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Senilità

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XII

Era già entrato in casa, e nel tinello, col cappello in mano, stava titubante, dubbioso se sfuggire alla noia di rimanere un’ora a faccia a faccia con la muta sorella. In quella sentì dalla stanza di Amalia il suono di due o tre parole confuse, poi una frase intera: – Via di qua, brutta bestiaccia. – Trasalì! La voce era alteratissima dalla fatica o dall’emozione, tale che somigliava a quella della sorella soltanto come un urlo uscito involontariamente dalla gola può somigliare alla voce modulata di chi dice. Ella ora dormiva e sognava di giorno?

Aperse la porta evitando di far rumore e gli si presentò agli occhi uno spettacolo del cui ricordo non seppe mai più liberarsi. Durante tutta la sua vita bastò che i suoi sensi fossero colpiti dall’uno o dall’altro dei particolari di quella scena, per ricordarla immediatamente tutta, per fargliene sentire lo spavento, l’orrore. Alcuni villici passavano cantando per una via vicina e il loro canto monotono chiamò poi sempre le lagrime agli occhi d’Emilio. Tutti i suoni che gli giungevano erano monotoni, senza calore e senza senso. In un appartamento vicino, un dilettante maldestro stonava sul pianoforte un valzer volgare. Quel valzer sonato così – e lo riudì spesso – gli parve una marcia funebre. Anche l’ora, lieta, divenne triste per lui. Il meriggio era trascorso da poco e dalle finestre di faccia veniva riflesso nella stanza solitaria tanto sole da abbacinare. Eppure il ricordo di quel momento andò sempre congiunto ad una sensazione di oscurità e di freddo raccapricciante.

Le vesti di Amalia giacevano sparse al suolo ed una gonna aveva impedito alla porta d’aprirsi tutta; alcuni panni giacevano sotto il letto, la camicetta era chiusa fra le due vetriate della finestra e i due stivali, con evidente accuratezza, erano posti proprio nel centro del tavolo.

Amalia seduta sulla sponda del letto, coperta della sola corta camicia, non s’era avvista della venuta del fratello e continuava a fregare con le mani le gambe sottili come fuscelli. Dinanzi a quella nudità Emilio ebbe la sorpresa ed il fastidio di trovarla somigliante a quella di un ragazzo malnutrito.

Non comprese subito di trovarsi dinanzi ad una delirante. Non s’accorse dell’affanno; attribuì la respirazione romorosa e congiunta a tanta fatica da moverle persino i fianchi, alla posizione affaticante. Il primo suo sentimento fu d’ira: lasciato libero da Angiolina, trovava pronta quell’altra per dargli noie e dolori. – Amalia! che fai? – le chiese rimproverando.

Ella non lo udì mentre doveva percepire i suoni del valzer, perché ne segnava il ritmo nel lavorìo a cui era intenta sulla propria gamba.

– Amalia! – ripeté debolmente, sbigottito dall’evidenza di quel delirio. Le toccò con la mano la spalla. Allora ella si volse. Da prima guardò la mano di cui aveva sentito il contatto, poi lui in faccia; nell’occhio ravvivato dalla febbre null’altro che lo sforzo di vedere, le guance infiammate, le labbra violacee, asciutte, informi come una ferita vecchia che non sa più rimarginare. Poi l’occhio corse alla finestra inondata di sole e subito, forse ferito da tanta luce, ritornò alle gambe nude ove si fermò con attenta curiosità.

– Oh, Amalia! – gridò egli lasciando che il suo spavento si manifestasse in quel grido, che forse avrebbe potuto richiamarla in sé. L’uomo debole teme il delirio e la pazzia come malattie contagiose; il ribrezzo che ne provò Emilio fu tale che gli toccò di farsi forza per non abbandonare quella stanza. Vincendo la propria violenta ripulsione, toccò di nuovo la spalla della sorella: – Amalia! Amalia! – gridò. Chiamava aiuto.

