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Istoria civile del Regno di Napoli, v. 7

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Questa fu la pratica, che cominciò ne' Dominj dei Principi cristiani, nell'istesso tempo che da Roma si cominciarono a far Indici proibitorj di libri. Molto più fu ne' seguenti tempi continuata, quando i Principi s'accorsero, che in Roma si badava molto a questo affare, e ch'era entrata in pretensione di poter sola proibire i libri, e che senza altra promulgazione ed accettazione, che di quella fatta in Roma, nelle altre province dovesse valere ciò che in Roma veniva stabilito. Fondossi a tal effetto nel Pontificato di Sisto V una nuova Congregazione di Cardinali, chiamata per ciò dell'Indice: e così questa, come l'altra del S. Uficio, ed il Maestro del Sagro Palazzo Appostolico, non badavano ad altro. Ma non perciò s'arrestarono i Principi ne' loro Reami far valere le loro ragioni e preminenze, così di non permettere impressione di libro alcuno senza lor licenza, nè senza il consueto exequatur regium far osservare le proibizioni di Roma, come anche di proibire essi i libri, come si è detto di sopra.

La loro vigilanza vie più crebbe, quando s'accorsero, che in Roma erano più frequenti, che prima le proibizioni; e che qualunque libro che usciva, nel quale si difendevano le regalie di qualche Principe, o si facevano vedere le intraprese della Corte di Roma sopra la loro autorità e giurisdizione a' diritti delle Nazioni, erano pronti i decreti della Congregazione dell'Indice, e gli editti del Maestro del Sagro Palazzo a proibirlo.

Per questa cagione furono avvertiti di non permettere, che simili proibizioni fossero ne' loro Reami ricevute. I Re di Spagna, come dice Salgado48, non meno che i Re di Francia, avendo avvertito, che in Roma erano questa sorte di libri affatto vietati, solo perchè in quelli si fondavano le regalie e la giurisdizione de' Re e le ragioni de' loro sudditi; per riparare ad un così grave pregiudizio, ordinarono, che i Brevi appostolici e consimili decreti o editti fossero portati alla suprema Inquisizione di Spagna, e secondo il costume usitatissimo ne' Regni di Spagna, fossero ritenuti, nè permessa la loro pubblicazione e molto meno l'esecuzione, affinchè non allacciassero le coscienze de' sudditi per queste proibizioni, non ad altro fine procurate, che per annientare le ragioni de' Principi e delle Nazioni.

Questo medesimo fecero valere nelle province di Fiandra, e quel ch'è da notare, nel nostro Regno di Napoli ancora, cotanto a Roma vicino, ed al quale sovente gli Spagnuoli, per vantaggiar le condizioni dei Regni loro di Spagna, permisero, che molti aggravj dalla Corte di Roma sofferisse.

Il Pontefice Clemente VIII, dopo la Giunta di Sisto V, accrebbe l'Indice Romano e fatto di nuovo imprimere e pubblicare, in tutto il tempo del suo Pontificato tenne così esercitata la Congregazione dell'Indice ed il Maestro del Sagro Palazzo, che non vi fu anno, che da Roma non uscissero decreti e editti proibitorj. Dal primo anno del nuovo secolo 1601, e per li seguenti anni insino alla sua morte, non uscivano altro da Roma, che questi decreti e editti, per li quali furono successivamente proibiti molti libri di quasi tutte le professioni e scienze, sol perchè o gli Autori erano separati dalla Chiesa, o perchè sostenevano le regalie, o altre ragioni di Principi, o perchè qualche errore fosse in quelli trascorso. Furono proibiti molti libri legali, fra gli altri con molto rigore l'opere di Molineo, li trattati di Alberico Gentile, di Giovanni Corasio, di Scipione Gentile e di tanti altri.

