Comando Primario: Le Origini di Luke Stone—Libro #2

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Mmh. Che altro c’era? Parecchia roba. Le schematiche del cargo. Mappe e immagini satellitari delle strade della città tutt’intorno, i moli, e il lungo argine che proteggeva il porto dal Mar Nero. C’era un reportage con mappe di tutta l’area, con il grande stabilimento balneare di Sochi a nord, le acque aperte e il confine con la Georgia a sud, a breve distanza.

Così vicina eppure così lontana.

Che altro? Le analisi delle truppe al porto e nei vicini stabilimenti, che in realtà erano solo valide ipotesi. Le valutazioni delle capacità del primo intervento della città metropolitana di Sochi, che un tempo erano state buone ma attualmente erano sottofinanziate e mal gestite. La valutazione del morale: genericamente a terra. Le due disastrose guerre cecene e i successivi attacchi terroristici contro obiettivi civili, insieme alla tragedia del Kursk, aveva fatto cadere molte teste tra i pezzi grossi dell’esercito russo, e le truppe erano allo sbando.

Luke non ne dubitava. Lo shock dell’11 settembre, insieme alle ripetute battute d’arresto in Iraq e Afghanistan, e la pessima pubblicità fatta dalla stampa… aveva fatto lo stesso con il morale di molta gente dalla sua parte della barricata. L’equipaggiamento, l’addestramento e il personale americano erano in genere eccellenti, ma le persone erano persone, e quando c’erano problemi tutti ne soffrivano.

Lasciò che le informazioni si depositassero nella sua mente.

Don gli aveva promesso rinforzi una volta che fosse arrivato in Turchia, operativi sotto copertura con una profonda conoscenza del luogo, della lingua russa ed esperienza in operazioni segrete rapide e violente. Non gli aveva detto da dove sarebbero venuti, solo che sarebbero stati i migliori sulla piazza. Gli aveva promesso un modo con cui lui ed Ed, separatamente, sarebbero potuti entrare in Russia senza essere scoperti. Gli aveva promesso qualsiasi materiale avesse voluto, entro certi limiti: pistole, bombe, auto, aeroplani, tutto.

Un’immagine iniziò a prendere forma dentro di lui.

Già. Cominciò a delineare un piano. In un mondo ideale… se avesse avuto qualsiasi cosa avesse voluto… con l’elemento della sorpresa… totale impegno… movimenti rapidissimi…

Forse poteva funzionare.

* * *

“Un tempo mi chiamavano Mostro.”

Luke fissò Ed. Erano gli unici svegli, seduti in fondo all’aereo. Ma Luke stava iniziando a spegnersi. Davanti a loro Trudy era ancora raggomitolata su se stessa, e Swann era steso in maniera scomposta, con le lunghe gambe allungate attraverso il corridoio.

Le tende sui finestrini erano abbassate ma cominciavano a intravedersi i primi raggi di sole alle estremità. In qualsiasi parte del mondo si trovassero, ormai era mattina.

Lui aveva appena spiegato la missione a Ed, così come l’aveva immaginata. Pensava che l’altro uomo gli avrebbe dato un parere. Quella parte gli sembrava possibile? C’erano dei buchi di cui non si era accorto? Che tipo di armi avrebbero dovuto portare? Che genere di equipaggiamento dovevano usare?

Invece si sentì dire quella frase: “Un tempo mi chiamavano Mostro.”

Era l’unica risposta che gli serviva. Quell’uomo era davvero un mostro. Se fosse stato necessario, si sarebbe occupato di quel problema con metà piano e una manciata di chiodi arrugginiti.

“Chissà perché la cosa non mi sorprende,” commentò.

Ed scosse la testa. Anche lui era semi-addormentato. “Non per via della mia stazza. Perché ero malvagio. Sono cresciuto a Crenshaw, a Los Angeles. Il maggiore di quattro fratelli. La cosa più vicina a un supermercato nel quartiere era un negozio che vendeva liquori, biglietti della lotteria e lattine di zuppa e tonno. A volte mia madre non riusciva a pagare le bollette.