Si sentì un po’ sollevato, accorgendosi ch’ella lo aveva udito. Lo aveva guardato una seconda volta, pensierosa, come se avesse cercato di comprendere la ragione di quei gridi e di quella replicata pressione sulla sua spalla. Si toccò il petto, come se in quell’istante si fosse accorta dell’affanno che la tormentava. Poi ridimenticò Emilio e l’affanno: – Oh, sempre bestie! – e la voce alterata pareva annunziasse prossimo il pianto Stropicciò con ambe le mani le gambe; con brusco movimento si chinò come se avesse voluto sorprendere un animale pronto a fuggire. Si trovò nella destra un dito del proprio piede; lo coperse con la mano che poi sollevò chiusa come se avesse afferrato qualche cosa. Era vuota però ed ella la guardò più volte; poi ritornò al piede pronta a curvarsi di nuovo per ritornare a quella strana caccia.

Un nuovo brivido di freddo che la colse ricordò ad Emilio ch’egli doveva indurla a ripararsi nel letto. Vi si accinse con un fremito doloroso al pensiero di dover forse usare la forza. Gli riuscì invece facilissimo perché ella obbedì alla prima pressione imperiosa della sua mano; portò senza pudore una gamba dopo l’altra sul letto e si lasciò ricoprire. Ma per un’inesplicabile esitazione si puntellò con un braccio sul letto quasi non volesse adagiarvisi tutta. Ben presto non poté resistere in quella posizione e s’abbandonò sul guanciale emettendo per la prima volta un suono intelligente di dolore: – Oh! Dio mio! Dio mio!

– Ma che cosa ti è accaduto? – domandò Emilio, che, per quel solo suono assennato, credette di poterle parlare come a persona che disponga dei suoi sensi.

Ella non rispose, di nuovo occupata ad indagare quello che la inquietava anche sotto alle coltri. Si rannicchiò tutta, portò le mani alle gambe, e parve che, per far riuscire il tranello che meditava contro le cose o gli animali che la torturavano, sapesse perfino rendere meno romoroso il respiro. Trasse poi a sé le mani che con una sorpresa incredula trovò di nuovo vuote. Per qualche tempo, di sotto alle coperte, le venne un’angoscia che le faceva dimenticare quell’altra tanto violenta dell’affanno.

– Stai meglio? – le chiese Emilio, pregando. Voleva consolarsi al suono della propria voce, che modulò dolcemente, cercando di dimenticare la minaccia di violenza che aveva pesato su di lui. Si piegò a lei per farsi intendere meglio.

Ella lo guardò lungamente esalandogli in faccia il soffio frequente e debole del suo respiro. Lo riconobbe. Il calore del letto doveva pur averle aperti i sensi. Per quanto poi ella delirasse, egli non dimenticò d’essere stato riconosciuto.

Evidentemente ella andava migliorando. – Adesso andiamo via da questa casa – ella aveva detto facendo comprendere ogni sillaba. Aveva stesa anche una gamba per uscire dal letto, ma, avendola egli trattenuta con troppa più violenza di quanta fosse occorsa, si rassegnò subito e dimenticò il proposito che l’aveva spinta a quell’atto.

Lo ripeté poco dopo, ma non più con la stessa energia, e pareva rammentasse che le fosse stato imposto di coricarsi e vietato di uscire dal letto. Parlava ora. Le pareva che avessero cambiato di casa e che ci fosse molto da fare, affannosamente da fare per mettere tante cose in ordine. – Dio mio! Tutto è sucido qui. Io me n’ero accorta ma tu ci sei voluto venire. Ed ora? Non andiamo?

Egli cercò di calmarla secondandola. L’accarezzò, dicendole che non vedeva che tutto fosse tanto sucido, e che ora che si trovavano in quella casa sarebbe stato meglio di rimanerci.

Amalia udì quello che egli disse ma udì anche delle parole ch’egli non aveva dette; poi disse: – Se tu vuoi, io devo far così. Restiamo, ma… tanto sudiciume… – Le colarono due sole lagrime dagli occhi fino allora asciutti; rotolarono come due perle sulle guance infocate.

