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Decameron

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L’altre donne, udita Pampinea, non solamente il suo consiglio lodarono, ma disiderose di seguitarlo avevan già più particularmente tra sé cominciato a trattar del modo, quasi, quindi levandosi da sedere, a mano a mano dovessero entrare in cammino.

Ma Filomena, la quale discretissima era, disse: – Donne, quantunque ciò che ragiona Pampinea sia ottimamente detto, non è per ciò così da correre a farlo, come mostra che voi vogliate fare. Ricordivi che noi siamo tutte femine, e non ce n’ha niuna sì fanciulla, che non possa ben conoscere come le femine sien ragionate insieme e senza la provedenza d’alcuno uomo si sappiano regolare. Noi siamo mobili, riottose, sospettose, pusillanime e paurose; per le quali cose io dubito forte, se noi alcuna altra guida non prendiamo che la nostra, che questa compagnia non si dissolva troppo più tosto, e con meno onor di noi, che non ci bisognerebbe: e per ciò è buono a provederci avanti che cominciamo.

Disse allora Elissa: – Veramente gli uomini sono delle femine capo e senza l’ordine loro rade volte riesce alcuna nostra opera a laudevole fine: ma come possiam noi aver questi uomini? Ciascuna di noi sa che de’ suoi son la maggior parte morti, e gli altri che vivi rimasi sono, chi qua e chi là in diverse brigate, senza saper noi dove, vanno fuggendo quello che noi cerchiamo di fuggire: e il prender gli strani non saria convenevole; per che, se alla nostra salute vogliamo andar dietro, trovare si convien modo di sì fattamente ordinarci che, dove per diletto e per riposo andiamo, noia e scandalo non ne segua.

Mentre tralle donne erano così fatti ragionamenti, e ecco entrar nella chiesa tre giovani, non per ciò tanto che meno di venticinque anni fosse l’età di colui che più giovane era di loro. Ne’ quali né perversità di tempo né perdita d’amici o di parenti né paura di se medesimi avea potuto amor, non che spegnere ma raffreddare. De’ quali, l’uno era chiamato Panfilo, e Filostrato il secondo, e l’ultimo Dioneo, assai piacevole e costumato ciascuno: e andavano cercando per loro somma consolazione, in tanta turbazione di cose, di vedere le lor donne, le quali per ventura tutte e tre erano tralle predette sette, come che dell’altre alcune ne fossero congiunte parenti d’alcuni di loro.

Né prima esse agli occhi corsero di costoro, che costoro furono da esse veduti; per che Pampinea allor cominciò sorridendo: – Ecco che la fortuna a’ nostri cominciamenti è favorevole, e hacci davanti posti discreti giovani e valorosi, li quali volentieri e guida e servidor ne saranno, se di prendergli a questo uficio non schiferemo.

Neifile allora, tutta nel viso divenuta per vergogna vermiglia, per ciò che l’una era di quelle che dall’un de giovani era amata, disse: – Pampinea, per Dio, guarda ciò che tu dichi. Io conosco assai apertamente niuna altra cosa che tutta buona dir potersi di qualunque s’è l’uno di costoro, e credogli a troppo maggior cosa che questa non è sofficienti; e similmente avviso loro buona compagnia e onesta dover tenere non che a noi ma a molto più belle e più care che noi non siamo. Ma, per ciò che assai manifesta cosa è loro essere d’alcune che qui ne sono innamorati, temo che infamia e riprensione, senza nostra colpa o di loro, non ce ne segua se gli meniamo.

Disse allora Filomena: – Questo non monta niente; là dove io onestamente viva né mi rimorda d’alcuna cosa la coscienza, parli chi vuole in contrario: Idio e la verità l’arme per me prenderanno. Ora, fossero essi pur già disposti a venire, ché veramente, come Pampinea disse, potremmo dire la fortuna essere alla nostra andata favoreggiante.

