Ognuno può immaginarsi come il povero Don Abbondio passasse quei quindici giorni. Stavasi colle donne, coi vecchj e coi fanciulli nel luogo il più riposto del castello: di tempo in tempo la paura lo cacciava fuori a domandar novelle, e rare erano quelle che non gli accrescessero lo spavento. L'aspetto dell'armi, dei preparativi di difesa, da una parte, lo rincorava alquanto; dall'altra, gli era intollerabile, facendogli immaginare tutte quelle bagattelle in movimento a far carne. Si percoteva il petto e le guance, pensando alla minchioneria che aveva fatta. Mi son messo in gabbia da me stesso128, diceva tra sè, sospirando. Oh che bestia! mi sono lasciato condurre da due pettegole. E in questo pensiero s'infuriava tanto che più d'una volta tirò da parte Perpetua per isfogarsi in improperj contra di essa. Ma quando Perpetua, giustificandosi, alzava la voce, Don Abbondio la faceva tacere e cessava di garrire anch'egli, tutto impaurito che non nascesse qualche scandalo, e il Conte, tornando all'antica natura, non facesse il diavolo. Don Abbondio sedeva alla tavola del Conte, che in quell'accampamento era come la tavola dello stato maggiore: v'erano i signori del contorno, che facevano da ufiziali, le signore e qualche prete. La tavola era lieta: il Conte, da buon generale, metteva in campo e intratteneva discorsi atti ad ispirare risoluzione, a ravvicinare gli animi, a mettere i pensieri in comune, perchè i pensieri solitarj sono più vicini allo scoraggiamento. Bisognava dunque parlare e ridere, e si rideva; ma per Don Abbondio era un supplizio: e quando il Conte gli rivolgeva in particolare il discorso per animarlo un pochetto, egli allora, sforzandosi di mangiare e di ridere, faceva in una volta due smorfie che gli davano una figura veramente compassionevole.
Ma tutte le cose hanno veramente un termine: passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli d'Anhalt, passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari, passa Altringer, passa Furstenberg, passa Colloredo, passano i Croati; quando piacque al cielo passò anche Galasso, che fu l'ultimo. Lo squadrone volante de' Veneziani si mosse anch'esso per tener dietro al movimento dell'esercito alemanno su la riva opposta dell'Adda, fin dove ella era confine fra i due Stati, e portarsi poi sull'Oglio a fare la stessa processione. Quando le due retroguardie furono distanti una giornata dal castello, gli ospiti ne uscirono come uno stormo di passeri si sparpaglia all'intorno dai palchi aerei e fronzati d'una gran quercia, dove erano accorse a ricoverarsi dalla tempesta. Don Abbondio avrebbe voluto gittarsi d'un volo al suo nido, per mirar tosto cogli occhj proprj il suo dolore e il guasto che v'era stato fatto, e nello stesso tempo perchè i barberini, vedendo la casa abbandonata, non venissero a portar via quello che i barbari avevan potuto lasciare. E poi per quanto il Conte avesse dato segni e prove d'esser divenuto un galantuomo, Don Abbondio non l'aveva potuto guardar mai in volto senza ricordarsi dell'uomo brusco che era stato altre volte, e non istava con lui di buon animo, massime in picciola brigata. Ma, dall'altra parte, lo riteneva la paura di abbattersi in qualche lanzichenecco sbandato, rimasto addietro alla busca, e di affogare in porto. Era quindi sempre su le mosse e sempre s'indugiava, domandando novelle dei contorni a tutti coloro che giungevano al castello; e le novelle erano dolorose. Quei pochi, rimasti colla speranza di guardar le case, o discesi troppo presto, si erano trovati sbigottiti, storditi dalle percosse e dallo spavento; ogni arredo, ogni masserizia sparita, e in quella vece nelle case un impatto di strame, tizzoni di mobili arsi, greppi di stoviglie sfracellate per istrazio dopo avervi bevuto il vino rubato, schifezze d'ogni genere, un tanfo che toglieva il respiro, dimodochè ognuno tornando con ansia alla casa derelitta ne usciva alla prima con fastidio e doveva farsi forza a poco a poco per rientrarvi a renderla di nuovo abitabile. In qualche luogo il padrone, avanzando così per la sua casa, udiva un gemito; guardava con sospetto che fosse: era un soldato, che languiva infermo, che spirava: e il padrone ristava a quello spettacolo con un senso misto di ribrezzo e di pietà, di rancore e di spavento, scorgendo nel volto livido, nelle membra macchiate del giacente l'immagine confusa, ma terribile della peste, che fino allora forse egli aveva sprezzata come un sogno lontano.