“Io mi sono detto: no-oh. Non può andare così. Non è giusto vivere in questa maniera, io cambierò le cose. Ho cominciato a lavorare in strada quando avevo dodici anni, cercando di guadagnare qualcosa. Arrivato a quindici frequentavo il peggio del peggio, e io ero il più cattivo di tutti. Non facevo che entrare e uscire dal riformatorio. Non stavo cambiando un bel niente.”

Ed sospirò pesantemente. “Per dieci volte ho rischiato di morire. Altra gente c’ha lasciato la pelle. Io ho visto da vicino i proiettili ben prima di andare in Iraq, in Afganistan, o in uno qualsiasi di quei posti classificati dove in teoria non sono mai stato.”

Socchiuse gli occhi e scosse la testa. “Sono finito davanti a un giudice quando avevo diciassette anni. Lei mi ha detto che ormai potevano processarmi da adulto. Avrei potuto passare anni in una prigione da bimbo grande. Oppure mi avrebbero sospeso la sentenza se mi fossi unito all’esercito degli Stati Uniti. Stava a me scegliere.”

Sorrise. “Che altro potevo fare? Mi sono arruolato. Sono arrivato all’addestramento base e subito il sergente istruttore, tale Brooks, mi ha preso di mira. Il Sergente Maggiore Nathan Brooks. Non gli piacevo e decise che doveva spezzarmi.”

“L’ha fatto?” chiese Luke. Non riusciva a immaginarselo, ma non era la prima volta che sentiva una storia simile. “Ti ha spezzato?”

Ed scoppiò a ridere. “Oh, certo. Mi ha distrutto. E poi l’ha fatto di nuovo. E di nuovo. Nessuno mi aveva mai conciato in quella maniera in tutta la mia vita. Capì immediatamente che uomo ero. Mi trasformò nel suo progetto personale. Mi disse: ‘Ti credi un duro, negro? Non sei un duro. Non sai nemmeno che significa essere un duro. Ma te lo farò vedere io.’”

“Era un bianco?” gli domandò lui.

L’altro scosse la testa. “Nah. Di quei tempi se un uomo bianco mi avesse chiamato negro lo avrei ucciso. Era un fratello, veniva da qualche parte del South Carolina. Non lo so. Comunque mi spaccò in due. E quando finì mi rimise insieme, un po’ meglio di prima. Così mi trasformò in qualcosa con cui l’esercito poteva lavorare, per fare qualcosa di buono di me.”

Per un momento rimase in silenzio. L’aeroplano sobbalzò in mezzo a una turbolenza.

“Non ho mai trovato la maniera per ringraziarlo.”

Luke scrollò le spalle. “Beh, non è finita. Mandagli dei fiori. Una cartolina di auguri, non lo so.”

Ed sorrise di nuovo, ma quella volta fu un’espressione malinconica. “È morto. Circa un anno fa. All’età di quarantatré anni. Era stato in servizio per venticinque, sarebbe potuto andare in pensione quando voleva. Invece pare che si sia offerto volontario per l’Iraq, e ce l’hanno mandato. Era in un convoglio finito in un’imboscata vicino a Mosul. Non conosco tutti i dettagli. L’ho visto su Stars and Stripes. A quanto pare era un ufficiale pluridecorato. Non lo sapevo quando era il mio sergente. Non me ne aveva mai parlato.”

Si interruppe. “E non gli ho mai detto che cosa significasse per me.”

“Probabilmente lo sapeva,” lo confortò Luke.

“Già. Probabilmente sì. Ma avrei dovuto dirglielo lo stesso.”

Lui non lo negò.

“Dove è tua madre?” chiese invece.

Ed scosse la testa. “Ancora a Crenshaw. Ho cercato di convincerla a trasferirsi a est insieme a me, ma non ne ha voluto sapere. Dice che tutti i suoi amici sono lì! Quindi io e mia sorella abbiamo fatto una colletta e le abbiamo comprato un piccolo bungalow a sei isolati dalla topaia dove abitavamo. Una quota del mio stipendio mensile serve a pagare il mutuo di quel posto. Proprio nel vecchio quartiere da cui volevo uscire a costo della vita stessa.”