L’altre, udendo costei così fattamente parlare, non solamente si tacquero ma con consentimento concorde tutte dissero che essi fosser chiamati e loro si dicesse la loro intenzione e pregassersi che dovesse lor piacere in così fatta andata lor tener compagnia. Per che senza più parole Pampinea, levatasi in piè, la quale a alcun di loro per consanguinità era congiunta, verso loro, che fermi stavano a riguardarle si fece e, con lieto viso salutatigli, loro la lor disposizione fé manifesta, e pregogli per parte di tutte che con puro e fratellevole animo a tener lor compagnia si dovessero disporre. I giovani si credettero primieramente essere beffati; ma poi che videro che da dovero parlava la donna, rispuosero lietamente sé essere apparecchiati; e senza dare alcuno indugio all’opera, anzi che quindi si partissono, diedono ordine a ciò che a fare avessono in sul partire. E ordinatamente fatta ogni cosa opportuna apparecchiare, e prima mandato là dove intendevan d’andare, la seguente mattina, cioè il mercoledì, in su lo schiarir del giorno, le donne con alquante delle lor fanti e i tre giovani con tre lor famigliari, usciti della città, si misero in via: né oltre a due piccole miglia si dilungarono da essa, che essi pervennero al luogo da loro primieramente ordinato.

Era il detto luogo sopra una piccola montagnetta, da ogni parte lontano alquanto alle nostre strade, di varii albuscelli e piante tutte di verdi fronde ripiene piacevoli a riguardare; in sul colmo della quale era un palagio con bello e gran cortile nel mezzo, e con logge e con sale e con camere, tutte ciascuna verso di sé bellissima e di liete dipinture raguardevole e ornata, con pratelli da torno e con giardini maravigliosi e con pozzi d’acque freschissime e con volte di preziosi vini: cose più atte a curiosi bevitori che a sobrie e oneste donne. Il quale tutto spazzato, e nelle camere i letti fatti, e ogni cosa di fiori quali nella stagione si potevano avere, piena e di giunchi giuncata la vegnente brigata trovò con suo non poco piacere.

E postisi nella prima giunta a sedere, disse Dioneo, il quale oltre a ogni altro era piacevole giovane e pieno di motti: – Donne, il vostro senno, più che il nostro avvedimento ci ha qui guidati. Io non so quello che de’ vostri pensieri voi v’intendete di fare: li miei lasciai io dentro dalla porta della città allora che io con voi poco fa me ne usci’ fuori: e per ciò, o voi a sollazzare e a ridere e a cantare con meco insieme vi disponete (tanto, dico, quanto alla vostra dignità s’appartiene), o voi mi licenziate che io per li miei pensieri mi ritorni e steami nella città tribolata.

A cui Pampinea, non d’altra maniera che se similmente tutti i suoi avesse da sé cacciati, lieta rispose: – Dioneo, ottimamente parli: festevolmente viver si vuole, né altra cagione dalle tristizie ci ha fatte fuggire. Ma, per ciò che le cose che sono senza modo non possono lungamente durare, io, che cominciatrice fui de’ ragionamenti da’ quali questa così bella compagnia è stata fatta pensando al continuar della nostra letizia, estimo che di necessità sia convenire esser tra noi alcuno principale, il quale noi e onoriamo e ubbidiamo come maggiore, nel quale ogni pensiero stea di doverci a lietamente viver disporre. E acciò che ciascun pruovi il peso della sollecitudine insieme col piacere della maggioranza e, per conseguente d’una parte e d’altra tratti, non possa, chi nol pruova, invidia avere alcuna, dico che a ciascuno per un giorno s’attribuisca e il peso e l’onore; e chi il primo di noi esser debba nella elezion di noi tutti sia: di quelli che seguiranno, come l’ora del vespro s’avvicinerà, quegli o quella che a colui o a colei piacerà, che quel giorno avrà avuta la signoria; e questo cotale, secondo il suo arbitrio, del tempo che la sua signoria dee bastare, del luogo e del modo nel quale a vivere abbiamo ordini e disponga.