Il Conte, argomentando da queste relazioni, che Agnese, se si fosse affrettata di tornare, non avrebbe però trovato nulla da guardare, la ritenne per due o tre giorni; e intanto raccolse, di quello che gli rimaneva, un po' di provvigione, fece mettere insieme un po' di biancheria, qualche mobile, qualche attrezzo di cucina, e, caricatone un baroccio, volle che Agnese partisse su quello con quella poca scorta e la fece accompagnare da due suoi tarchiati servi, ordinando loro che aiutassero la povera donna a ripulire la sua casa. Agnese partì dopo molte ripulse cerimoniose e mille rendimenti di grazie, e Don Abbondio e Perpetua le andarono in compagnia.
La strada fu trista per lo spettacolo continuo della distruzione e della disperazione; ma la giunta fu più trista ancora. Alla esclamazione, cento volte ripetuta, di povera gente, succedette il povero me: parola che, generalmente parlando, esce da una parte più profonda.
Cogli ajuti del Conte, Agnese potè quel primo giorno spazzare il suo povero abituro, ricogliere qualche masserizia sparsa qua e là nell'orto e nel campo, scavare ciò che aveva deposto sotterra, e tra con questi rimasugli e con quel di più che il Conte le aveva dato appresso, allogarsi in casa, se non come prima, almeno in modo da poterci stare passabilmente, anzi da eccitare l'invidia dei suoi paesani. Ma il povero Don Abbondio questa volta ebbe campo e ragione più che mai di sclamare: oh che gente! oh che gente! La sua casa era la più maltrattata del villaggio, perchè era la più apparente; e gli ospiti eroi, sospettando che ci dovesse esser più che altrove ricchezza nascosta, vi avevano impiegato più ostinate cure a metter tutto sossopra. Il sospetto non era mal fondato, nè le cure erano state inutili: e Perpetua, mettendo il piede su la soglia, tra mezzo i mobili spezzati, i fogli lacerati e le piume delle sue galline, scorse tosto con raccapriccio frantumi e brani di quelle cose ch'ella pensava aver meglio appiattate; e dovette confessare che i lanzichenecchi avevan più ingegno a scovare, ch'ella non avesse a nascondere. Don Abbondio, spinto innanzi dall'ansia di vedere i fatti suoi, e rispinto dal ribrezzo e dall'orrore, metteva il capo alla porta d'una stanza e lo ritraeva, dava tre passi e ristava. Quale spettacolo! Ogni stanza, oltre il guasto che presentava, dava tosto l'idea del guasto generale; i segni d'un vasto saccheggio erano ragunati in un picciolo angolo, come idee sottintese in un periodo scritto da un uomo di garbo. Sul focolare della cucina, per esempio, si vedevano più tizzoni spenti, i quali accennavano ancora d'essere stati un bracciuolo di seggiola, il piede d'un trespolo, un'imposta d'armadio, una doga del botticino dove Don Abbondio teneva il vino che per una lunga esperienza aveva riconosciuto il migliore amico del suo stomaco. Di questi e di tanti altri mobili non restavano che rottami, un po' di cenere e di carboni spenti; e con quei carboni, come per compenso e per un complimento al padrone, i guastatori avevano schiccherate le pareti di fantocciacci, ingegnandosi con berretti quadri e altre divise di raffigurarne dei preti e studiandosi di farli orribili e ridicolosi; intento che, per verità, non poteva fallire a tali artisti.