Poco dopo dimenticò quel dolore ma il delirio glie ne creò di nuovi. Era stata in pescheria e non vi aveva trovato pesce: – Non capisco! Perché tengono la pescheria se non ci hanno del pesce? Fanno camminare tanto, tanto, con questo freddo. L’avevano spedito via tutto e non c’era più del pesce per loro. Tutto quel dolore e l’affanno parevano provocati da tale fatto. Le sue parole fievoli e rese ritmiche dall’affanno erano sempre interrotte da qualche suono d’angoscia.

Egli non l’ascoltava più: bisognava uscire in qualche modo da quella situazione, bisognava trovare la maniera di chiamare un medico, Tutte le idee suggeritegli dalla disperazione furono da lui esaminate come se fosse stato possibile di metterle in atto. Guardò intorno a sé per trovare una corda onde legare l’ammalata al letto e poter lasciarla sola; fece un passo verso la finestra, per chiamare di là soccorso, e infine, dimenticando che non era possibile di farsi comprendere da Amalia, si mise a parlarle per ottenerne la promessa che sarebbe stata tranquilla durante la sua assenza. Premendole dolcemente le coperte sulle spalle per significarle che doveva rimanere coricata, le disse: – Starai così, Amalia? Me lo prometti?

Ella oramai parlava di vestiti. Ne avevano per un anno e perciò non c’era da far spese per un anno intero. – Non siamo ricchi ma abbiamo tutto, tutto. – La signora Birlini però poteva guardarli dall’alto in basso perché aveva di più. Ma Amalia era contenta che quella signora ne avesse di più, perché le voleva bene. Il balbettìo continuava puerile e buono ed era straziante di udirla dichiararsi tanto lieta in mezzo a tante sofferenze.

Urgeva di prendere una risoluzione. Il delirio di Amalia non le aveva dato né un gesto né una parola violenta e, toltosi allo stupore da cui era stato colto sin dal momento in cui l’aveva trovata in quello stato, Emilio uscì dalla stanza e corse alla porta di casa. Avrebbe chiamato il portinaio, poi sarebbe corso da un dottore oppure dal Balli a prendere consiglio. Non sapeva ancora quello che avrebbe fatto, ma bisognava correre per salvare quella disgraziata. Oh, quale dolore ricordarne la compassionevole nudità!

Sul pianerottolo si fermò esitante. Sarebbe voluto ritornare ad Amalia per vedere se ella non avesse approfittato della sua assenza per commettere qualche atto da delirante. Si poggiò col petto sulla ringhiera per vedere se qualcuno salisse. Si curvò per vedere più lontano e per un istante, un attimo, il suo pensiero si pervertì; dimenticò la sorella che, forse, agonizzava lì accanto, e ricordò che, proprio in quella posizione, egli usava aspettare Angiolina. Questo pensiero in quel breve istante fu tanto potente che egli, sforzandosi di veder lontano, cercò di vedere, anziché il soccorso invocato, la figura colorita dell’amante. Si rizzò nauseato.

 

Una porta al piano superiore s’aperse e si richiuse. Qualcuno – il soccorso – scendeva a lui. Egli salì d’un solo slancio una rampa e si trovò di fronte ad un’alta e forte figura femminile. Alta e forte e bruna; altro non vide, ma trovò subito le parole opportune: – Oh, signora! – pregò. – M’aiuti! lo farei per qualunque mio simile quello che domando a lei.

– Ella è il signor Brentani? – domandò con voce dolce e la bruna figura che veramente aveva fatto già atto di fuggire si fermò.

Egli raccontò che ritornato a casa poco prima, aveva trovato la sorella in preda a un delirio tale che non osava di lasciarla sola come avrebbe dovuto per chiamare un medico.

La signora discese: – La signorina Amalia? Poverina! Vengo con lei, subito, ben volentieri. – Ella era vestita a lutto. Emilio pensò ch’ella dovesse essere religiosa e, dopo una lieve esitazione, disse: – Dio ne la rimeriti.

La signora lo seguì nella stanza d’Amalia. Emilio fece quei pochi passi con un’angoscia indicibile. Chissà quale nuovo spettacolo lo attendeva. Nella stanza vicina non si sentiva alcun rumore, mentre a lui era sembrato che il respiro d’Amalia dovesse essere udito in tutta la casa.