Queste parole sommamente piacquero e a una voce lei prima del primo giorno elessero; e Filomena, corsa prestamente ad uno alloro (per ciò che assai volte aveva udito ragionare di quanto onore le frondi di quello eran degne e quanto degno d’onore facevano chi n’era meritamente incoronato), di quello alcuni rami colti, ne le fece una ghirlanda onorevole e apparente; la quale, messale sopra la testa, fu poi mentre durò la lor compagnia manifesto segno a ciascuno altro della real signoria e maggioranza.

Pampinea, fatta reina, comandò che ogni uom tacesse, avendo già fatti i famigliari de’ tre giovani e le loro fanti, ch’eran quattro, davanti chiamarsi; e tacendo ciascun, disse: – Acciò che io prima essemplo dea a tutte voi, per lo quale di bene in meglio procedendo la nostra compagnia con ordine e con piacere e senza alcuna vergogna viva e duri quanto a grado ne fia, io primieramente costituisco Parmeno, famigliar di Dioneo, mio siniscalco, e a lui la cura e la sollecitudine di tutta la nostra famiglia commetto e ciò che al servigio della sala appartiene. Sirisco, famigliar di Panfilo, voglio che di noi sia spenditore e tesoriere e di Parmeno seguiti i comandamenti. Tindaro al servigio di Filostrato e degli altri due attenda nelle camere loro, qualora gli altri, intorno alli loro ufici impediti, attender non vi potessero. Misia, mia fante, e Licisca, di Filomena, nella cucina saranno continue e quelle vivande diligentemente apparecchieranno che per Parmeno loro saranno imposte. Chimera, di Lauretta, e Stratilia, di Fiammetta, al governo delle camere delle donne intente vogliamo che stieno e alla nettezza de’ luoghi dove staremo. E ciascuno generalmente, per quanto egli avrà cara la nostra grazia, vogliamo e comandiamo che si guardi, dove che egli vada, onde che egli torni, che che egli oda o vegga, niuna novella altra che lieta ci rechi di fuori.

E questi ordini sommariamente dati, li quali da tutti commendati furono, lieta drizzata in piè disse: – Qui sono giardini, qui sono pratelli, qui altri luoghi dilettevoli assai, per li quali ciascuno a suo piacer sollazzando si vada; e come terza suona, ciascun qui sia, acciò che per lo fresco si mangi.

Licenziata adunque dalla nuova reina la lieta brigata, li giovani insieme colle belle donne, ragionando dilettevoli cose, con lento passo si misero per un giardino, belle ghirlande di varie frondi faccendosi e amorosamente cantando. E poi che in quello tanto fur dimorati quanto di spazio dalla reina avuto aveano, a casa tornati trovarono Parmeno studiosamente aver dato principio al suo uficio, per ciò che, entrati in una sala terrena, quivi le tavole messe videro con tovaglie bianchissime e con bicchieri che d’ariento parevano, e ogni cosa di fiori di ginestra coperta; per che, data l’acqua alle mani, come piacque alla reina, secondo il giudicio di Parmeno tutti andarono a sedere. Le vivande dilicatamente fatte vennero e finissimi vini fur presti; e senza più chetamente li tre famigliari servirono le tavole. Dalle quali cose, per ciò che belle e ordinate erano rallegrato ciascuno, con piacevoli motti e con festa mangiarono. E levate le tavole, con ciò fosse cosa che tutte le donne carolar sapessero e similmente i giovani e parte di loro ottimamente e sonare e cantare, comandò la reina che gli strumenti venissero; e per comandamento di lei Dioneo preso un liuto e la Fiammetta una viuola, cominciarono soavemente una danza a sonare; per che la reina coll’altre donne, insieme co’ due giovani presa una carola, con lento passo, mandati i famigliari a mangiare, a carolar cominciarono; e quella finita, canzoni vaghette e liete cominciarono a cantare. E in questa maniera stettero tanto che tempo parve alla reina d’andare a dormire: per che, data a tutti la licenzia, li tre giovani alle lor camere, da quelle delle donne separate, se n’andarono, le quali co’ letti ben fatti e così di fiori piene come la sala trovarono, e simigliantemente le donne le loro: per che, spogliatesi, s’andarono a riposare.