Don Abbondio, mettendosi le mani in que' due suoi ciuffetti grigi su le tempie, balzò di casa come un forsennato e andò di porta in porta a gagnolare, a scongiurare quegli, che tornati da qualche giorno avevano assestate alla meglio le case loro, che venissero a dare un po' di governo alla sua; e nello stesso viaggio, guardava anche chi fosse più fornito di roba salvata dalla rapina, e accattava in prestito da chi una panca, da chi una coltre, da chi un piatto, da chi una pentola; tanto che con gli ajuti e con le prestanze potè accamparsi quel giorno in casa, per riconquistarla e riordinarla poi tutta a poco a poco. Passati quei primi giorni e nel tempo appunto delle brighe e delle spese, Don Abbondio ebbe con sè stesso e con Perpetua una guerra assai fastidiosa. Perpetua, parte con la sua vista, acuta come il fiuto di un bracco, parte con la sua abilità a far ciarlare la gente, scoperse che molte masserizie del suo padrone non erano già state sciupate dai barbari, ma erano sane e salve in paese nelle mani dei barberini: ne fece tosto avvertito Don Abbondio, perchè si facesse rendere il suo. Ma Don Abbondio non voleva sentir toccare questa corda: non già che gli dispiacesse assai vedersi così rubato a man salva e sapere il fatto suo in mano d'altri, ma quegli che se lo tenevano erano i più terribili e bizzarri arieti del suo gregge; quegli dai quali Don Abbondio aveva sempre sofferto ogni cosa, piuttosto che provocarli al cozzo, che aveva sempre accarezzati e lodati come i più savj ed esemplari. Sicchè sopra il rovello e il danno aveva egli a tollerare anche le baruffe con Perpetua, e di queste baruffe ve n'era una tutte le volte che Don Abbondio si lagnava di qualche mancanza, domandava qualcheduno di quegli utensili che altri aveva fatti suoi.
– Vada a cercarlo al tale, che lo ha, diceva Perpetua, e che non lo avrebbe tenuto fino a quest'ora se non avesse che fare con un… buon uomo.
– Zitto, zitto, Perpetua, zitto.
– Zitto, zitto, rispondeva Perpetua, e così ella si lascerebbe mangiar gli occhi del capo. Rubare agli altri è peccato, ma a lei è peccato non rubare.
– Oh che spropositi! oh che spropositi! sclamava Don Abbondio. Ma sapete pure… Col nome del cielo… volete la mia morte!..
La baruffa andava talvolta in lungo, ma Don Abbondio rimaneva sempre vincitore, perchè quando si trattava di paura, egli mostrava una risoluzione e una virtù tale che Perpetua sentiva di non poter competere, e taceva la prima. Tutto quello che fece Don Abbondio fu di gittare in predica qualche motto sul dovere di restituire e su la trista sorte di chi va all'altro mondo carico dell'altrui; ma lo diceva con certe perifrasi, con un riserbo, con una delicatezza da fare onore ad un predicatore di Corte. E pure, appena quelle parole erano uscite, gli pareva che fossero state troppe e troppo ardite, e per riparare un qualche brutto effetto che ne potesse venire, passava tosto a parlare dell'ira e della mansuetudine e del gran male che è l'infierire centra quelli che non vogliono nè possono far difesa.
Poco dissimili dai ragionamenti che il popolo urlava nelle vie erano quelli che i signori schiamazzavano nelle sale. I dotti poi, convenendo per la più parte nella opinione comune, la sostenevano però con argomenti un po' più reconditi e si scatenavano contra il tribunale e contra quei pochi medici con uno sdegno e con uno scherno più filosofico. Per darcene un saggio, l'autore del manoscritto riferisce una disputa occorsa in una brigata signorile tra il nostro Don Ferrante e un Magnifico Signor Lucio, del quale l'autore, tacendo il cognome, accenna alcune qualità. Era costui professore d'ignoranza e dilettante d'enciclopedia; si vantava di non aver mai studiato, e ciò non ostante, anzi per questo appunto, pretendeva decidere d'ogni cosa; perchè i libri, diceva egli, fanno perdere il buon senso. Ammetteva bene una scienza che si poteva acquistare colla esperienza e comunicare per mezzo della parola: teneva che si possano scoprire verità; anzi non è da dire quante verità egli credesse di conoscere; ma nei libri, non so per quale raziocinio, supponeva che non si potesse consegnare altro che bugie.
Si strepitava in quella brigata contra i regolamenti della Sanità, che, divenendo di giorno in giorno più risoluti, cominciavano a non far distinzione di persone e assoggettavano anche i potenti ad una vigilanza incomoda.
– Tutto questo, diceva il Signor Lucio, in grazia dei libri, dei sistemi, delle dottrine che hanno scaldata la testa d'alcuni, i quali, per nostra sciagura, comandano. Non è ella cosa che fa rabbia e pietà nello stesso tempo il vedere quel buon vecchio di Settala, che potrebbe fare il medico con giudizio e servirsi della sua buona pratica acquistata in sessant'anni e del buon senso che gli ha dato la natura, vederlo, dico, perduto dietro sogni ridicoli, incaparbito contra il sentimento d'un pubblico intero, innamorato di quella sua idea pazza del contagio; perchè? perchè l'ha trovata nei suoi autori. Scienziati, scienziati; gente fatta a posta per creare gl'impicci.
