia. Con lui non potevano altro che mandargli avvisi di tempo in tempo, che s'egli tirava innanzi a quel modo, non facesse più conto della loro assistenza. Quanto agli amici dell'innominato, essi non erano per lo più gente che avesse voce per sè in quel capitolo: alcuni, è vero, imparentati con togati potenti, facevano con essi a favore dell'innominato gli ufici ch'egli sdegnava; ma tali ufici indiretti avevano poca forza contra le ire radicate e le pratiche degli avversarii, occulte, in parte, per timore, ma calde e insistenti.

Le cose erano in questo stato, quando una mattina si trovò in una via il cadavere malamente trafitto d'un uomo ch'egli odiava: (il manoscritto non dice di più), e la voce publica disegnò tosto l'innominato come autore del fatto. In senato, nel palazzo del governatore, nei gabinetti dei potenti, nemici dell'innominato, si mormorò che era venuta la volta di dar finalmente un grande esempio. Il capitano di giustizia ricevette ordine segreto di procedere alla cattura. Ordini tali contra tali uomini era ancor più difficile l'eseguirli che il darli: bisognava non lasciar traspirar nulla dell'intenzione, per sorprendere il nemico, e insieme dar molte disposizioni e mettere in campo forze straordinarie. Di queste forze poi non si poteva far capitale che fino ad un certo segno: quando si aveva che fare con un tiranno di conosciuta bravura, e circondato da una mano di disperati, il più dei birri vi andavano di mala voglia, alcuni si rincantucciavano anche per non lasciarsi trovare, o nel bello della spedizione la davano a gambe, o abbassate le armi e cavato il cappello dicevano: illustrissimo signore, vada pure liberamente, che noi non siamo per fargli male. E quand'anche nessun di loro avesse intelligenze coi bravi del tiranno, che si voleva prendere, se ne sarebbe trovato più d'uno che pel solo amore della pace avrebbe cercato qualche mezzo di farlo avvertire; acciocchè, fuggendo, togliesse sè ed altri d'impaccio. Come che la cosa andasse in questo caso, l'innominato ebbe tosto avviso da più d'un luogo dell'ordine fulminato contra di lui. Non pensò pure di mettersi in salvo colla fuga, non si curò di rimpiattarsi, si mostrò anzi in pubblico più del solito con un più grande accompagnamento, per guardia insieme e per ostentazione, non rimise punto della sua solita arroganza; anzi spiò attentamente se qualche parente del morto gli passasse dinanzi con aria di provocazione, se alcuno de' suoi nemici coperti volesse in quella occasione alzare un po' la cresta e uscire appena appena dei termini consueti di rispetto, deliberato e desideroso di farne in tali circostanze qualche dimostrazione più strepitosa.

In questo mezzo fu avvertito che un bargello, famoso per varie prese difficili, scaltrito negli agguati e intrepido negli assalti, coraggioso per natura e obbligato ad esserlo sempre più per conservare la sua riputazione di coraggio, essendogli stata questa volta promessa da certi potenti una grossa somma di danari se facesse il colpo, ne aveva preso l'impegno, e che troverebbe egli il modo di metter la musoliera all'orso e di menarlo legato in gabbia. Da quel momento la vita del bargello divenne un tormento per l'innominato; se lo sentiva, per dir così, pesare su le spalle. Per adescarlo e crescergli animo, finse d'essere entrato in timore, si tenne chiuso in casa, fece sparger voce dì volere sfrattar di soppiatto e travestito. Molta gente diceva che s'eran veduti altri birboni dopo averne fatte tante e tante perdere in un tratto quel gran rigoglio quando la loro ora era venuta; gli amici non sapevano più che pensare; egli rintanato coi suoi bravi non si lasciava veder da nessuno. I birri, che fino allora avevano giucato dalla lunga, cominciarono a ronzare in frotte nei contorni della casa, a tenersi ai canti della via: il bargello lì metteva a posto, li moveva, dirigeva ogni cosa, girava travestito, teneva e faceva tener l'occhio, ora alla porta, ora agli sbocchi della via, sbirciava con certi suoi occhi cervieri chiunque uscisse di qua o di là, temendo sempre che il suo uomo non gli scappasse sotto qualche travisamento. Ma l'uomo, che pensava a fargli tutt'altro tiro che quello, avvertito un dì sul vespero che il bargello vigilante s'era piantato ad un canto della via, chiama un suo ragazzaccio, ch'egli andava allevando al patibolo, gli pone una valigetta su le spalle, e lo ammaestra che esca da quel canto, strisciando dietro il muro a guisa di chi vorrebbe passare inosservato. Mosso questo zimbello, egli mette l'occhio a un pertugetto d'una imposta chiusa, per vedere che accade nella via, e pochi istanti dopo vede birri a due, a tre venire innanzi e allogarsi dietro gli angoli di questa e di quella casa vicina, e poi avanzarsi il bargello in persona, entrare in una porta, star qualche momento, uscire, entrare in un'altra più vicina, far capolino, guardar fuori.