Fece un lungo sospiro. “Almeno c’è cibo nel frigo e le bollette sono pagate. Immagino che non importi altro. Lei dice: ‘Nessuno mi dà fastidio. Sanno che sei mio figlio. E se mi infastidiscono ci penserai tu.’”

Luke sorrise. Ed fece lo stesso, e quella volta fu più genuino.

“È impossibile, amico.”

Lui dovette scoppiare a ridere. Dopo un momento Ed si unì a lui.

“Ascolta,” disse l’altro uomo. “Mi piace il tuo piano. Credo che possiamo farcela. Con un altro paio di uomini, quelli giusti…” Annuì. “Sì. È fattibile. Devo farmi un’altra quarantina di minuti di sonno, e forse verrà qualche idea anche a me e avrò qualcosa da aggiungere.”

“Per me sta bene,” replicò lui. “Non vedo l’ora, ma vorrei che nessuno della nostra squadra si facesse ammazzare là fuori.”

“Specialmente non noi,” aggiunse Ed.

CAPITOLO SETTE

26 giugno

6:30 a.m. Ora legale orientale

Special Activities Division, Direttorato delle operazioni

Central Intelligence Agency

Langley, Virginia

“Sembra che il presidente abbia perso il senno.”

“Oh?” chiese l’uomo anziano mentre fumava la sua sigaretta. Sembrava che avesse la gola piena di ghiaia. I suoi denti erano giallo scuro. La recessione gengivale li faceva sembrare più lunghi. Sbattevano insieme quando parlava e l’effetto era terrificante. “Mi dica.”

Erano nelle viscere del quartier generale. Nella maggior parte delle sale dell’edificio era vietato fumare. Ma lì nel sancta sanctorum? Tutto era concesso.

“Sono sicuro che l’ha già saputo,” rispose l’agente speciale Wallace Speck.

Sedeva dall’altra parte di un’ampia scrivania metallica davanti all’anziano. Sulla scrivania non c’era quasi niente. Nessun telefono, nessun computer, neanche un foglio di carta o una penna. C’era solo un posacenere in ceramica bianca, traboccante di mozziconi di sigarette.

L’uomo anziano annuì. “Mi rinfreschi la memoria.”

“Ieri ha suggerito che lasciassimo l’equipaggio della Nereus a marcire nelle prigioni russe. Lo ha detto di fronte a venti o trenta persone.”

“Salti le parti poco interessanti,” ordinò il vecchio. Erano in una stanza senza finestre. Prese un tiro alla sigaretta, lo trattenne e poi espirò una piuma di fumo blu. Il soffitto era almeno quattro metri e mezzo sopra le loro teste, e il fumo volò verso l’alto.

 

“Beh, ha ritirato la proposta. Ma ha tagliato noi e i nostri fuori dalla missione di salvataggio, per lasciarla nelle mani del nostro nuovo fratellino dell’FBI.”

“Salti,” ordinò l’anziano.

Wallace Speck scosse la testa. Quell’uomo era in condizioni disastrose. Come faceva a essere ancora vivo? Fumava una sigaretta dopo l’altra sin da prima che lui nascesse. Il suo volto pareva un vecchio foglio di giornale, ingiallito quasi quanto i denti. Le sue rughe avevano le rughe. Il suo corpo era privo di qualsiasi tono muscolare. La carne sembrava pendergli dalle ossa.

Quel pensiero lo fece ripensare a una volta in cui aveva mangiato in un ristorante elegante. “Come è il pollo stasera?” aveva chiesto al cameriere. “Magnifico,” aveva detto quello. “La carne si stacca subito dall’osso.”

La carne del vecchio era tutt’altro che magnifica. Ma i suoi occhi erano ancora taglienti come rasoi, concentrati come laser. Erano tutto quello che gli rimaneva.

Quegli occhi lo fissavano. Volevano ogni dettaglio scabroso. Volevano le parti che preoccupavano le persone come Wallace Speck. Lui era l’uomo che sapeva trovare i dettagli scabrosi, e faceva bene il suo lavoro. Era molto bravo. Ma a volte si chiedeva se la Special Activities Division della CIA non stesse superando i limiti del suo mandato. A volte si chiedeva se quelle attività speciali non fossero un tradimento.