La trovò voltata contro il muro. Parlava ora di un incendio; vedeva fiamme che non potevano farle altro male che mandarle un calore terribile. Egli si chinò a lei e per richiamare la sua attenzione la baciò sulle gote infiammate. Quando ella si volse a lui, egli volle assistere, prima d’andarsene, all’impressione che avrebbe fatta sulla fanciulla la vista della compagna che le lasciava. Amalia guardò la nuova venuta per un solo istante, con piena indifferenza.

– Io gliel’affido – disse Emilio alla signora. Poteva farlo. La signora aveva una faccia dolce di madre; i suoi piccoli occhi si posavano su Amalia pieni di pietà. – La signorina mi conosce disse ella e sedette accanto al letto. – Sono Elena Chierici e sto qui al terzo piano. Ricorda quel giorno in cui ella mi prestò il termometro per misurare la febbre a mio figlio?

Amalia la guardò: – Sì, ma brucia e brucerà sempre.

– Non brucerà sempre – disse la signora Elena chinandosi a lei con un buon sorriso d’incoraggiamento e gli occhi umidi dalla compassione. Pregò Emilio di darle, prima di uscire, una boccia d’acqua e un bicchiere. Per Emilio fu un affar serio trovare quelle cose in una casa ch’egli aveva abitata con l’incuria di chi sta in un albergo.

Non subito Amalia comprese che in quel bicchiere le era offerto un refrigerio; poi bevve a piccoli sorsi, avidamente. Quando si lasciò ricadere sul guanciale trovò un nuovo sollievo: il morbido braccio di Elena vi si era steso e la sua testina riposava ora sorretta con pietà. Un’onda di riconoscenza gonfiò il petto ad Emilio e, prima d’uscire, egli la tradusse in una stretta di mano ad Elena.

Corse allo studio del Balli e s’imbatté nell’amico che ne usciva. Pensò che forse vi avrebbe trovata Angiolina; respirò trovando il Balli solo. Sul proprio contegno durante la breve parte di quella giornata in cui egli aveva immaginato si potesse ancora intraprendere qualche cosa per Amalia, egli non ebbe mai rimorsi. In quelle ore egli non pensò che alla sorella, e se si fosse imbattuto in Angiolina, avrebbe trasalito dolorosamente, solo perché quella vista gli avrebbe ricordata la propria colpa.

– Oh, Stefano! M’accadono delle cose tanto gravi! – Entrò nello studio, s’assise sulla sedia più vicina alla porta e, celandosi il volto nelle mani, scoppiò in singhiozzi disperati. Non avrebbe saputo dire perché proprio allora si fosse sciolto in lagrime. Incominciava a riaversi del fiero colpo ricevuto e otteneva dal dolore riflesso lo sfogo necessario, oppure era la vicinanza del Balli – il quale ci doveva aver la sua parte nella malattia d’Amalia, – la causa di quell’emozione tanto acuta? Certo è ch’egli stesso poi s’accorse di compiacersi d’aver dato al proprio dolore un’espressione violenta; per se stesso e pel Balli. Tutto si mitigava e addolciva nel pianto; egli si sentiva sollevato e migliorato. Avrebbe dedicato il resto della vita ad Amalia. Anche se – come egli credeva – ella fosse stata pazza, l’avrebbe tenuta presso di sé non più come sorella ma come figlia. E in quel pianto si compiacque tanto da dimenticare quale urgenza ci fosse di chiamare un medico. Era proprio là il suo posto, era là ch’egli doveva agire a vantaggio di Amalia. Nell’eccitazione in cui si trovava, qualunque impresa gli parve facile e, colla sola manifestazione del proprio dolore, pensò che avrebbe fatto dimenticare tutto il passato anche al Balli. Gli avrebbe finalmente fatto conoscere Amalia, mite, buona e sventurata com’era.

Raccontò in tutti i particolari la scena di poco prima: il delirio, l’affanno di Amalia e il lungo tempo in cui egli, trovandosi solo, non s’era potuto allontanare da quella stanza fino all’intervento provvidenziale della signora Chierici.