Lascia in vedetta a quel pertugio un servo che desse un gran fischio quando il bargello porrebbe il piè nella via e verrebbe verso la casa, scende in fretta con molti altri, e li fa star pronti in arme sotto il portico; egli cheto cheto va nell'androne a porsi a canto una parete, tenendo colla destra il cane e il grilletto, colla sinistra la canna d'una sua carabina, terribilmente famosa al pari di lui. Un fischio, un salto alla soglia, una sguardata, una mira, uno scoppio, il bargello per terra, tutto ciò avvenne in sei secondi. L'assassino rientrò subitamente, chiamò i bravi, e alla testa loro piombò addosso ai birri, che, sorpresi dal colpo e sopraffatti dal numero, la diedero a gambe183.

La città fu piena del caso. La notizia ne giunse al palazzo di giustizia coi birri più corridori: il capitano corse a darla al governatore. Per l'ordinario i governatori non s'impacciavano in queste faccende: non già che fosse massima di lasciar fare i tribunali; era anzi massima che i governatori potessero non solo far le leggi, ma applicarle, derogare, dispensare, dare in ogni caso gli ordini che loro paressero a proposito. Molti infatti ne venivan dati in loro nome; ma per lo più non v'era altro che il nome; l'attenzione, la volontà e l'opera loro si esercitava in tutt'altri oggetti.

Chi nasce in questo mondo nei tempi ordinarii, dice il manoscritto184, è come un sonatore d'una grande orchestra in una festa, che si sveglia nel mezzo d'una sonata e d'una danza, e trova una musica avviata, un tuono, una misura: bada un momento, per capirla bene, e poi piglia il suo stromento185 e cerca d'entrare in concerto. Così quegli spagnuoli, che nascevano per essere governatori dello Stato di Milano, trovavano una musica avviata di faccende in corso, un gran numero d'idee stabilite e predominanti, e fra l'altre questa: che la potenza spagnuola aveva, o voleva, o doveva avere su tutta l'Italia, almeno un predominio. Quando uno veniva spedito a questo governo, vi portava l'idea fissa che mantenere ed estendere questo predominio doveva essere la sua grande occupazione. Lo era in fatti, e lo sarebbe stata, quand'anche, egli, per impossibile, non avesse avute nè istruzioni, nè inclinazioni a ciò. Perchè trovava incamminata un'altra macchina opposta e complicatissima, mossa continuamente da altre potenze, che non volevano quella storia del predominio, e ne stavano sempre in sospetto, si trovava a fronte e da ogni lato un vasto e confuso sistema di resistenze, di difese, di offese, centra il quale gli bisognava pure ingegnarsi. Bisognava dunque vigilare tutti i principi e gli Stati d'Italia, mantener questi nella devozione consueta, contener quegli altri, o spaventarli, attirarli, conoscere i loro pensieri, inimicarli, o riconciliarli, secondo le occorrenze: un mondo di cose. Oltracciò i governatori erano capitani generali e conducevano in persona le guerre, che avevano fatte nascere, o che non era loro riuscito d'impedire, in Italia, o che vi si facevano come parte di guerre più generali. Avevano quindi sempre gli occhi e le mani in quella grande matassa che avevano trovata scompigliata, e scompigliata lasciavano partendo dal governo, o dal mondo; e non restava loro troppo ozio per le cose di governo interiore: le facevano fare, o le lasciavan fare, mettevano di gran ghirigori in fondo a molte carte, su le quali era scritto che eglino erano risoluti che le tali cose andassero al tal modo, senza curarsi poi di sapere nè il che, nè il perchè, fuor che in alcuni casi in cui per qualche cagione