“Ha difficoltà a dormire,” continuò. “Sembra che non abbia superato lo shock del rapimento della figlia. Usa l’Ambien per dormire, e spesso manda giù le sue pillole con un bicchiere di vino o due. È un’abitudine pericolosa, per ovvie ragioni.”

Speck si interruppe. Avrebbe potuto dargli la documentazione cartacea, ma l’uomo anziano non voleva leggerla. Voleva solo ascoltare. Lo sapeva. “Abbiamo registrazioni e trascrizioni di una decina di telefonate che ha fatto verso il ranch della famiglia in Texas negli ultimi dieci giorni. Sono conversazioni con la moglie. In ogni chiamata esprime il desiderio di lasciare la presidenza, tornare al ranch, e passare del tempo con la famiglia. Durante tre di quelle telefonate è scoppiato a piangere.”

L’anziano sorrise e ispirò un’altra lunga boccata di fumo. I suoi occhi si strinsero e tirò fuori la lingua. Sulla punta c’era un pezzo di tabacco. Sembrava una lucertola. “Bene. Altro.”

“Ha una specie di ossessione, un vero culto dell’eroe, per Don Morris, il nostro piccolo rivale del Gruppo d’Intervento Speciale dell’FBI.”

L’uomo agitò in cerchio la mano.

“Altro.”

Speck scrollò le spalle. “Come sa il presidente ha un cagnolino. Ha cominciato a portarlo fuori a tarda notte nei terreni della Casa Bianca. Si infuria se incontra un agente dei Servizi Segreti mentre è in giro. Qualche sera fa ne ha incontrati due in dieci minuti, e ha fatto una scenata. Ha chiamato l’ufficio di supervisione notturna e gli ha ordinato di ritirare gli uomini. Non sembra più rendersi conto che sono lì per proteggerlo. Crede che gli stiano intorno solo per irritarlo.”

“Mmh,” commentò l’anziano. “Cercherebbe di scappare?”

“Non lo direi plausibile,” disse Speck. “Ma con questo presidente non si sa mai cosa abbia in mente.”

“Che altro?”

“Il gruppo di azione politica ha iniziato a cercare modi per rimuoverlo,” continuò lui. “L’impeachment è fuori questione per via di una divisione nel Congresso. Oltretutto il portavoce della Camera è un alleato di David Barrett ed è d’accordo con lui per la maggior parte delle questioni importanti. È improbabile che dia il via all’impeachment o che permetta che accada sotto il suo controllo. Pare che non sia impossibile anche la rimozione per il venticinquesimo emendamento. Secondo me Barrett non vorrà ammettere l’incapacità di eseguire il proprio lavoro, e se il vice presidente tentasse…”

L’uomo anziano sollevò una mano. “Ho capito. Salti avanti. Mi dica questo: abbiamo degli agenti dei Servizi Segreti che si occupino delle operazioni notturne nei terreni della Casa Bianca? Uomini che siano leali a noi?”

“Certo,” rispose lui. “Sì.”

“Bene. Ora mi parli dell’operazione di salvataggio in Russia.”

Speck scosse il capo. “Non abbiamo dettagli. Don Morris è notoriamente riservato con le sue informazioni. Ma non hanno molti agenti da mandare in campo, almeno non ancora, quindi possiamo supporre che l’abbia affidata ai suoi due agenti migliori, Luke Stone ed Ed Newsam, entrambi giovani, e tutti e due ex operativi della Delta Force con grande esperienza nel combattimento.”

“Quelli che hanno salvato la sfortunata figlia del presidente?”

Lui annuì. “Sì.”

L’anziano sorrise. I suoi denti erano zanne gialle. Poteva passare per il più vecchio tra tutti i vampiri, uno che non assaggiava il sangue da molto, moltissimo tempo. “Sono dei cowboy, vero?”

“Ah… credo che abbiamo la tendenza a sparare prima e poi…”

“Abbiamo intenzione di intervenire? Deragliare la loro operazione in qualche modo?”