Il Balli prese l’aspetto di persona sorpresa da una mala nuova – non certo l’aspetto sperato da Emilio – e con l’energia che in quello stato d’animo doveva essergli facile, consigliò di correre a chiamare il dottor Carini. Gli era stato descritto quale un buon medico; per di più era suo intimo ed egli l’avrebbe saputo interessare alla sorte di Amalia.

Emilio piangeva e non accennava a muoversi dal posto. Gli pareva di non aver ancora terminato; non si dava per vinto, e cercava una frase per commuovere l’amico. Ne trovò una che fece rabbrividire lui stesso: – Pazza o moribonda! – Oh, la morte! Era la prima volta ch’egli immaginava Amalia morta, scomparsa ed egli che allora allora aveva appreso di non amare più Angiolina, si vedeva solo, desolato dal rimpianto di non aver saputo approfittare della felicità, che fino a quel giorno era stata a sua disposizione, di dedicare la propria vita a qualcuno che aveva bisogno di tutela e di sacrificio. Con Amalia spariva dalla sua vita ogni speranza di dolcezza. Disse con voce profonda: – Non so se provo maggior dolore o rimorso.

Guardò il Balli per vedere se fosse stato compreso. Sulla faccia di Stefano s’impresse una meraviglia sincera: – Rimorso? – Aveva sempre creduto che Emilio fosse il modello dei fratelli, e lo disse. Ricordò però che Amalia era stata un po’ trascurata in causa d’Angiolina e aggiunse: – Certo è che non valeva la pena che tu ti occupassi tanto di una donna quale è Angiolina; ma sono sventure che capitano… – Il Balli aveva capito Emilio tanto poco che dichiarò di non comprendere perché perdessero tanto tempo. Bisognava correre dal Carini e non disperare prima di sapere quello che avrebbe detto lui dello stato di Amalia. Poteva essere anche che i sintomi che spaventavano i profani impressionassero poco il medico.

Era la speranza, ed Emilio vi si abbandonò tutto. Sulla via si divisero. Al Balli sembrò consigliabile di non lasciare Amalia più a lungo sola con una straniera; Emilio ritornasse a casa: sarebbe andato lui a cercare il medico.

Ambedue si misero a correre. La fretta d’Emilio era causata dalla grande speranza che s’era insinuata poco prima nel suo animo. Non era affatto escluso che, a casa, egli potesse trovare Amalia, tornata in sé, a salutarlo grata dell’affetto che gli avrebbe letto in viso. Il suo passo rapido accompagnava e spingeva il sogno ardito. Giammai Angiolina gli aveva dato un sogno simile dettato da un desiderio sì intenso.

Non sofferse dell’aria rigida spirante da poco, tale da far dimenticare la tiepida giornata quasi primaverile che a lui era sembrata stridente contraddizione al suo dolore. Le vie s’andavano oscurando rapidamente: il cielo era coperto di grossi nuvoloni, trascinati da una corrente d’aria, che a terra non si percepiva che nell’improvviso abbassamento della temperatura. In lontananza Emilio vide sul cielo fosco la cima di un’altura gialla di luce morente.

Amalia delirava come prima. Riudendone la stanca voce, dall’identico suono dolce, la stessa modulazione puerile interrotta dall’affanno, egli comprese che mentre fuori egli aveva sperato pazzamente, in quel letto l’ammalata non aveva trovato un istante di tregua.

La signora Elena era legata al letto perché la testa dell’ammalata riposava sul suo braccio. Raccontò però che poco dopo la sua uscita, Amalia aveva respinto quel guanciale divenutole increscioso; ora l’aveva riaccettato.

Veramente l’ufficio della buona signora sarebbe stato finito, ed egli lo disse esprimendole un’infinita riconoscenza.

Ella lo guardò coi suoi buoni piccoli occhi e non mosse il braccio su cui la testina di Amalia si muoveva inquieta.