Infra questi il nostro reggente Camillo de Curte, che, come diremo, fu uno de' più rinomati nostri Professori di que' tempi, diede in Napoli, nel 1605, alle stampe una sua opera intitolata: Diversorii juris Feudalis Prima, et Secunda Pars: nella seconda parte della quale trattò de' remedj, che sogliono praticarsi nel Regno per difesa della giurisdizione regale, affinchè nè i diritti regali ricevano oltraggio, nè i suoi vassalli siano oppressi da' Prelati, usurpando la regal giurisdizione: dichiara in questo libro il modo solito e per lungo uso stabilito di resister loro: cioè nel principio di farsegli una, due e tre ortatorie: quando queste non bastano, di chiamargli: non obbedendo alla chiamata, di sequestrar loro le temporalità e carcerare i parenti più a lor congiunti, i servidori, anche gli amici: e per ultimo, non volendo obbedire, di cacciargli dal Regno. Modi legittimi, permessi ed approvati da una inveterata pratica di tutti i Regni d'Europa. Ma il libro appena fu dato alla luce, che ecco si vide nel medesimo anno uscir da Roma un editto, col quale fra gli altri libri venne anche severamente proibito questo, con tali parole: Camilli de Curtis secunda pars Diversorii, sive Comprensorii juris Feudalis, Neapoli apud Constantinum Vitalem 1605 omnino, et sub anathemate prohibetur49.

Il Conte di Benavente, che si trovava allora Vicerè in Napoli, intesa la proibizione, non volle a patto veruno concedere Exequatur all'editto; anzi a' 14 decembre del medesimo anno, scrisse una grave consulta al Re Filippo III, nella quale fra l'altre cose occorsegli in materia di giurisdizione, gli diè raguaglio di questa proibizione fatta del libro del Reggente in Roma, sol perchè in questo si dichiaravano que' rimedj ed i diritti di S. M. che ha in simili occorrenze, rappresentando al Re, che contro questo abuso bisognava prendere risoluti e forti espedienti, perchè altramente ciò soffrendosi, non vi sarebbe chi volesse difendere la regal giurisdizione50.

Parimente nel 1627, sotto il Pontificato di Urbano VIII, dalla Congregazione dell'Indice uscì un decreto sotto la data de' 4 febbrajo di quell'anno, dove oltre la proibizione fatta d'alcune opere legali di Treutlero, di Ugon Grozio e dell'Istoria della giurisdizion pontificia di Michele Roussel, fu anche proibito un libro che D. Pietro Urries avea allora pubblicato in Napoli in difesa del Rito 235 della nostra G. C. della Vicaria, intorno a' requisiti del Chericato, da riconoscersi da quel Tribunale; e perchè quel Rito, ancorchè antico, non mai però interrotto, si oppone alle nuove massime della Corte di Roma, fu tosto il libro proibito in Roma: Petri de Urries liber inscriptus: Aestivum otium ad repetitionem Ritus 235 M. C. Vicariae Neapolitanae51. Ma il Duca d'Alba Vicerè non fece valere nel Regno quel decreto, e ne scrisse al Re, da cui ne ricevè risposta sotto li 10 agosto del detto anno, maravigliandosi della proibizione fatta in Roma di quel libro dove non si difendeva, che un Rito antichissimo della Vicaria del Regno52.

Questa vigilanza si tenne presso di noi, quando si volevano far valere i nostri diritti e le nostre patrie leggi ed istituti; poichè noi, affinchè non si ricevano bolle, brevi, decreti, editti ed in fine ogni provisione di Roma senza l'Exequatur Regium, ne abbiamo legge scritta stabilita dal Duca d'Alcalà nel 1561, quando vi era Vicerè, e che leggiamo ancora impressa nei volumi delle nostre Prammatiche53: requisito che in conformità della legge era necessario, e si praticava anche ne' decreti che venivano da Roma, per li quali si proibivano i libri: ed in ciò il Regno nostro non ha che invidiare (quando si voglia) nè a Francia, nè a Spagna, nè a Fiandra, nè a qualunque altro Principato più ben istituito e regolato del Mondo Cattolico.