“Ah…” disse Wallace Speck. “È stata considerata tra le opzioni. Voglio dire, al momento non abbiamo molto…”

“Non fatelo,” ordinò il vecchio. “Levatevi dalla loro strada e lasciate che si scatenino. Magari si faranno ammazzare. Magari daranno il via a una guerra mondiale. In ogni caso per noi andrà bene. E se David Barrett fa qualcosa di folle, e intendo folle davvero, tenetevi pronti a prendere il controllo della situazione.”

Wallace Speck si alzò per andarsene.

“Sì, signore. C’è altro?”

Il vecchio lo guardò con gli occhi antichi di un demone. “Sì. Cerchi di sorridere un po’ di più, Speck. Non è ancora morto, quindi si sforzi di godersi il suo tempo su questa terra. Dicono che dovrebbe essere divertente.”

CAPITOLO OTTO

11:20 p.m. Ora legale di Mosca (3:20 p.m. Ora legale orientale)

Porto di Adler, Distretto di Sochi

Krasnodar Krai

Russia

“Siamo certi che ci vogliano a suonare a questo concerto?” chiese Luke al telefono satellitare blu che aveva in mano. “Secondo me faremo un bel casino.”

Si appoggiò a una vecchia berlina Lada nera, di produzione ungherese. Il modello squadrato gli ricordava una vecchia Fiat o la Yugo, solo meno elegante. Sembrava fatta di lastre di metallo di scarto saldate insieme. Emetteva un vago odore di olio bruciato. Più veloce avanzava e più forte vibrava, come se stesse per andare in mille pezzi. Per fortuna non era il loro mezzo per la fuga.

Poco distante, un ceceno corpulento di nome Aslan stava fumando una sigaretta e urinando attraverso una rete metallica. Aslan preferiva essere chiamato Frenchy. Questo era perché dopo il collasso della Cecenia era scappato dai russi nascondendosi a Parigi per qualche anno. I suoi tre fratelli e suo padre erano morti in guerra. Ora Frenchy era tornato e odiava i russi.

Erano in un parcheggio vuoto vicino alla foce del fiume Mzymta. L’odore umido e pungente di acque reflue non trattate si alzava dal canale. Da lì iniziava un tetro viale pieno di magazzini, che portava dalla riva fino a un piccolo porto di carico sorvegliato da una guardiola e una recinzione acuminata. Nel chiarore delle deboli lampade a sodio giallastre si intravedevano degli uomini in movimento attorno al posto di blocco.

Le antiche e grandiose dacie del Partito Comunista, i nuovi alberghi e i ristoranti, e le luccicanti spiagge sul Mar Nero di Sochi erano ad appena otto chilometri di distanza. Ma Adler era un luogo deprimente e scombinato quanto solo un porto russo sapeva essere.

La voce di Mark Swann arrivava al suo telefono con un certo ritardo, perché prima rimbalzava per tutto il mondo, da un network segreto e un satellite spia all’altro, e tremava per l’eccitazione nervosa.

Luke scosse la testa e sorrise. Swann era in una suite penthouse con la bellissima Trudy Wellington, in un albergo a cinque stelle a Trabzon, in Turchia. La loro storia di copertura li voleva una coppietta di giovani sposini della California. Se avessero cominciato a volare proiettili, Swann li avrebbe guardati da uno schermo del computer, quasi ma non esattamente live, via satellite. Era per quello che gli tremava la voce.

“Ci hanno dato il via libera,” confermò il ragazzo. “Sanno che i vicini potrebbero lamentarsi.”

“E la palla da discoteca?”

“Proprio dove avevamo chiesto che fosse.”

Luke lanciò un’occhiata a una vecchia e arrugginita nave da carico di media grandezza, la Yuri Andropov II, ormeggiata al molo. Pensò che un vecchio specialista della tortura del KGB come Andropov si sarebbe rivoltato nella tomba se avesse saputo che quella cosa portava il suo nome. Qualcuno doveva aver pensato che fosse divertente.

La palla da discoteca, ovviamente, era il sommergibile sequestrato, il Nereus. Il suo chip GPS segnalava che era ancora dentro la stiva della nave.

“E gli strumenti?” Valeva a dire l’equipaggio del Nereus.

“Al piano di sopra nel guardaroba, per quanto ne sappiano.”

“Aretha? E lei cosa ha da dire?”

La voce di Trudy Wellington risuonò a telefono, solo per un istante.