Domandò: – E chi mi sostituirà? – Udito ch’egli aveva l’intenzione di rivolgersi al dottore per un’infermiera a pagamento, ella pregò con calore: – Allora permetta a me di restare qui. – E ringraziò quando egli, commosso, le dichiarò che non aveva mai pensato di mandarla via, ma che aveva temuto di disturbarla trattenendola. Le domandò poi se le occorresse di avvisare qualcuno della ragione della sua assenza. Con semplicità ella rispose: – Non ho nessuno in casa che possa essere sorpreso della mia assenza. Si figuri che la fantesca è entrata in servizio in casa mia quest’oggi.

Poco dopo Amalia portò la testa sul guanciale e il braccio della signora fu libero. Allora finalmente poté levarsi il cappellino di lutto e, riponendolo, Emilio ringraziò di nuovo, perché gli sembrava che quell’atto confermasse la determinazione da lei presa di rimanere accanto a quel letto. Ella lo guardò sorpresa senza comprenderlo. Non si sarebbe potuta comportare più semplicemente di così.

Amalia riprese a parlare, senza scuotersi, senza chiamare, come se avesse creduto di aver sempre detto ad alta voce tutto il suo sogno. Di certe frasi diceva il principio, di altre la fine; borbottava delle parole incomprensibili, altre le sillabava chiare. Esclamava e domandava. Domandava con ansietà, mai soddisfatta della risposta, che forse non intendeva a pieno. Alla signora Elena, che s’era piegata su lei, per indovinare meglio un desiderio che pareva volesse manifestare: – Ma tu non sei Vittoria? – chiese. – Io, no – disse la signora sorpresa. Questa risposta fu compresa e bastò per qualche tempo a quietare l’ammalata.

Poco dopo tossì. Lottò per non tossire più e la sua faccia prese un aspetto di desolazione puerile; doveva aver sentito un forte dolore. La signora Elena fece osservare ad Emilio quell’espressione che durante la sua assenza s’era già prodotta. – Bisognerà parlarne al dottore; si capisce da quella tosse che la signorina deve essere ammalata di petto. – Amalia ebbe più scoppi di tosse fievole, soffocata. – Non ne posso più – gemette e pianse.

Ma il pianto le bagnava ancora le guance ed ella aveva già dimenticato il dolore. Affannosamente riparlò della sua casa. C’era un nuovo ritrovato per fare a buon prezzo il caffè. – Fanno di tutto oramai. Presto si potrà vivere senza denaro. Mi dia un po’ di quel caffè, per provare. Io glielo restituirò. A me piace la giustizia. L’ho detto anche ad Emilio…

– Sì, me ne rammento – disse Emilio per darle riposo. – Tu hai amata sempre la giustizia. – Si chinò su di lei per baciarla in fronte.

Un istante di quel delirio non fu più dimenticato da Emilio. – Sì, noi due – fece ella, guardandolo con quel tono dei deliranti, che non si sa se esclami o domandi. – Noi due, qui, tranquilli, uniti, noi due soli. – La serietà ansiosa della faccia accompagnava la serietà della parola e l’affanno pareva l’espressione di un dolore cocente. Poco dopo però, ella parlava di loro due soli nella casa a buon mercato.

Suonò. Erano il Balli e il dottor Carini. Emilio conosceva già quest’ultimo, un uomo sulla quarantina, bruno, alto, magro. Si diceva che i suoi anni d’università fossero stati più ricchi di divertimenti che non di studi, mentre ora, essendo benestante, non cercava clienti e s’accontentava di una posizione subalterna all’ospedale per potervi continuare gli studi non fatti prima. Amava la medicina col fervore del dilettante; ma ne alternava lo studio con passatempi d’ogni natura, tant’è vero che contava maggior numero d’amici fra gli artisti che non fra i medici.

Si fermò nella stanza da pranzo e, osservato che sulla malattia d’Amalia il Balli non gli aveva saputo dire altro se non che doveva trattarsi di un forte accesso di febbre, pregò Emilio di dirgliene lui qualche cosa di più.