In Francia è a tutti noto che non han forza alcuna simili Bolle o Decreti proibitorj di Roma: sono quelli ben esaminati, e se si trovano a dovere, si eseguiscono, altrimente si rifiutano. Ciò che non potrà più chiaramente dimostrarsi, se non per quello che accadde nella proibizione dell'opere di Carlo Molineo. Avendo la Corte di Roma saputo, che non ostante l'indice Romano, per cui erano state affatto quelle proibite, venivano lette in tutti i Regni d'Europa, particolarmente in Francia ed in Fiandra, le cui Università e Censori, avendole solamente espurgate d'alcuni errori, le permettevano, tanto che giravano per le mani di tutti i Giureconsulti e d'altri Letterati, e tenute in sommo pregio; Clemente VIII riputando ciò a gran dispregio della Sede Appostolica, a' 21 Agosto del 1602, cavò fuori una terribile Bolla, colla quale sotto gravissime pene e censure proibì di nuovo assolutamente tutti i suoi Libri, anche gli Espurgati, dicendo, che non aliter quam igne expurgari possint. Rivocò per tanto tutte le licenze date, e volle che per l'avvenire affatto non si concedessero. Quindi nacque il moderno stile delle Congregazioni del S. Officio e dell'Indice, che nelle licenze, che si concedono, quantunque ampissime di legger libri, anche laidissimi e perniziosi, si soggiunga sempre: Exceptis operibus Caroli Molinei. Fu pubblicata questa Bolla, secondo il solito, in Roma a' 26 agosto di quell'anno 1602, ed affissa ad valvas Basilicae Principis Apostolorum in acie Campi Florae, soggiungendosi che tutti ita arctent, ac afficiant, perinde ac si omnibus, et singulis intimatae fuissent.

 

Ma che pro? niente valse questa Bolla, nè in Francia, nè nelle Fiandre, nè altrove: l'opere di questo insigne Giureconsulto niente perderono di pregio, nè erano meno stancate da' Professori ora di prima: tutti i Giureconsulti, ed ogni Pratico l'ebbe tra le mani, ed era più studiato quest'Autore, e più frequentemente allegato nel Foro che Bartolo e Baldo; e resesi così necessario, che, come dice Bertrando Loth54, nella Francia ed in Fiandra niuno insigne Pratico o Avvocato può starne di senza, particolarmente nell'Artesia, dove le Consuetudini di quella Provincia essendo simili a quelle di Parigi, gli scritti di questo Autore sono stimati più di tutti gli altri, e molta autorità ha ottenuto ne' loro Tribunali.

I Prammatici franzesi gli hanno così famigliari che non vi è arringo o scrittura che si faccia, che non sia ripiena di allegazioni tratte da quelli in qualunque materia, sia di ragion civile o canonica. Ma niun argomento più convince non essere stata in Francia ricevuta questa Bolla, e di non essersi di tal proibizione tenuto alcun conto, quanto quella magnifica ed esatta Edizione fatta modernamente di tutte le Opere di questo Autore in Parigi, e proccurata per opera ed industria di Francesco Pinson il giovane, celebre Avvocato di Parigi, il quale oltre avervi aggiunte alcune sue note molto erudite ed accomodate alla moderna pratica, aggiunse ancora alle suddette opere alcune altre appartenenti alla materia ecclesiastica, che compongono il quarto e quinto tomo. Fu divolgata questa edizione in Parigi in cinque volumi, con espresso privilegio del Re, perchè più chiaramente si conoscesse nel Regno di Francia non essersi tenuta in niun conto la proscrizione di Roma.

Ed in vero non meritavan tanta abbominazione l'Opere di questo Autore, che dovesse portar tanto orrore, il quale, ancorchè non bene sentisse in vita colla Chiesa romana, morì poi Cattolico; e se si permettono, come bene a proposito osservò Van-Espen55, l'opere de' Gentili, ancorchè piene di lascivie e di laidezze, che possono con facilità corrompere i costumi dei giovani; perchè non s'avran da permettere l'opere d'un così insigne Giureconsulto per la loro gravità, dottrina ed erudizione, dalla lezione delle quali possono ritrarre gran frutto? Tanto maggiormente che se bene in quelle vi siano mescolate alcune cose che non bene convengono colla dottrina della Chiesa romana, hanno a ciò rimediato colle loro note, ed avvertimenti Gabriele de Pineau e Francesco Pinson, in maniera che ora è più facile di poter essere contaminati i giovani dalla lezione de' libri lascivi de' Gentili, che il Giureconsulto cristiano possa essere in pericolo, leggendolo, di deviare dalla dottrina della Chiesa Cattolica.