“I tuoi amici stanno già festeggiando in spiaggia.”

Luke annuì. Appena a sud di lì c’era il confine con l’ex Repubblica Sovietica della Georgia. In quel momento i georgiani e i russi erano ai ferri corti. Trudy sospettava che uno di quei giorni si sarebbero fatti la guerra, ma con un po’ di fortuna non sarebbe iniziata quella sera.

Il centro balneare georgiano di Kheivani era subito a destra di quel confine. Era un posto più tranquillo e sonnolento rispetto a Sochi. Là sulla spiaggia scura c’era una squadra di recupero, in attesa di ricevere i prigionieri salvati, sempre che fossero riusciti ad arrivare fino a quel punto.

Dalla spiaggia, i prigionieri sarebbero stati allontanati dal confine per essere portati più dentro alla Georgia, e infine fuori dal paese. Eventualmente, quando avessero raggiunto un posto sicuro, sarebbero stati aggiornati su tutta la faccenda.

Quella faccenda non era problema di Luke. Per sua esplicita scelta non sapeva niente di cosa sarebbe successo. Don e Paparino Cronin si erano occupati di quella parte e lui non aveva neanche idea di chi fosse coinvolto. Gli avrebbero potuto tagliare le dita e strappare gli occhi, e Luke non avrebbe potuto dire niente.

“Il grand’uomo si è unito al gruppo?” chiese.

La voce di Ed Newsam risuonò. L’ululato del vento e il ruggito dei motori dei macchinari quasi la soffocavano. “È nello spogliatoio e pronto a salire sul palco. Prima è e meglio è, per quel che lo riguarda.”

Luke sospirò. “Va bene,” disse, e il peso della decisione gli piombò sulle spalle come un macigno. Molta gente sarebbe morta. Tutti ne erano consapevoli prima di iniziare un’operazione. Solo che nessuno sapeva chi.

“Facciamolo.”

“Ci vediamo a Las Vegas,” lo salutò Swann.

“Cerca di non perderti i fuochi d’artificio,” gridò Ed. “Ho sentito che saranno una figata.”

La chiamata si chiuse. Luke lasciò cadere il telefono satellitare sull’asfalto nero e spaccato del parcheggio. Sollevò uno stivale per abbatterlo sul dispositivo, spaccando il guscio di plastica. Lo fece di nuovo, ancora e ancora. Poi spinse i frammenti in un tombino e dentro l’acqua.

Tanto ne aveva un altro.

Alzò lo sguardo.

Frenchy era davanti a lui. Il suo volto era largo e la pelle sembrava grossa, come una maschera di plastica. Aveva capelli neri come la pece pettinati all’indietro. Per mescolarsi meglio alla società russa si era rasato con cura. Di norma il suo popolo portava folte barbe per Allah.

Sul fisico possente indossava una larga giacca a vento scura. La notte era un po’ troppo calda per l’indumento. Fissava Luke con occhi severi.

“Sì?” chiese.

Luke annuì. “Sì.”

Frenchy diede una lunga boccata alla sua sigaretta. Esalò lentamente il fumo. Poi sorrise e annuì.

“Sono felice.”

* * *

“Veloce,” disse Ed Newsam. Non stava parlando con qualcuno in particolare. Era una fortuna perché non c’era nessuno che potesse sentirlo.

“Molto, molto veloce.”

Era ritto nell’abitacolo, a piedi nudi, con le mani sul timone di una barca a forma di cuneo. L’imbarcazione era lunga e stretta, con una prua gigantesca. A poppa c’erano cinque grossi motori a 275 cavalli. Aveva solo due posti a sedere.

 

In America l’avrebbero definita una barca ‘cigarette’ o una ‘go-fast’. Nei giorni prima della localizzazione satellitare, i trafficanti di droga nel sud della Florida l’avevano usata per scappare dalla Guardia Costiera. Quella barca però non era carica di cocaina.

Proprio sulla punta, a prua della barca, c’era un minuscolo scomparto, che era pieno zeppo di TNT.