– Piano, piano, disse Don Ferrante; il quale, benchè occupato a dissertare in un altro crocchio, aveva intesa quella scappata del Signor Lucio. Piano, piano; se si tocca la scienza, son qua io a difenderla.
– Don Ferrante fa da buon cavaliere a prender le parti d'una dama che gli comparte tanti favori, disse una signora; e il tratto riscosse un mormorìo di applauso da tutta la brigata.
– Quand'anche ciò fosse vero, disse Don Ferrante, dopo aver pensato soltanto per un mezzo minuto, una tale parzialità sarebbe da attribuirsi non al mio debol merito, ma alla innata benignità del sesso. Comunque sia, continuò egli, son qui a provare che la scienza non ha colpa in quegli spropositi che si metton fuori sotto il suo nome.
– Don Ferrante, con tutto il suo ingegno, non mi potrà sostenere, rispose il Signor Lucio, che tutte quelle belle ragioni che si dicono da alcuni per far credere che vi sia la peste, il contagio, o che so io, non sieno cavate dalla scienza.
– Dica dalla superficie, Signor Lucio, dalla superficie, rispose Don Ferrante. Anzi la scienza, chi la scava un po' al fondo, dice tutto il contrario e insegna chiaramente che il contagio è una cosa impossibile, una chimera, un non-ente.
– Sono cose che le donne possano intendere? domandò quella signora.
– La materia è un po' spinosa, disse Don Ferrante; ma vedrò di renderla trattabile. Dico dunque, che in rerum natura non vi ha che due generi di cose; sostanze e accidenti: ora il decantato contagio non può essere nè dell'uno, nè dell'altro genere; dunque non può esistere in rerum natura. Le sostanze… prego di tener dietro al filo del ragionamento… sono semplici, o composte. Sostanza semplice il contagio non è; e si prova in due parole: non è sostanza aerea, perchè se fosse, volerebbe tosto alla sua sfera, e non potrebbe rimanersi a danneggiare i corpi: non è acqua, perchè bagnerebbe; non è ignea, perchè brucerebbe; non è terrea, perchè sarebbe visibile. Sostanza composta, nè meno, perchè tutte le sostanze composte si fanno discernere all'occhio, o al tatto; e fra tutti i signori medici non vi sarà quell'Argo che possa dire d'aver veduto; non vi sarà quel Briareo che possa dire di aver toccato questo contagio. Oh benissimo; vediamo ora se può essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori che il contagio si comunica da un corpo all'altro; sarebbe dunque un accidente trasportato. Ah! ah! un accidente trasportato: due parole che cozzano, che ripugnano, che stanno insieme come Aristotele e scimunito; due parole da fare sgangherar dalle risa le panche delle scuole, da fare scontorcere la filosofia, la quale tiene, insegna, pone per fondamento che gli accidenti non possono mai mai passare da un soggetto all'altro. Mi pare che la cosa sia evidente.
– Intanto, disse il Signor Lucio, senza tutti questi argomenti, col semplice buon senso, tutti i galantuomini e il popolo stesso sanno benissimo che questo contagio è un sogno.
– Non lo sanno; perdoni, rispose Don Ferrante, lo indovinano a caso, come atomi senza cervello che, girando senza saper dove, concorressero a comporre una figura regolare. Mi dica un po', di grazia, se sapranno poi dire la cagione vera di questa mortalità.
– Oh bella! disse il Signor Lucio; la cagione è chiara; in tutti i tempi si muore; in alcuni le morti sono più frequenti, perchè v'ha più malattie; e questo è il caso nostro.
– Si, disse Don Ferrante; ma la malattia, la cagione prima delle malattie?
– Nè qui pure c'è sotto gran misterio, rispose il Signor Lucio: la carestia, la mala vita hanno cagionate le malattie.
– Tutto bene, disse Don Ferrante, ma la cagione prima?
– Io non so che cosa ella intenda per cagione prima, disse Don Lucio.