 

Non era di molto spazio sonata nona, che la reina, levatasi tutte l’altre fece levare e similmente i giovani, affermando esser nocivo il troppo dormire il giorno: e così se n’andarono in un pratello, nel quale l’erba era verde e grande né vi poteva d’alcuna parte il sole; e quivi sentendo un soave venticello venire, sì come volle la lor reina, tutti sopra la verde erba si puosero in cerchio a sedere, a’ quali ella disse così: – Come voi vedete, il sole è alto e il caldo è grande, né altro s’ode che le cicale su per gli ulivi; per che l’andare al presente in alcun luogo sarebbe senza dubbio sciocchezza. Qui è bello e fresco stare, e hacci, come voi vedete, e tavolieri e scacchieri, e puote ciascuno, secondo che all’animo gli è più di piacere, diletto pigliare. Ma se in questo il mio parer si seguisse, non giucando, nel quale l’animo dell’una delle parti convien che si turbi senza troppo piacere dell’altra o di chi sta a vedere, ma novellando (il che può porgere, dicendo uno, a tutta la compagnia che ascolta diletto) questa calda parte del giorno trapasseremo. Voi non avrete compiuta ciascuno di dire una sua novelletta, che il sole fia declinato e il caldo mancato, e potremo dove più a grado vi fia andare prendendo diletto: e per ciò, quando questo che io dico vi piaccia, ché disposta sono in ciò di seguire il piacer vostro, faccianlo; e dove non vi piacesse, ciascuno infino all’ora del vespro quello faccia che più gli piace.

Le donne parimente e gli uomini tutti lodarono il novellare.

– Adunque, – disse la reina – se questo vi piace, per questa prima giornata voglio che libero sia a ciascuno di quella materia ragionare che più gli sarà a grado.

E rivolta a Panfilo, il quale alla sua destra sedea, piacevolmente gli disse che con una delle sue novelle all’altre desse principio; laonde Panfilo, udito il comandamento, prestamente, essendo da tutti ascoltato, cominciò così.

NOVELLA PRIMA

Ser Cepparello con una falsa confessione inganna un santo frate, e muorsi; e, essendo stato un pessimo uomo in vita, è morto reputato per santo e chiamato san Ciappelletto.

Convenevole cosa è, carissime donne, che ciascheduna cosa la quale l’uomo fa, dallo ammirabile e santo nome di Colui il quale di tutte fu facitore le dea principio. Per che, dovendo io al vostro novellare, sì come primo, dare cominciamento, intendo da una delle sue maravigliose cose incominciare, acciò che, quella udita, la nostra speranza in lui, sì come in cosa impermutabile, si fermi e sempre sia da noi il suo nome lodato.

Manifesta cosa è che, sì come le cose temporali tutte sono transitorie e mortali, così in sé e fuor di sé esser piene di noia e d’angoscia e di fatica e ad infiniti pericoli soggiacere; alle quali senza niuno fallo né potremmo noi, che viviamo mescolati in esse e che siamo parte d’esse, durare né ripararci, se spezial grazia di Dio forza e avvedimento non ci prestasse. La quale a noi e in noi non è da credere che per alcun nostro merito discenda, ma dalla sua propria benignità mossa e da prieghi di coloro impetrata che, sì come noi siamo, furon mortali, e bene i suoi piaceri mentre furono in vita seguendo, ora con lui eterni sono divenuti e beati; alli quali noi medesimi, sì come a procuratori informati per esperienza della nostra fragilità, forse non audaci di porgere i prieghi nostri nel cospetto di tanto giudice, delle cose le quali a noi reputiamo opportune gli porgiamo.