Emilio prese a raccontare dello stato in cui aveva trovata la sorella un paio d’ore prima, nella casa solitaria, ove ella doveva aver commesse delle stranezze già dalla mattina. Descrisse con esattezza di particolari il delirio, manifestatosi prima in quell’inquietudine che la spingeva a cercare degli insetti sulle gambe, poi in quel chiacchierio incessante. Commosso nel ricordare e analizzare tutta l’angoscia di quella giornata, parlò, piangendo, dell’affanno, poi della tosse, quel suono esile e falso che pareva prodotto da un vaso fesso, e del dolore intenso che ogni colpo di tosse produceva all’ammalata.

 

Il dottore cercò d’incorarlo con qualche parola amichevole, ma poi, ritornando all’argomento, fece una domanda che cagionò ad Emilio non poca angoscia: – E prima di questa mattina?

– Mia sorella è stata sempre debole, ma sempre sana. – S’era compromesso con questa frase e soltanto dopo averla detta fu colto da dubbi. Non erano stati certo degl’indizi di salute quei sogni ad alta voce ch’egli aveva sorpresi. Non avrebbe dovuto parlarne? Ma come farlo dinanzi al Balli?

– Prima d’oggi la signorina si sentiva sempre bene? – chiese il Carini con aria incredula. – Anche ieri stesso?

Emilio si confuse e non seppe rispondere. Egli non ricordava neppur d’aver vista la sorella nei giorni precedenti. Veramente quando l’aveva vista l’ultima volta? Forse mesi prima, quel giorno in cui l’aveva scorta sulla via vestita in modo tanto strano. – Io non credo ch’ella sia stata ammalata prima. Me lo avrebbe detto.

Il dottore ed Emilio entrarono nella stanza dell’ammalata, mentre il Balli, dopo una breve esitazione, si fermò nel tinello.

La signora Chierici, ch’era seduta al capezzale, si levò e andò ai piedi del letto. L’ammalata pareva assopita ma, come al solito, parlò quasi fosse sempre in una conversazione e avesse avuto da rispondere a domande o da aggiungere delle parole ad osservazioni fatte prima: – Di qui a mezz’ora. Sì, ma non prima. – Spalancò gli occhi e riconobbe il Carini; disse qualche cosa che doveva essere un saluto.

– Buon giorno, signorina – rispose il dottore ad alta voce con l’evidente intenzione d’adattarsi al suo delirio. – Volevo venire a trovarla prima, ma m’è stato impossibile. – Il Carini era stato in casa una sola volta ed Emilio fu lieto ch’ella l’avesse riconosciuto. Ella doveva esser migliorata di molto in quelle brevi ore, perché a mezzodì ella non aveva ravvisato neppure lui. Comunicò tale osservazione a bassa voce al dottore.

Questi era tutto intento a studiare il polso dell’ammalata. Poi ne denudò il petto e vi appoggiò l’orecchio in diversi punti. Amalia taceva con gli occhi rivolti al soffitto. Poi il dottore si fece aiutare dalla signora Elena per rizzare l’ammalata e sottoporre alla medesima disamina anche la schiena. Amalia oppose resistenza per un istante ma quando capì che cosa si volesse da lei cercò anche di sostenersi da sola.

Ella guardava ora la finestra, che s’era rapidamente oscurata. La porta era aperta e il Balli, che s’era soffermato sulla soglia, fu visto dall’ammalata. – Il signor Stefano – disse ella senz’alcuna sorpresa e senza muoversi perché aveva capito che si voleva ch’ella stesse ferma. Emilio che aveva temuta una scena, fece al Balli un cenno imperioso di ritirarsi, e soltanto il suo gesto sottolineò l’importante incontro.

Il Balli però non poteva più ritirarsi e si avanzò, mentre ella con cenni ripetuti del capo lo incoraggiava e chiamava. – Tanto tempo – borbottò, certo volendo significare ch’era molto tempo che non si vedevano.

Quando le permisero di riadagiarsi, ella continuò a guardare il Balli ch’ella, anche nel delirio, continuava a considerare quale la persona più importante per lei in quella stanza. L’affanno era aumentato per la fatica che le avevano data costringendola a muoversi, un lieve assalto di tosse le fece contrarre la faccia dal dolore, ma ella continuò a guardare il Balli. Anche bevendo con voluttà l’acqua che le era stata offerta dal dottore, ella tenne gli occhi fissi sul Balli. Chiuse gli occhi e parve volesse dormire. – Così tutto è bene – disse ad alta voce e per qualche istante si quietò.