– Ora vede ella se bisogna poi ricorrere alla scienza, disse Don Ferrante. Per trovare la cagione prima delle malattie, della carestia, di tutti questi infortunj, quella che spiega tutto e che fa tutto, bisogna andar molto in fondo, anzi molto in alto, bisogna cercarla negli aspetti dei pianeti. Perchè non si vuoi fare come il volgo, che guarda in su, vede le stelle e le considera come tante capocchie di spilli confitti in un torsello: ha bene inteso dire che le stelle influiscono, ma non va poi a cercare nè come, nè quando. Abbiamo il libro aperto dinanzi agli occhi, scritto a caratteri di luce; non si tratta che di saper leggere. Ed ecco che due anni fa comparve quella gran cometa, causata dalla congiunzione di Saturno e di Giove, apparet cometa magnus in cardine dextro, la quale indicava chiaramente che l'anno susseguente, che è poi l'anno passato, doveva regnare una terribile carestia, come si è trovata la spiegazione in quest'anno, con quelle parole tanto chiare e tanto terribili: Fames in Italia morsque vigebit ubique. Che se i dotti le avessero trovate prima, non sarebbero mancati gli increduli che se ne facessero beffe; ma dopo il fatto anche i più ostinati debbono tacere. Ed ora, a furia di osservare e di calcolare, da quella congiunzione funesta si è ricavata un'altra predizione egualmente chiara; così non fosse!
Tutti stavano ansiosamente attenti; Don Ferrante levò la destra come se stesse per proferire un giuramento, la sua fronte si corrugò, la sua voce prese un tuono lugubre e solenne, e articolò la formola terribile: mortales parat morbos; miranda videntur.
– O poveretti noi! disse una signora, e, rivolta al suo vicino, chiese che cosa volesse dire quel latino.
– Le prime parole, rispose egli, voglion dire che il morbo appare mortale: il resto è una esclamazione che non significa niente129.
Don Ferrante continuò: Ecco la cagione prima della mortalità, ecco dove sta l'errore di questi pochi medici che voglion fare il singolare e resistere all'evidenza e credono di spaventarci con un grande apparato di dottrina, come se, alla fine, avessero a fare soltanto con gente che non abbia mai toccato il limen della filosofia. Non basta parlare, a proposito e a sproposito, di vibici, di esantemi, di antraci, di buboni violacei, di furoncoli nigricanti: tutte cose belle e buone, tutte parole rispettabili: ma che non fanno niente alla questione…
– Eppure, disse il Signor Lucio risolutamente, perchè gli pareva di avere alle mani una buona ragione, eppure anche quei medici non negano che l'aspetto dei pianeti presagisca malanni…
– E qui li voglio, interruppe Don Ferrante; qui dà in fuora lo sproposito. Confessano questi signori, perchè a negare un tal fatto ci andrebbe troppo coraggio, confessano che tutto il male è causato dalle influenze maligne, e poi, e poi vengono a dirci che si comunica da un uomo all'altro. Chi ha mai inteso che si possano comunicare le influenze? in quel caso gli uomini sarebbero gli uni agli altri come tanti pianeti. Confessano che il male è causato dalle influenze e dicono poi: state lontani dagli infermi, non toccate le robe infette, e schiferete il male: come se le influenze, discese dai corpi celesti in questo mondo sublunare, potessero schifarsi; come se quando le stelle inclinano al castigo si potesse declinare la loro potenza con certe precauzioni ridicole; come se giovasse sfuggire il contatto materiale dei corpi terreni, quando chi ci perseguita è il contatto virtuale dei corpi celesti. Per me credo che anche questo accecamento dei medici, e appunto dei medici, che hanno la mestola in mano, sia un effetto di quella costituzione maligna che domina in questo anno sciagurato, acciocchè, per giunta di tanti mali, ci tocchi anche il flagello dei regolamenti.
Tutti quegli uditori erano persuasi fin da prima che il male non era contagioso; sapevano che era comparsa quella cometa; avevano inteso dire che l'aspetto dei pianeti in quell'anno era funesto, ma da tutte queste idee non avevano mai pensato a cavar quel sugo che Don Ferrante espresse nella sua bella argomentazione. Uscirono tutti di quivi più atterriti di prima e nello stesso tempo più irritati contra i regolamenti e più disposti a trascurare come inutili tutte le cautele. Lo stesso contraddittore Signor Lucio partì da quella disputa più pensoso, perchè le predizioni astrologiche erano di quelle cose ch'egli riponeva non nei sogni della scienza, ma nei canoni del buon senso.