E ancor più in Lui verso noi di pietosa liberalità pieno, discerniamo, che, non potendo l’acume dell’occhio mortale nel segreto della divina mente trapassare in alcun modo, avvien forse tal volta che, da oppinione ingannati, tale dinanzi alla sua maestà facciamo procuratore, che da quella con eterno essilio è iscacciato: e nondimeno Esso, al quale niuna cosa è occulta, più alla purità del pregator riguardando che alla sua ignoranza o allo essilio del pregato, così come se quegli fosse nel suo cospetto beato, essaudisce coloro che ’l priegano. Il che manifestamente potrà apparire nella novella la quale di raccontare intendo: manifestamente, dico, non il giudicio di Dio ma quel degli uomini seguitando.

Ragionasi adunque che essendo Musciatto Franzesi di ricchissimo e gran mercatante in Francia cavalier divenuto e dovendone in Toscana venire con messer Carlo Senzaterra, fratello del re di Francia, da papa Bonifazio addomandato e al venir promosso, sentendo egli li fatti suoi, sì come le più volte son quegli de’ mercatanti, molto intralciati in qua e in là e non potersi di leggiere né subitamente stralciare, pensò quegli commettere a più persone; e a tutti trovò modo: fuor solamente in dubbio gli rimase cui lasciar potesse sofficiente a riscuoter suoi crediti fatti a più borgognoni.

E la cagion del dubbio era il sentire li borgognoni uomini riottosi e di mala condizione e misleali; e a lui non andava per la memoria chi tanto malvagio uom fosse, in cui egli potesse alcuna fidanza avere, che opporre alla loro malvagità si potesse.

E sopra questa essaminazione pensando lungamente stato, gli venne a memoria un ser Cepparello da Prato, il qual molto alla sua casa in Parigi si riparava; il quale, per ciò che piccolo di persona era e molto assettatuzzo, non sappiendo li franceschi che si volesse dir Cepparello, credendo che ‘cappello’, cioè ‘ghirlanda’ secondo il loro volgare, a dir venisse, per ciò che piccolo era come dicemmo, non Ciappello, ma Ciappelletto il chiamavano; e per Ciappelletto era conosciuto per tutto, là dove pochi per ser Cepperello il conoscieno.

Era questo Ciappelletto di questa vita: egli, essendo notaio, avea grandissima vergogna quando uno de’ suoi strumenti (come che pochi ne facesse) fosse altro che falso trovato: de’ quali tanti avrebbe fatti di quanti fosse stato richesto, e quelli più volentieri in dono che alcun altro grandemente salariato. Testimonianze false con sommo diletto diceva, richesto e non richesto; e dandosi a que’ tempi in Francia a’ saramenti grandissima fede, non curandosi fargli falsi, tante quistioni malvagiamente vincea a quante a giurare di dire il vero sopra la sua fede era chiamato. Aveva oltre modo piacere, e forte vi studiava, in commettere tra amici e parenti e qualunque altra persona mali e inimicizie e scandali, de’ quali quanto maggiori mali vedeva seguire tanto più d’allegrezza prendea. Invitato a uno omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai, volenterosamente v’andava; e più volte a fedire e a uccidere uomini colle proprie mani si trovò volentieri. Bestemmiatore di Dio e de’ santi era grandissimo; e per ogni piccola cosa, sì come colui che più che alcuno altro era iracundo. A chiesa non usava giammai; e i sacramenti di quella tutti come vil cosa con abominevoli parole scherniva; e così in contrario le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentieri e usavagli.

Delle femine era così vago come sono i cani de’ bastoni; del contrario più che alcun altro tristo uomo si dilettava. Imbolato avrebbe e rubato con quella coscienza che un santo uomo offerrebbe. Gulosissimo e bevitore grande, tanto che alcuna volta sconciamente gli facea noia. Giuocatore e mettitor di malvagi dadi era solenne. Perché mi distendo io in tante parole? Egli era il piggiore uomo forse che mai nascesse. La cui malizia lungo tempo sostenne la potenzia e lo stato di messer Musciatto, per cui molte volte e dalle private persone, alle quali assai sovente faceva iniuria, e dalla corte, a cui tuttavia la facea, fu riguardato.