Altri esempi non meno illustri potrebbero raccorsi dalla Francia e dalle province di Fiandra, che convincono il medesimo: come delle proscrizioni fatte in Roma del Libro di Cornelio Giansenio Vescovo d'Iprì, intitolato Augustinus, e della Bolla per ciò emanata dal Pontefice Urbano VIII nel 1643, che comincia: In Eminenti; delli decreti profferiti in Roma dalla Congregazione del S. Ufficio sotto li 6 settembre del 1657 per li quali, fra l'altre, furono proscritte le Lettere volgarmente chiamate Provinciali; della Bolla d'Alessandro VII promulgata in Roma nel 1665, per la quale furon proscritte due Censure della Facoltà di Parigi, non fatte valere nè in Francia, nè in Fiandra: e di tante altre delle quali Van-Espen trattò diffusamente56.

Solo non abbiam riputato tralasciare in quest'occasione di notare, che per tutti i Regni d'Europa i Principi hanno invigilato soprammodo, che da Roma non si proscrivano libri che difendono la loro giurisdizione e le prerogative de' loro Popoli; e con tutto che fossero da quella Corte stati proibiti, non han fatta valere ne' loro Stati la proibizione, nè permesso che i decreti fossero ricevuti, tanto che senza scrupolo vengon letti, nè la proibizione curata; poichè hanno essi scoverto l'arcano di Roma, e quanto importa, che i loro sudditi non s'imbevino d'opinioni che ripugnano al buon governo.

Ne' Regni di Spagna, come si è detto, i decreti venuti di Roma, onde si proibiscono i libri che difendono l'autorità regia, sono ritenuti e si sospende l'esecuzione57.

In Francia la cosa è notissima, e tra le prove della libertà della Chiesa gallicana58, si legge un arringo fatto dall'Avvocato del Re Domenico Talon nel Consiglio regio, per occasione d'un consimile decreto emanato dalle Congregazioni del S. Ufficio e dell'Indice, dove fa vedere che simili decreti non debbono pubblicarsi, come pregiudizialissimi alla Corona ed allo Stato; ed avverte che far il contrario cagionerebbe gravi disordini; poichè da quelle Congregazioni tuttavia l'Indice proibitorio ed espurgatorio di libri si va accrescendo, ed alla giornata prende augumento, e si proscrivono libri in diminuzione delle Regalie del Re e libertà della Chiesa gallicana, siccome eransi avanzati di proibire sino agli Arresti del Parlamento contra Giovanni Castelli, l'opere dell'illustre Presidente, Tuano, le libertà della Chiesa gallicana ed altri Libri concernenti la persona del Re e la sua regal giurisdizione.

In Fiandra dal Consiglio di Brabante co' medesimi sensi ne fu avvertito l'Arciduca Leopoldo, a cui nel 1657 dirizzarono que' Consiglieri una Consulta, nella quale l'ammonirono, che trascurare questo punto sarebbe l'istesso che rovinar l'imperio; perchè già con lunga esperienza s'era veduto, che Roma non fa altro, che proscrivere que' libri che difendono la Regia autorità, tanto che ricevere quelli decreti senz'esame e senza il Placito Regio, è il medesimo che permettere che il Papa possa proscrivere ed interdire al Re di far editti o far imprimere libri o scritti, per li quali sono difese le ragioni sue regali e de' suoi vassalli. E confermando tutto ciò con esempj di fresco accaduti, gli raccordarono che intorno a quattro anni furono in Fiandra impressi due scritti, uno sotto il titolo: Jus Belgarum circa Bullarum receptionem; l'altro: Defensio Belgarum contra evocationes, et peregrina Judicia. In quelli non si toccava niun dogma o articolo di fede, ma unicamente si difendevano le ragioni di S. M. di non ammettersi Bolle senza il Placito Regio: ciò non ostante, erano stati da Roma con decreto Pontificio proscritti: tanto che bisognò che il Consiglio del Brabante con suo decreto facesse cassare ed annullare la proibizione, come si legge dell'arresto rapportato da Van-Espen nel suo Trattato De Placito Regio59.