Quando ora si considera quali cose fossero a quei tempi tenute generalmente per vere, con che fronte sicura sostenute e predicate, con che fiducia applicate ai casi e alle deliberazioni della vita, si prova facilmente per gli uomini di quella generazione una compassione mista di sprezzo e di rabbia, e una certa compiacenza di noi stessi; non si può a meno di non pensare che se uno di noi avesse potuto trovarsi in quella età con le idee presenti sarebbe stato in molte cose l'uomo il più illuminato e nello stesso tempo il bersaglio di tutte le contraddizioni130.
Ma dietro questa compiacenza viene anche facilmente un sospetto. E se anche noi ora viventi tenessimo per verissime cose che sieno per dar molto da ridere alle età venture? cose da far dire un giorno: pare impossibile che quei nostri vecchj con tanta pretensione di coltura fossero incocciati di errori tanto marchiani. E perchè no? Guardandoci indietro, noi troviamo in ogni tempo una persuasione generale, quasi unanime d'idee la cui falsità è per noi manifesta; vediamo queste idee ammesse senza dibattimento, affermate senza prove, anzi adoperate alla giornata a provarne altre, dominanti insomma per una, due, più generazioni, talvolta senza proteste, senza richiami. Talvolta però ne troviamo alcuni, ma o non ascoltati, o derisi, o trattati seriamente male: cosa che ci fa strabiliare, vedendo noi ora quanto fossero ragionevoli, come esprimessero verità le più ovvie, anzi tanto ovvie che l'annunziarle ora con importanza farebbe ridere per un altro verso. Questi richiami si trovano per lo più sparsi, gittati come di passaggio, per occasione, nelle opere di sommi scrittori, o con più diretta intenzione, con qualche maggiore insistenza in libri strani e sconnessi, dove ardite verità sono confuse con arditi spropositi e con istravaganze volgari. Dal che si vede quanto fosse prepotente l'autorità di quelle idee; giacchè non ardivano impugnarle che gli uomini difesi da una gran fama, o i fanti perduti, per così dire, della letteratura, gli scrittori che non temevano più, o che ambivano la riputazione incomoda e pericolosa di amici del paradosso. Volendo poi tener dietro al corso e alle vicende di quelle idee, si trova generalmente che dopo quei primi assalti staccati, comparve qualche scrittore pensante e metodico a combatterle in regola. Allora un trambusto da non dire: quelle idee, disturbate seriamente nel loro antico e legale possesso, sono sempre state difese con sicurezza è con ardore. Si sarebbe detto ch'elle non fossero mai state così forti, così inconcusse, come in quel momento: ma noi posteri, che vediamo la cosa finita, possiamo giudicare che forza era quella. Egli era come quando uno va di notte con un lumicino a dar fuoco ad un vespajo; gli abitatori sbucano in furia; è un batter d'ale, un avventarsi, un ronzio terribile; pare che vadano ad una conquista, o che celebrino una vittoria; ma guardate al nido, è vedrete ch'egli arde; v'accorgete che tutto quel concitamento nasce dall'impaccio di non sapere dove andarsi ad alloggiare.
È cosa degna di osservazione come tutte quelle guerre si rassomiglino: in tutte i difensori furono costretti a variare ad ogni momento il sistema della difesa; ad abbandonare ogni giorno argomenti proposti con somma fidanza e ad inventarne dei nuovi, a misura che i primi erano malconci e renduti inservibili. Alcuni di quei nuovi argomenti furono talvolta molto arguti; ma per chi voleva riflettere, l'epoca stessa della scoperta era un pregiudizio contra di essi; poichè sarebbe cosa troppo strana che dopo cento o dugent'anni di persuasione e di consenso in una opinione si trovino tutto ad un tratto le ragioni fondamentali che la fanno esser vera. Un altro punto notabile di conformità che hanno avuto quelle guerre fu questo, che sempre si sono andati a scovare, un po' tardi, tutti i richiami antichi contra quelle idee, per far vedere che lo scrittore il quale veniva in campo a combatterle non diceva nulla di nuovo. E quelli che si presero di tali brighe non s'avvedevano che era un darsi della scure in sul piè: venivano a provare che la verità era già stata annunziata da molto tempo, che era stata posta loro dinanzi, e che essi non l'avevano avvertita, o l'avevano rifiutata avvertitamente.