Venuto adunque questo ser Cepparello nell’animo a messer Musciatto, il quale ottimamente la sua vita conosceva, si pensò il detto messer Musciatto costui dovere essere tale quale la malvagità de’ borgognoni il richiedea; e perciò, fattolsi chiamare, gli disse così: «Ser Ciappelletto, come tu sai, io sono per ritrarmi del tutto di qui: e avendo tra gli altri a fare co’ borgognoni, uomini pieni d’inganni, non so cui io mi possa lasciare a riscuotere il mio da loro più convenevole di te. E perciò, con ciò sia cosa che tu niente facci al presente, ove a questo vogli intendere, io intendo di farti avere il favore della corte e di donarti quella parte di ciò che tu riscoterai che convenevole sia.»

Ser Ciappelletto, che scioperato si vedea e male agiato delle cose del mondo e lui ne vedeva andare che suo sostegno e ritegno era lungamente stato, senza niuno indugio e quasi da necessità costretto si diliberò, e disse che volea volentieri. Per che, convenutisi insieme, ricevuta ser Ciappelletto la procura e le lettere favorevoli del re, partitosi messer Musciatto, n’andò in Borgogna dove quasi niuno il conoscea: e quivi, fuor di sua natura, benignamente e mansuetamente cominciò a voler riscuotere e fare quello per che andato v’era, quasi si riserbasse l’adirarsi al da sezzo.

E così faccendo, riparandosi in casa di due fratelli fiorentini, li quali quivi a usura prestavano e lui per amor di messer Musciatto onoravano molto, avvenne che egli infermò; al quale i due fratelli fecero prestamente venir medici e fanti che il servissero e ogni cosa oportuna alla sua santà racquistare. Ma ogni aiuto era nullo, per ciò che il buono uomo, il quale già era vecchio e disordinatamente vivuto, secondo che i medici dicevano, andava di giorno in giorno di male in peggio, come colui che aveva il male della morte; di che li due fratelli si dolevan forte.

E un giorno, assai vicini della camera nella quale ser Ciappelletto giaceva infermo, seco medesimo cominciarono a ragionare. «Che farem noi» diceva l’uno all’altro «di costui? Noi abbiamo de’ fatti suoi pessimo partito alle mani: per ciò che il mandarlo fuori di casa nostra così infermo ne sarebbe gran biasimo e segno manifesto di poco senno, veggendo la gente che noi l’avessimo ricevuto prima, e poi fatto servire e medicare così sollecitamente, e ora, senza potere egli aver fatta cosa alcuna che dispiacer ci debbia, così subitamente di casa nostra e infermo a morte vederlo mandar fuori. D’altra parte, egli è stato sì malvagio uomo, che egli non si vorrà confessare né prendere alcuno sacramento della Chiesa; e, morendo senza confessione, niuna chiesa vorrà il suo corpo ricevere, anzi sarà gittato a’ fossi a guisa d’un cane. E, se egli si pur confessa, i peccati suoi son tanti e sì orribili che il simigliante n’avverrà, per ciò che frate né prete ci sarà che ’l voglia né possa assolvere: per che, non assoluto, anche sarà gittato a’ fossi. E se questo avviene, il popolo di questa terra, il quale sì per lo mestier nostro, il quale loro pare iniquissimo e tutto il giorno ne dicon male, e sì per la volontà che hanno di rubarci veggendo ciò si leverà a romore e griderà: «Questi lombardi cani, li quali a chiesa non sono voluti ricevere, non ci si vogliono più sostenere’; e correrannoci alle case e per avventura non solamente l’avere ci ruberanno, ma forse ci torranno oltre a ciò le persone: di che noi in ogni guisa stiam male, se costui muore.»

Ser Ciappelletto, il quale, come dicemmo, presso giacea là dove costoro così ragionavano, avendo l’udire sottile, sì come le più volte veggiamo avere gl’infermi, udì ciò che costoro di lui dicevano; li quali egli si fece chiamare, e disse loro: «Io non voglio che voi d’alcuna cosa di me dubitiate né abbiate paura di ricevere per me alcun danno. Io ho inteso ciò che di me ragionato avete e son certissimo che così n’avverrebbe come voi dite, dove così andasse la bisogna come avvisate: ma ella andrà altramenti. Io ho, vivendo, tante ingiurie fatte a Domenedio che, per farnegli io una ora in su la mia morte, né più né meno ne farà; e per ciò procacciate di farmi venire un santo e valente frate, il più che aver potete, se alcun ce n’è; e lasciate fare a me, ché fermamente io acconcerò i fatti vostri e’ miei in maniera che starà bene e che dovrete esser contenti.»