Questa medesima vigilanza tennero anche un tempo i nostri Vicerè, e sopra tutti, come vedremo ne' seguenti libri di quest'Istoria, il Duca d'Alcalà: la tennero ancora il Conte di Benavente ed il Duca d'Alba, per la proibizione fatta a libri del Curte e d'Urries; ma ora par che in ciò siasi perduto quel vigore e zelo che si dovrebbe tenere del servigio Regio e del Pubblico; e siansi alquanto i Ministri del Re raffreddati in un punto cotanto importante: ciò che hammi mosso a far questa digressione. Non solo si veggono uscir da Roma libri pregiudizialissimi alle ragioni del Re e de' suoi vassalli, ma si permette che s'introducano nel Regno, e la loro lezione non è vietata; ma quello che merita più tosto riscotimento che ammirazione, è il vedersi che all'incontro si proibiscono in Roma ogni dì colla maggior facilità tutti i libri, ove si difendono, contro gli attentati di quella Corte, le ragioni del Re e delle Nazioni; e senza che i Decreti o Bolle siano qui ricevute, senza che vi s'interponga Regio Exequatur, che presso noi è per legge scritta indispensabile a tutte le provisioni che vengano da Roma, niuna eccettuata, si permette l'effetto, non si puniscono chi le osserva, e si crede il suddito peccare leggendogli contro il divieto di Roma, e non peccare rompendo la legge del Principe, per la quale queste provisioni, quando non siano avvalorate di Regio placito, si riputano nulle e di niun vigore, ed in effetto, è come se non vi fossero. E qual maggiore stupidezza fu quella ne' trascorsi anni tra noi usata, che contendendosi tra la Corte di Roma, e 'l nostro Re intorno a' Benefici che giustamente si pretendono doversi conferire a' Nazionali, ed il Principe l'avea con suo Editto comandato; appena uscite tre nobili Scritture, che difendevano l'Editto, e lo dimostravano conforme non meno alle leggi, che a' canoni, si videro tosto in Roma con particolar Bolla di Clemente XI proscritte e condannate alle fiamme, e noi taciti e cheti non farne alcun risentimento; ed all'incontro le contrarie girar attorno libere e franche, senza che si fosse lor dato il minimo impedimento? Anzi siam ridotti a tal vano timore, che non s'ardisce di dar alle stampe opere per altro utilissime, sol perchè si temono queste proscrizioni di Roma.

All'incontro non avviene così de' libri di Roma, che sono stampati e cento volte ristampati, e corrono sempre per le mani di tutti, donde la gente viene universalmente imbevuta di quelle opinioni pregiudizialissime all'autorità del Re ed alle ragioni de' Popoli. Forse altri dirà, non doversi di ciò molto curare, e non piatire in ogni passo per vane parole: non l'intende però così Roma. Sono parole sì, ma, come altri disse, parole che tirarono alle volte eserciti armati: parole che istillate continuamente agli orecchi dei Popoli, gli rendono persuasi di ciò che scrivono, onde nasce l'avversione, la contumacia e l'indocilità di non potergli poi più ridurre alla diritta via: condannano perciò nelle occasioni la parte del Principe, stimano noi miscredenti, e che si voglia colla forza solo sopraffargli. Empiono di false dottrine le coscienze degli uomini, e sovente pregiudizialissime allo Stato; onde nasce che si creda da alcuni potersi usar fraude ne' pagamenti de' dazj e delle gabelle; e se siano imposte senza licenza della Sede Appostolica, credono che non siano dovute, perchè così leggono nella Bolla in Coena Domini, e così ne' loro Casuisti e Teologi. Quindi s'apprendono i tanti alti concetti della potenza e giurisdizione ecclesiastica, ed all'incontro i tanto bassi della potestà del Principe60. Ma di ciò sia detto abbastanza e prendane chi può e deve di ciò cura e pensiero. Di questa mia qualsisia opera ben prevedo che l'abbia da intervenire lo stesso; ma io che, nè per odio, nè per altrui compiacenza ho intrapreso a scriverla, ma unicamente per amor della verità, e per giovare a coloro che vorranno prendersi la pena di leggerla, se ciò l'avverrà, rivolto al Signore che scorge i cuori di tutti ed a cui niente è nascoso, lo pregherò vivamente che la benedica egli, ed istilli negli altrui petti sensi di veracità e d'amore.