straordinaria avevano essi realmente una volontà, o una. ne veniva loro inspirata. Il caso dell'innominato era di questi: i suoi molti e grandi nimici lo avevano dipinto al governatore come uno spirito rubello, un perturbatore sedizioso, un uomo la cui audacia e impunità nel delitto accusavano d'impotenza o di trascuraggine la pubblica autorità; e nel vero non era calunnia. Il governatore, già irritato, al ricevere di quella notizia, ritenne il capitano, ebbe a sè membri del consiglio segreto, senatori, altri magistrati; si tenne consulta. Intanto colui che ne era il soggetto, rientrato in casa, e ben rinchiuso, aveva pigliata la risoluzione di non si muovere e si preparava ad ogni evento; ma in quella notte stessa, qualche amico, venuto a lui di soppiatto, gli comunicò di avere avuto avviso segreto e certo che il governatore aveva personalmente preso impegno in quell'affare, ed era deliberato di fare all'ultimo uscir del castello un corpo di moschettieri che si unisse ai birri e desse l'assalto alla casa. Non era più il caso di esitare: le forze d'un privato, anche nel supposto inverisimile che in tanto pericolo fossero per serbarglisi costanti, non potevano competere con un tale avversario, ogni volta che volesse davvero adoperar tutte le sue. Sul far del giorno l'innominato uscì con tutti i suoi bravi, e si andò a ritirare in un convento vicino. In quei luoghi gli ospiti pari suoi, accompagnati, o no. dovevano esser sofferti, anzi accolti, quand'anche fossero tutt'altro che desiderati; e la forza secolare non supponeva pure che fosse possibile d'introdurvisi. Un tal passo acquetò anche un poco la furia, e indebolì l'impegno del governatore: perchè nei casi in cui si trattava più di vincere un puntiglio che di punire un reo, la fuga di questo in un asilo poteva parere una specie di soddisfazione alla potestà civile, un confessare che non si ardiva di farle fronte nel campo della sua giurisdizione; e per un uomo, che ha molti affari grossi, poco basta a raffreddarlo in uno che non sia dei principali. Però comparve in quel giorno una grida del governatore stesso, colla quale a chi consegnasse vivo l'innominato nelle mani della giustizia, in maniera che sopra di lui ella potesse esercire li suoi atti, venivano promessi mille scudi di premio e la liberazione di quattro banditi, l'impunità propria al consegnante, s'egli fosse complice, e la liberazione, s'egli fosse bandito, purchè non lo fosse per certi casi riservati.

Vorrei poter risparmiare al lettore tutte queste notizie e riflessioni generali su le opinioni, gli usi, le istituzioni di que' tempi, e condurlo speditamente di fatto in fatto fino al termine della storia; ma i fatti che mi tocca di raccontare sono talvolta così dissimili dall'andare comune dei nostri giorni, così estranei alla nostra esperienza, che a dar loro un certo grado di chiarezza, mi par pure indispensabile di spiegare alquanto lo stato di cose nel quale e pel quale potevano essere. Altrimenti, a quelli che non hanno fatti studii particolari sopra quell'epoca, sarebbe come presentare un osso d'uno di questi animaloni di razze perdute, senza dare un po' di descrizione dello scheletro, o di quel tanto che se n'è potuto trovare e mettere insieme, per la quale si vegga come quell'osso giuocava. S'io dicessi semplicemente che tutte le promesse di quella grida non produssero alcun effetto, senza darne alcuna ragione, forse a taluno la cosa potrebbe parere strana e inverosimile; due parole dunque, abbiate pazienza, anche su questo proposito.