 

I due fratelli, come che molta speranza non prendessono di questo, nondimeno se n’andarono a una religione di frati e domandarono alcuno santo e savio uomo che udisse la confessione d’un lombardo che in casa loro era infermo; e fu lor dato un frate antico di santa e di buona vita e gran maestro in Iscrittura e molto venerabile uomo, nel quale tutti i cittadini grandissima e spezial divozione aveano, e lui menarono. Il quale, giunto nella camera dove ser Ciappelletto giacea e allato postoglisi a sedere, prima benignamente il cominciò a confortare, e appresso il domandò quanto tempo era che egli altra volta confessato si fosse.

Al quale ser Ciappelletto, che mai confessato non s’era, rispose: «Padre mio, la mia usanza suole essere di confessarsi ogni settimana almeno una volta, senza che assai sono di quelle che io mi confesso più; è il vero che poi che io infermai, che son passati da otto dì, io non mi confessai tanta è stata la noia che la infermità m’ha data.»

Disse allora il frate: «Figliuol mio, bene hai fatto, e così si vuol fare per innanzi; e veggio che, poi sì spesso ti confessi, poca fatica avrò d’udire o di dimandare.»

Disse ser Ciappelletto: «Messer lo frate, non dite così: io non mi confessai mai tante volte né sì spesso, che io sempre non mi volessi confessare generalmente di tutti i miei peccati che io mi ricordassi dal dì che io nacqui infino a quello che confessato mi sono; e per ciò vi priego, padre mio buono, che così puntualmente d’ogni cosa mi domandiate come se mai confessato non mi fossi; e non mi riguardate perché io infermo sia, ché io amo molto meglio di dispiacere a queste mie carni che, faccendo agio loro, io facessi cosa che potesse essere perdizione dell’anima mia, la quale il mio Salvatore ricomperò col suo prezioso sangue.»

Queste parole piacquero molto al santo uomo e parvongli argomento di bene disposta mente: e poi che a ser Ciappelletto ebbe molto commendato questa sua usanza, il cominciò a domandare se egli mai in lussuria con alcuna femina peccato avesse.

Al quale ser Ciappelletto sospirando rispose: «Padre mio, di questa parte mi vergogno io di dirvene il vero, temendo di non peccare in vanagloria.»

Al quale il santo frate disse: «Di’ sicuramente, ché il vero dicendo né in confessione né in altro atto si peccò giammai.»

Disse allora ser Ciappelletto: «Poiché voi di questo mi fate sicuro, e io il vi dirò: io son così vergine come io usci’ del corpo della mamma mia.»

«Oh benedetto sie tu da Dio!» disse il frate «come bene hai fatto! e, faccendolo, hai tanto più meritato, quanto, volendo, avevi più d’arbitrio di fare il contrario che non abbiam noi e qualunque altri son quegli che sotto alcuna regola son costretti.»

E appresso questo il domandò se nel peccato della gola aveva a Dio dispiaciuto; al quale, sospirando forte, ser Ciappelletto rispose di sì, e molte volte; perciò che, con ciò fosse cosa che egli, oltre alli digiuni delle quaresime che nell’anno si fanno dalle divote persone, ogni settimana almeno tre dì fosse uso di digiunare in pane e in acqua, con quello diletto e con quello appetito l’acqua bevuta aveva, e spezialmente quando avesse alcuna fatica durata o adorando o andando in pellegrinaggio, che fanno i gran bevitori il vino; e molte volte aveva disiderato d’avere cotali insalatuzze d’erbucce, come le donne fanno quando vanno in villa; e alcuna volta gli era paruto migliore il mangiare che non pareva a lui che dovesse parere a chi digiuna per divozione, come digiunava egli.