Ed sfrecciava nella notte, a luci spente, rimbalzando sulle onde. I motori ruggivano con gran fragore. Il vento ululava attorno a lui. Davanti, a poca distanza, c’era il litorale buio della Georgia. Alle sue spalle c’erano le luci brillanti di Sochi. La città si stava godendo i suoi anni d’oro post-comunismo. Le imbarcazioni costose come la sua si trovavano con facilità.

In effetti dietro di lui c’era un altro motoscafo che avanzava alla sua stessa velocità.

Alla guida della seconda barca c’era uno georgiano spericolato e fuori di testa di nome Garry. Ed non riusciva a vederlo, perché anche lui viaggiava con le luci spente. Non riusciva nemmeno a sentirlo. C’era troppo rumore per riuscire a distinguere qualsiasi cosa. Ma sapeva che era là. Doveva esserci.

Ne andava della sua vita.

Garry, insieme al folle autista ceceno di Stone, Frenchy, era stato assunto dal paparino Cronin. Paparino era un uomo della CIA, e in teoria avrebbero dovuto lasciare fuori l’agenzia da quella missione, ma gli avevano chiesto lo stesso aiuto. L’unico rischio era che ci fosse una talpa all’interno della CIA.

“La CIA paga lo stipendio di Bill Cronin,” aveva detto Don Morris. “Ma quell’uomo è una legge e un mondo a se stanti. Se ci presta degli operativi non saranno spie. Non avremo problemi di sicurezza, posso garantirvelo.”

Quindi Garry era là fuori con la vita di Ed, Luke e tutti gli altri nelle sue mani.

Alla sua destra, a est, c’era un lungo argine di pietra che sporgeva sull’acqua. Proteggeva la piccola area portuale. Dopo averlo raggiunto in diagonale lo seguì per tutta la sua lunghezza e rallentò leggermente giusto per virare di colpo verso la terra.

Alzò lo sguardo verso il cielo, per controllare se ci fossero velivoli di vedetta.

Niente. Tutto libero.

Sopra l’argine c’erano pontili di cemento. Si sviluppava parallelamente alla terraferma, a un centinaio di metri dalla riva, e insieme creavano uno stretto passaggio lungo un chilometro. All’estremità c’era la nave da carico, la Yuri Andropov II.

Ed aveva il compito di farci dentro un buco. Doveva aprirci un varco e magari anche appiccare un piccolo incendio, abbastanza da causare una distrazione, un depistaggio. Abbastanza perché Stone e Frenchy riuscissero a intrufolarsi sulla nave, liberare i prigionieri e magari anche affondare il sommergibile.

I russi sapevano che gli americani li stavano guardando dall’alto, quindi il porto sembrava semivuoto. C’era solo una vecchia nave da carico, poca sicurezza, niente di interessante da vedere.

Ma Ed aveva visto i cecchini. Guidare la sua barca lungo lo stretto passaggio sarebbe stata una vera sfida.

Raggiunse l’imboccatura del passaggio e fece un profondo respiro.

“Garry, sarà meglio che tu sia con me.”

Diede gas e il motore ruggì.

La sua imbarcazione sfrecciò in avanti, persino più rapida di prima.

La terra gli scorse veloce su entrambi i lati, l’argine a sinistra e la riva a destra, ma Ed aveva lo sguardo sull’obiettivo. Ormai la vedeva, l’Andropov, che incombeva davanti a lui. Era ormeggiata in posizione perpendicolare rispetto alla sua barca. Poteva ammirarla in tutta la sua grandezza.

“Bellissima.”

Alla sua sinistra, alcuni uomini correvano lungo il pontile. Ai suoi occhi apparivano come minuscole figurine, troppo lenti per poterlo fermare.

Si chinò il più possibile, sapendo già che cosa stavano per fare. Un istante più tardi il fuoco di armi automatiche crivellò un lato della barca. Più che udirlo e vederlo lo percepì. L’impatto devastante dei proiettili di grosso calibro gli stava persino alterando la rotta.

Il parabrezza andò in mille pezzi.

L’Andropov era sempre più vicina, sempre più grande.

C’era una sbarra di metallo sul pavimento. Ed la sollevò. A un’estremità c’era un dispositivo di presa, simile a una mano. L’agganciò al timone e incastrò l’altro capo in uno slot metallico saldato a terra.