I tre uomini uscirono dalla stanza di Amalia e si fermarono nella vicina. Emilio impaziente domandò: – Ebbene, dottore?

Il Carini, che aveva poca pratica di trattare con clienti, espresse con semplicità la sua opinione: una polmonite. Trovava lo stato dell’ammalata gravissimo.

– Senza speranza? – domandò Emilio, e attese con ansietà la risposta.

Il Carini gli lanciò un’occhiata di compassione. Disse che c’era sempre speranza e ch’egli aveva già visti dei casi simili risolversi improvvisamente addirittura nella piena salute: un fenomeno che sorprendeva anche il medico più provetto.

Allora Emilio si commosse. Oh, perché non si sarebbe avverato anche in questo caso quel fenomeno sorprendente? Sarebbe bastato a dargli il sentimento della felicità per tutta la vita. Non era la gioia inaspettata, il dono generoso della provvidenza quale egli s’era augurato? La speranza per un istante fu piena; se avesse visto Amalia camminare, se l’avesse udita parlare assennatamente, non ne avrebbe potuto provare una maggiore.

Ma il Carini non aveva detto tutto. Egli non ammetteva che la malattia fosse scoppiata quel giorno. Già violenta doveva essersi manifestata uno o forse anche due giorni prima.

Di nuovo Emilio doveva scolparsi di quel passato che giaceva tanto lontano da lui. – Potrebbe essere – ammise – ma mi pare difficile. Se è scoppiata ieri, deve essere stato in modo sì lieve ch’io non me ne sia potuto accorgere. – Poi, offeso da una occhiata di rimprovero del Balli, aggiunse: – Non mi pare possibile.

Ruvidamente, col tono che tutti da lui tolleravano, il Balli disse al dottore: – Sai, noi di medicina non ne sappiamo niente. Questa febbre durerà sempre, finché non cessi la malattia? Non vi saranno delle soste?

Il Carini rispose che sul decorso della malattia egli non poteva dir nulla. – Mi trovo dinanzi ad un’incognita, a una malattia di cui non conosco che il momento presente. Ci sarà crisi? E quando? Domani, questa sera, di qui a tre o quattro giorni, che ne so io?

Emilio pensò che tutto ciò autorizzava le più ardite speranze e lasciò il Balli a continuare l’interrogatorio del medico. Egli si vedeva accanto Amalia guarita, assennata, ridivenuta capace di sentire il suo affetto.

Il peggior sintomo che il Carini osservasse in Amalia, non era la febbre né la tosse; era la forma del delirio, quel chiacchierio agitato e continuo. Aggiunse a bassa voce: – Non sembra un organismo adatto a sopportare delle temperature elevate.

Si fece dare l’occorrente per scrivere, ma, prima di fare la ricetta, disse: – Per combattere la sete le darei del vino con dell’acqua di selz. Ogni due o tre ore le permetterei di prendere un bicchiere di vino generoso. Già – fece esitante – la signorina dev’essere abituata al vino. – Con due tratti risoluti di penna scrisse la ricetta.

– Amalia non è abituata al vino – protestò Emilio. – Anzi non lo può soffrire; non sono stato mai capace d’indurla ad abituarvisi.

Il dottore fece un gesto di sorpresa e guardò Emilio come se non avesse potuto credere che gli fosse detta la verità. Anche il Balli guardò Emilio con occhio scrutatore. Egli aveva già capito che il dottore aveva concluso dai sintomi presentati dalla malattia di Amalia di aver a fare con un’alcoolizzata, e ricordava d’aver osservato ch’Emilio era capace dei pudori più falsi. Voleva indurlo a dire la verità che il dottore doveva conoscere.

Emilio indovinò il significato di quell’occhiata. – Come puoi credere una cosa simile? Ella, bere! Non sa neppure bere dell’acqua in abbondanza. Ci mette un’ora per un bicchiere d’acqua.