178.Si legge nel capitolo VIII del tomo I della seconda minuta. In realtà è la terza stesura. (Ed.)
179.Le parole tra parentesi quadre, in carattere corsivo, son quelle della vecchia edizione originale, che mutò. (Ed.)
180.Il prof. Giovanni Negri [Sui Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, commenti critici, estetici e biblici; premessovi uno studio su l'opinione del Manzoni e quella del Fogazzaro intorno all'amore, Milano, Scuola tip. Salesiana, 1903; part. I, pp. 149-157] fa alcune osservazioni intorno a questo «Addio», piene di finezza e d'acume. (Ed.)
181.L'autografo di questo brano forma il fascicolo secondo de' Fogli staccati dai Promessi Sposi. Il M. lo tolse via dal tomo II della seconda minuta, dove occupava il foglio 75 (già 93) e i fogli successivi 76-86. (Ed.)
182.Ecco nel loro «bel latino» i passi del Ripamonti che riguardano l'Innominato: «Memorabo casum unius, qui procerum urbis quum haud sane ultimus esset, rura sibi urbem fecerat, ac magnitudine facinorum, iudicia, iudicesque et fasces ipsos imperiumque contemnebat. Posito in extremis provinciae finibus domicilio, solutam quandam ac sui iuris vitam agebat, receptator exulum et exul aliquandiu ipse, postea redux, eousque progressus, ut externi principis uxorem, cum ad maritum sponsa deduceretur, raperet sibique haberet, ac iusto denique matrimonio iungeret et nuptias illas innuptas celebrari nostra aetas vidit. Domus erat illa velut cruenta officina mandatorum, capite damnati servi et capitum obtruncatores: non coquo, non aquariolo cessare licitum erat: pueris imbutae sanguine manus: et facili in Cenomanos, Bergomatesve transitu, tanto magis contumax adversus edicta maiestatemque imperii huius familia tota erat. Herus ipse cum solum aliquando, nescio, qua de causa vertere statuisset, adeo modeste id, adeoque occultus, trepidusve fecit, ut per mediani urbem cum suis canibus haud sine tubae etiam sonitu transveheretur, regiaeque ipsi obequitaret, ac Regio Gubernatori dicenda convitia portae custodibus in transitu mandaret. De hoc homine fama erat, tanquam domitis etiam adversus Ecclesiae leges et mysteria fraenis, in praecipitia penitus ac derupta abiret. Sicut ingenia eiusmodi sunt, nunquam id obiisse mysterium aiebant, ut peccata confiteretur. Voluit iste accedere ad Cardinalem, cum haud procul terribili domicilio, visitationis ordine, incessuque constitisset. Facile benigneque admittitur. Duas amplius horas in colloquio retentus est. Quae dicta fuerint haud sane comperimus, quia neque Cardinalem interrogare quisquam nostrum super ea re auderet, neque alter ille quicquam est effatus. Tanta certe mutatio repente facta est animi et vitae morumque illius, ut mirifica et magna et nova res ad colloquii virtutem et efficaciam haud dubie referretur: opusque Cardinalis id familia tota illa gladiatorum agnosceret, ac, velut erepta sibi stipe, detestaretur. Etiam alia per utramque provinciam locis opportunis dispersa familia quam truculenti nutus et patratae vel patrandae caedes alebant, mansuefacto hero, duceque sensere damnum. Simul pleriqui procerum urbis multa et occulta consiliorum atrocium funestarumque rerum societate cum eo coniuncti postea quam ea quae communicata et inchoata facinora habebant, relinqui ab eo deserique senserunt, intellexere simul, id quod erat, diversa itinera vitae ingressum neque tantae rei mutationisque authorem ignoravere. Et externorum quoque Principum nonnulli, quibus particeps et minister alicuius saepe magnae caedis ex longinquo ipse fuerat, sive qui auxilia et ministros ei saepe miserant, cito sensere mutationem. Sed causam anxii exquirebant, donec hanc etiam pertulit fama et nuntiavit. Ego sicut augendae rei causa nihil ex vano attulisse velim: ita ne his quidem demere fidem debeo, quae comperta habemus. Vidi paulo post eum virum in cruda adhuc viridique senecta, nihil ex pristina ferocia retinentem praeter vestigia et notas, quarum argumento natura unumquemque nostrum insiti vitii rerum facit. Et has tamen ipsas recens assumpta mansuetudo castigabat scilicet atque inflectebat, ut quasi magno verbere victam et domitam esse naturam appareret». Cfr. Iosephi Ripamonti, canonici scalensis, chronistae urbis Mediolani, Historiae patriae decadis V libri VI. Mediolani, ex regio Palatio, apud Jo. Baptistam et Julium Caesarem Malatestam, regios typographos, senza anno; pp. 308-311.