Sarebbe una storia molto curiosa quella di tutte le idee che hanno così regnato nelle diverse età, delle origini, dei progressi e della caduta loro. Si vedrebbero le più solenni stravaganze raccolte insieme e tenute da una circostanza comune, di essere state universalmente avute in conto di verità incontrastabili. Si direbbe: nel tal secolo il negare la tal cosa, che ora nessuno vorrebbe affermare, vi avrebbe fatto mandare ai pazzerelli; nel tal altro, l'affermare la tal altra, che ora nessuno vorrebbe porre in dubbio, vi avrebbe fatto andar prigione; in quello, la tal proposizione vi avrebbe fatto perdere ogni credito; in quell'altro, era appena lecito avventurarla al tale grand'uomo, e con molta precauzione, con aria dubitativa, aggiungendovi per correzione la tal altra cosa, che ora per noi e fin d'allora era forse per lui stesso una sciocchezza badiale. Si vedrebbe un tale errore proposto da prima con timidità, sostenuto con modestia, combattuto acremente, diffuso lentamente fra i contrasti, aver poi dominato con lunga ed universale tirannia: tal altro, annunziato con pompa, come una scoperta, e tosto ricevuto: tale nato, creciuto e morto in un paese: tale, recato da di fuori e ricevuto con gratitudine; tale, sorto tra il popolo illetterato, e a poco a poco ammesso dai dotti, ridotto da essi in sistema, e restituito agli inventori con corredo di dottrine; tale, scovato in un libro vecchio; tale, immaginato da un corpo, da un uomo autorevole; tale, messo fuori da un uomo senza credito e senza merito, aver fatto grande fortuna, perchè conforme ad altre idee storte già dominanti e ad una generale disposizione degli ingegni: e per troncare con una delle specie più singolari una lista, che sarebbe troppo difficile e troppo lungo il compiere, si vedrebbe tale errore tenuto fermamente, amato, predicato con ardore fanatico dagli uomini i più colti e pensatori di un'epoca, e rispinto dal popolo e dalla folla dei dotti minori, quando per amore di prevenzioni diverse, e quando per le vere e buone ragioni: dimodochè su quel punto i posteri non trovano da compatire in un'epoca che gli uomini pei quali hanno più di ammirazione.
Ma una storia siffatta, oltre la curiosità, potrebbe avere anche uno scopo importante. Osservando riunite tante opinioni false e credute, si verrebbero certamente a scoprire molti caratteri generali, comuni a tutte, così nella indole loro, come nel modo con cui sono invalse, nelle circostanze che le hanno fatte ricevere e sostenere, nei rapporti loro con altre opinioni, o con interessi, eccetera. Questi caratteri scoperti, potrebbero poi servire come di uno scandaglio per noi: si potrebbe osservare se fra le idee, dominanti al nostro tempo, ve n'abbia alcune nelle quali questi caratteri si trovino; e cavarne un indizio per osservarle con più attenzione, con uno sguardo più libero e più fermo, e con un certo sospetto, per vedere se mai non fossero di quelle che una età impone a sè stessa come un giogo, che le età venture scuotono poi da sè con isdegno. Giacchè è cosa troppo probabile che anche noi ne abbiamo di tali, e sarebbe pretensione troppo tracotante il crederci esenti da una sciagura, comune a tutti i nostri predecessori. Io credo che molte delle nostre opinioni attuali si troverebbero avere di quei caratteri; anzi alcuno di essi vi è tanto manifestamente, che, senza studio, alla prima occhiata si può scorgere. Citiamone uno dei più estrinseci ed apparenti, e che si ravvisa in tutti gli errori antichi, ora riconosciuti tali: un errore della discussione, un'ombra, una ritrosaggine, una subita attenzione a rispingere con ira o con beffe ogni dubbio, un ricorrere tosto all'autorità dei morti e al consenso dei vivi per chiamar tante voci in soccorso a coprire quella che voleva rendere un suono diverso. Ora, mettiamoci un po' la mano alla coscienza: quante dottrine non predichiamo e non sosteniamo noi a questo modo? Se v'ha chi lo nega, è facile, non dirò farlo ricredere, ma costringerlo a somministrare egli stesso una prova novella del fatto che non vuol confessare. Se uno venisse ora a dire, per esempio: è egli veramente, inappellabilmente provato che… Eh ma! signori, voi mi fate già la cera brusca! Perdonate, non vado oltre, tronco la frase sacrilega; ripiglio il manoscritto del mio autore e torno alla storia131.