Al quale il frate disse: «Figliuol mio, questi peccati sono naturali e sono assai leggieri, e per ciò io non voglio che tu ne gravi più la coscienza tua che bisogni. A ogni uomo addiviene, quantunque santissimo sia, il parergli dopo lungo digiuno buono il manicare, e dopo la fatica il bere.»

«Oh!» disse ser Ciappelletto «padre mio, non mi dite questo per confortarmi: ben sapete che io so che le cose che al servigio di Dio si fanno, si deono fare tutte nettamente e senza alcuna ruggine d’animo: e chiunque altrimenti fa, pecca.»

Il frate contentissimo disse: «E io son contento che così ti cappia nell’animo, e piacemi forte la tua pura e buona conscienzia in ciò. Ma, dimmi: in avarizia hai tu peccato disiderando più che il convenevole, o tenendo quello che tu tener non dovesti?»

Al quale ser Ciappelletto disse: «Padre mio, io non vorrei che voi guardasti perché io sia in casa di questi usurieri: io non ci ho a far nulla, anzi ci era venuto per dovergli ammonire e gastigare e torgli da questo abbominevole guadagno; e credo mi sarebbe venuto fatto, se Idio non m’avesse così visitato. Ma voi dovete sapere che mio padre mi lasciò ricco uomo, del cui avere, come egli fu morto, diedi la maggior parte per Dio; e poi, per sostentare la vita mia e per potere aiutare i poveri di Cristo, ho fatte mie piccole mercatantie, e in quelle ho disiderato di guadagnare. E sempre co’ poveri di Dio quello che ho guadagnato ho partito per mezzo, la mia metà convertendo ne’ miei bisogni, l’altra metà dando loro: e di ciò m’ha sì bene il mio Creatore aiutato che io ho sempre di bene in meglio fatti i fatti miei.»

« Bene hai fatto:» disse il frate «ma come ti se’ tu spesso adirato?»

«Oh!» disse ser Ciappelletto «cotesto vi dico io bene che io ho molto spesso fatto; e chi se ne potrebbe tenere, veggendo tutto il dì gli uomini fare le sconce cose, non servare i comandamenti di Dio, non temere i suoi giudicii? Egli sono state assai volte il dì che io vorrei più tosto essere stato morto che vivo, veggendo i giovani andare dietro alle vanità e udendogli giurare e spergiurare, andare alle taverne, non visitar le chiese e seguir più tosto le vie del mondo che quella di Dio.»

Disse allora il frate: «Figliuol mio, cotesta è buona ira, né io per me te ne saprei penitenzia imporre; ma, per alcun caso, avrebbeti l’ira potuto inducere a fare alcuno omicidio o a dire villania a persona o a fare alcuna altra ingiuria?»

A cui ser Ciappelletto rispose: «Ohimè, messere, o voi mi parete uom di Dio: come dite voi coteste parole? o s’io avessi avuto pure un pensieruzzo di fare qualunque s’è l’una delle cose che voi dite, credete voi che io creda che Idio m’avesse tanto sostenuto? Coteste son cose da farle gli scherani e i rei uomini, de’ quali qualunque ora io n’ho mai veduto alcuno, sempre ho detto: ‘Va’ che Idio ti converta’.»

Allora disse il frate: «Or mi di’, figliuol mio, che benedetto sie tu da Dio: hai tu mai testimonianza niuna falsa detta contro alcuno o detto male d’altrui o tolte dell’altrui cose senza piacer di colui di cui sono?»

«Mai messer sì,» rispose ser Ciappelletto «che io ho detto male d’altrui; per ciò che io ebbi già un mio vicino che, al maggior torto del mondo, non faceva altro che batter la moglie, sì che io dissi una volta male di lui alli parenti della moglie, sì gran pietà mi venne di quella cattivella, la quale egli, ogni volta che bevuto avea troppo, conciava come Dio vel dica.»