  Dell'Innominato ne tocca anche Francesco Rivola, biografo di Federigo Borromeo. Ecco quello che scrive: «Così copiosi ed abbondevoli furono i frutti che dalla spiritual visita della sua diocesi colse Federico, che non mi dà il cuore di potergli qui tutti sotto gli occhi d'ognuno pienamente rappresentare… Viveva in un certo castello, confinante col dominio di straniero Principe, un Signore altrettanto potente per ricchezze, quanto nobile per nascita, il quale, datosi ad ogni maniera di misfatti, opprimeva con la sua potenza quando l'uno, quando l'altro degli habitatori, arbitro facendosi degli altrui affari, così pubblici, come privati; e minacciando, anzi offendendo chiunque a' suoi cenni ardito havesse di contrariare; intanto che fatto era terrore di tutti que' contorni. Giunto in quelle parti Federico la sua diocesi visitando, volle con esso abboccarsi, per veder pure di distorlo dalla mala via e di ridurlo a porto di salute; e tanto disse, rappresentandogli con pastoral zelo il suo stato miserabile ed il pericolo dell'eterna dannatione, che lo dispose all'ammenda e fece sì che da quel giorno innanzi, con maraviglia di quanti erano de' suoi depravati costumi molto ben informati, deposta ogni presuntuosa alterigia e ferocia, tutto mite, piacevole ed ossequioso verso di tutti dimostrossi, nè fu mai più alcuno che d'un minimo suo eccesso potesse ragionevolmente dolersi». Cfr. Vita di Federico Borromeo, Cardinale del Titolo di S. Maria degli Angeli ed Arcivescovo di Milano, compilata da Francesco Rivola, sacerdote milanese, e dedicata da' Conservatori della Biblioteca e Collegio Ambrosiano alla Santità di Nostro Sig. Papa Alessandro Settimo. In Milano. Per Dionisio Gariboldi, MDCLVI; pp. 253-255.
  Ne parla pure Biagio Guenzati nel cap. 22 del lib. II della sua Vita di Federigo Borromeo, Cardinale di Santa Maria degli Angioli, Arcivescovo di Milano, compilata di nuovo e accresciuta, che si conserva inedita nella Biblioteca Ambrosiana. Scrive: «Ammirò ancora il mondo convertire le Tigri di crudeltà in Agnelli mansueti, e squagliati in lagrime di penitenza li cuori più indiamantiti per le destre maniere di Federigo. Tra li confini del dominio Milanese, Veneto e de' Grigioni godeva asilo securo un mostro di fierezza, cui per altro rendeva autorevole e temuto la nobiltà del sangue e la potenza. Questo, raccogliendo tutta la feccia dell'iniquità, che per purgarsi cacciavano fuori gli Stati confinanti, aveva al suo comando squadre di sgherri e tagliacantoni, che pascevansi colle stragi e col sangue, svenando vittime umane all'altrui odio. A quel castello, come al tribunale di Eaco o di Radamanto, ricorrevano tutti gli avidi di crudeli vendette; in quello macchinavansi tradimenti e spacciavansi sentenze di morte, che venivano eseguite in mille guise da palliati carnefici». Qui racconta varie imprese di lui; poi prosegue: «Portatosi dunque in quei contorni il Cardinale, ebbe ad albergare ancora in quella piccola Terra ove risiedeva questo Ministro di Morte. Volle questi, forse per compiere solo al debito della sua nascita cospicua, visitarlo e si trattenne segretamente con esso per due ore. Non si penetrò di che si discorresse fra loro; nè meno il Cardinale mai lo palesò».