Vecchia scuola, ma sarebbe bastato. Così la barca sarebbe stata costretta ad avanzare diritta.

Alzò lo sguardo. Ormai l’Andropov era lì.

Sembrava proprio LI’.

“Oh oh, è il momento di andare.”

Schizzò sul lato destro della sua imbarcazione, lontano dal fuoco nemico. Si acquattò, facendo forza sulle gambe, e poi saltò oltre la frisata. Si raggomitolò su se stesso, simile a un bambino che volesse atterrare a palla di cannone nella piscina del quartiere.

La barca sfrecciò via mentre lui era ancora sospeso in aria.

Vagamente, avvertì la sensazione di cadere, di attraversare il cielo. Passò un lungo momento e poi sprofondò nell’acqua. Per un istante l’oscurità lo circondò da ogni lato. La penetrò come un siluro, godendosi il brivido della velocità.

Il mare soffocò il rombo dei motori che si allontanavano.

Per un istante gli sembrò di fluttuare in un ventre e sotto una calda luce. Capì che il faretto sul suo giubbotto di salvataggio si era attivato. Il giubbotto lo riportò in fretta in superficie, ai rumori e all’acqua sconvolta dal passaggio della nave.

Prese una boccata d’aria e poi ritornò sott’acqua. I cecchini avrebbero continuato a dargli la caccia per qualche altro secondo.

Dopo di che…

Tornò di nuovo in superficie. Era tutto buio: la notte, l’acqua, ogni cosa.

Non riusciva a vedere la barca. Poi la notò. Si muoveva in fretta, sparendo in lontananza. Era minuscola sotto l’ombra gigantesca dalla nave da carico.

Ed si gettò di nuovo sott’acqua, affidando la sua salvezza all’oscurità.

* * *

Luke era appoggiato alla Lada, fingendo di fumare una sigaretta. Tutti da quelle parti fumavano, quindi aveva pensato che avrebbe potuto aiutarlo con il suo travestimento. L’aveva fatto qualche volta alle superiori, ma non ci aveva mai preso l’abitudine. Preferiva il football.

Inspirò una boccata, tenne il fumo in bocca per un paio di secondi e poi lo soffiò fuori di colpo. Sapeva di smog. Quasi rise di sé. Se qualcuno lo avesse guardato, avrebbe notato subito quanto sembrava ridicolo.

Gettò la sigaretta accesa in un canale di scolo.

La Lada era parcheggiata a una cinquantina di metri dal cancello di sicurezza del piccolo porto. Frenchy si era avvicinato per chiedere indicazioni alle guardie. Luke vedeva un gruppetto di uomini, sagome scure nella nebbia, ombre gettate dai lampioni arancioni, che parlavano e ridevano al cancello. In effetti Frenchy era un tipo divertente. Sapeva far ridere chiunque.

Fumava anche senza sosta. Finiva una sigaretta fino a ridurla in un mozzicone, lo gettava e ne iniziava un’altra. Frenchy era fatto così.

All’improvviso esplosero dei colpi. Venivano dall’altro capo del molo. A trecento metri di distanza, Luke vide i lampi dei fucili.

POP! POP! POP! POP!

Poi sentì le grida degli uomini. Qualcuno urlò in preda al terrore, un lungo strillo in falsetto.

Partì anche il suono di una mitragliatrice, un’arma completamente automatica. Luke udì il rimbombo metallico delle sue cartucce.

DUH-DUH-DUH-DUH-DUH-DUH-DUH-DUH.

Le guardie si allontanarono di corsa dal cancello, diretti verso l’azione. Era il suo momento. Era in ballo.

Ma poi Frenchy fece qualcosa di inaspettato. Non appena le guardie gli ebbero dato la schiena, tra le mani gli apparve una pistola. L’afferrò ben stretta e iniziò a sparare. I suoi colpi erano RUMOROSI.

BANG! BANG! BANG! BANG! BANG!

Colpì le guardie alle spalle. Quelle si voltarono verso di lui, e allora gli sparò in faccia. Poveretti, non sapevano che pesci pigliare.

“Frenchy!” Luke stava per gridare il nome del collega, ma si trattenne.

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