  In una grida del 10 marzo 1603, pubblicata «In Milano, per Pandolfo et Marco Tullio Malatesti, Stampatori Regi Camerali», il Governatore di Milano, Don Pietro Enriquez de Azevedo conte di Fuentes, «conosciuto per esperienza di quanto commodo et utilità sia stata a questo Stato la grida d'ordine suo pubblicata sotto li 12 marzo 1601 contra banditi et assassini et altri facinorosi; et desiderosa l'Eccellenza sua che questi sudditi, tanto affetionati alla Maestà Catholica et da lei commessi al suo governo, possano vivere con quella maggior quiete et sicurezza che sia possibile et i malfattori siano castigati et distrutti, ha deliberato (col parere ancora del Consiglio Secreto et del Senato) che la sudetta grida si rinovi nel modo et forma che segue: Commanda S. E. che niuno, di qual conditione si sia, ardisca ricettare, nè alloggiare, o dare alcuno aiuto o favore in qualsivoglia maniera ad alcuno condannato capitalmente di morte naturale, et bandito, o assassino, sotto pena della vita et confiscatione de' beni; nè si ammetterà escusatione a' padri o fratelli o altri parenti che habbiano ricettato o dato aiuto a figliuoli, fratelli o altri parenti, i quali siano banditi, o assassini». Qui seguono sei pagine di stampa fittissima nelle quali il Governatore ordina alle varie autorità di ammazzare, scorticare e impiccare oltre dugento banditi, di cui dà il nome; poi prosegue: «Et perchè sono dispiaciuti oltre modo a S. E. gli eccessi seguiti nella persona di Lucia Vertemate, moglie che fu di Gio. Battista Piacenza, et nella persona di Geronimo Cusano et suo figlio; et parimente gli enormi et brutti misfatti commessi da Francesco Bernardino Visconte, uno de' feudatarij di Brignano Geradadda e da' suoi seguaci; concede S. E. che qualunque consegnerà vivo o ammazzerà alcuno degli infrascritti, oltre il premio pecuniario promesso nelle gride, possa liberare due banditi per qualsivoglia caso, fuorchè gli eccettuati in questa grida». Dà quindi il «Nome de' banditi per la morte della Vertemate,» il «Nome de' banditi per la morte de' Cusani,» e «Li nomi di Francesco Bernardino Visconte et suoi seguaci banditi», che son questi: «Francesco Bernardino Visconte di Brignano sudetto; Pompeo, suo uccellatore, habitante in Brignano; Battista Boldono, Cesare Zallatino et Dominico Rozzono, detto il Pelato, tutti tre habitanti in Triviglio; Gio. Battista Nicoletto da Caravaggio; l'appellato il Casale da Bagnolo Cremonese; Camilino di Salamene Parmigiano, altre volte habitante nel detto luogo di Brignano in casa del detto Francesco Bernardino Visconte». Quindi prosegue: «Nè vuole S. E. che li sudetti condannati per la morte delli detti Vertemate et Cusani et per li già detti delitti di Francesco Bernardino Visconte et complici possano godere del beneficio della presente grida; anzi li dichiara per sempre indegni di liberatione et di potere habitare in questo Stato, salvo però se alcuno dei sudetti complici ci consegnasse o ammazzasse il principale, cioè il Conte Francesco da Vimercate, o Carlo Cusano, o Francesco Bernardino Visconte, in tal caso quel tale possa godere del detto beneficio di questa grida, et non altramente».
  La grida, secondo il solito, non produsse nessun effetto; e senza nessunissimo effetto fu rinnovata il 30 maggio del 1609 e il 2 giugno del 1614. Bregnano, castello anche al giorno d'oggi di proprietà de' Visconti, resta dove il Milanese confina col Bergamasco. «I tempi rispenderebbero» (scrive il Cantù): «l'uomo era terribile: la grandezza e potenza di quella famiglia, illustre e allora e adesso, poteva trattener la penna degli storici: veggano i lettori qual peso sia a dare a questo supposto, del quale noi ci professiamo debitori allo stesso «Manzoni». Cfr. Cantù C. Sulla storia lombarda del secolo XVII ragionamenti per commento ai Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, Milano, coi tipi di Luigi Nervetti, 1831; pp. 56-57.
  Francesco Bernardino era figlio di Giambattista Visconti e di Paola Benzoni di Crema. Il LITTA [Famiglia Visconti di Milano, tav. VIII] lo dice «assoggettato alla confisca nel 1603 per commessi misfatti»; nè altro aggiunge di lui. Del padre scrive: «Del consiglio de' LX Decurioni, fatto cittadino di Cremona nel 1570. Nel 1577 era capitano generale delle cacce. Dilapidatore al giuoco del proprio patrimonio, morì in Brignano nel 1595». Dice che lasciò tre maschi: Francesco Bernardino, Galeazzo ed Ercole. Quest'ultimo era naturale; come, delle tre femmine, furono naturali Giulia e Maddalena; legittima, Caterina, che sposò Ersilio Del Maino.
  Afferma il Cusani che il canonico Giuseppe Ripamonti «faceva parte del seguito del cardinale Federigo Borromeo nella visita pastorale della pieve di Treviglio nel 1608, ove ebbe luogo la conversione del famigerato Bernardino Visconti, feudatario del vicino Brignano, cui piacque a Manzoni appellare l'Innominato». Cfr. Cusani F., Paolo Moriggia e Giuseppe Ripamonti, storici milanesi; nell'Archivio storico lombardo, ann. IV [1877], fasc. I, pag. 58. Della conversione del Visconti ne aveva già discorso nel giornale La Perseveranza del 14-16 luglio 1876. Dopo di lui ne trattarono: F. D'Ovidio, Due parole sull'Innominato, nell'Illustrazione italiana del 27 maggio 1894; A. Graf, Perchè si ravvede l'Innominato? in Foscolo, Manzoni, Leopardi, saggi, Torino, Loescher, 1898, pagine 113-138; e G. Negri, La conversione dell'Innominato e il convito della Grazia, e Se la conversione dell'Innominato fu per il Manzoni un miracolo, in Sui Promessi Sposi di A. M. commenti critici, estetici e biblici, Milano, Scuola tip. Salesiana, 1903, part. II, pp. 157-282. (Ed.)
183.Qui finiva il capitolo XIX e incominciava quello XX. (Ed.)
184.Prima scrisse: «Chi nasce in questo mondo, dice il manoscritto, e principalmente chi nasce nei luoghi dove si maneggiano i grandi affari». (Ed.)
185.Prima scrisse: «ed entra in concerto. Si dà qualche volta il caso che un sonatore con disposizioni straordinarie si svegli tra una sonata e l'altra, mentre gli stromenti sono in disarmonia e si litiga perchè ognuno vorrebbe dare il tuono: lo dà egli, fa sonare e ballare a modo suo fino a un certo segno, mena la danza, come si dice in proverbio, e per lo più la mena in modo che finisce col farsi rompere il suo stromento in mano e dar tutti gli altri su la testa: ma queste sono eccezioni che non fanno al nostro proposito». (Ed.)
Age restriction:
12+
Release date on Litres:
22 October 2017
Volume:
432 p. 5 illustrations
Copyright holder:
Public Domain