 

CAPITOLO V
Re Ferdinando I riforma i Tribunali e l'Università degli Studj: ingrandisce la città di Napoli e riordina le province del Regno

Non solo a questo Principe deve la città e Regno di Napoli, per avervi introdotte tante buone arti e di tante prerogative averlo fornito, ma assai più gli deve per la particolar vigilanza, che tenne nel riordinare i Tribunali di questa città, e di provvedergli di dotti ed integri Ministri, perchè la giustizia fosse in quelli ben amministrata. Egli accrebbe i Tribunali del S. C. e della Regia Camera con nuovi e migliori istituti, e in forma più ampia gli ridusse di ciò che Alfonso suo padre aveagli lasciati. Riordinò il Tribunale della G. C. della Vicaria, ed a' suoi Riti aggiunse nuovi regolamenti intorno al modo d'istituire le azioni e l'accuse, e in miglior forma prescrisse l'ordine giudiziario ed i compromessi, siccome si vede da' suoi editti che pubblicò nel 147761, donde poi i nostri più moderni Pratici, e fra gli altri Bernardino Moscatello Lucerino, preser la norma ch'è quella, che tuttavia in gran parte regola oggi i giudicj ne' nostri Tribunali.

Fu tutto inteso a fornir questo Tribunale d'ottimi Giudici; onde si narra che non ben soddisfatto d'alcuni Dottori ch'erano in Napoli, mandò a cercargli per le province del Regno, e presso il Summonte62 si legge una sua pistola drizzata ad un suo famigliare in Apruzzo, dove gli dice che avea caro d'avere da quella provincia due Dottori che fossero persone da bene per mettergli per Giudici nella Vicaria, e che facesse opera che dall'Aquila venisse Messer Jacopo de Peccatoribus, e che vedesse ancora se in Cività di Chieti ve ne fosse un altro, perchè gli piacerebbe averlo più presto da quella città che d'altra parte.

Nel suo Regno cominciarono a fiorire le lettere, onde si videro sorgere tanti uomini illustri nella giurisprudenza e nell'altre scienze, de' quali più innanzi faremo parola; e per essere egli gran fautore delle scienze, proccurò, che nell'Università di Napoli fossero uomini illustri, che da tutte le parti invitava a leggere in quella Università. V'invitò nel 1465 con buoni stipendi Costantino Lascari, che da Milano, ove in quella Università avea letto sei anni, lo fece venire in Napoli a leggere lingua greca63. Leggiamo ancora, che nel 1474 v'invitò Angelo Catone di Supino celebre Filosofo o suo Medico, facendolo leggere Filosofia ne' pubblici Studj di questa città. Quel famoso Antonio d'Alessandro, che da questo Principe fu adoperato negli affari più rilevanti di Stato, e che per la gran perizia della giurisprudenza acquistò il soprannome di Monarca delle leggi, pure nel 1483 volle che la leggesse in questa Università. Antonio dell'Amatrice celebre Canonista di questi tempi fu da Ferdinando nel 1478 posto in questi Studj per Cattedratico, ove insegnò con grand'applauso e concorso la legge Canonica. E nel 1488 v'invitò per Lettori Bartolommeo di Sorrento, Girolamo Galeota, Giuliano di Majo, Francesco Puzzo, Antonio Feo ed altri famosi Professori, li quali illustrarono quest'Università e la resero non inferiore alle altre Università d'Italia64.

Per le tante utili arti quivi introdotte e per la grandezza de' Tribunali, per la celebrità di quest'Accademia e per tanti altri pregi onde ornò questo Principe Napoli, concorrendovi da tutte le città e Terre del Regno, e da più remote parti gran numero di persone: avvenne, che il numero degli abitatori crescesse a tal segno, che fu d'uopo a Ferdinando ingrandir la città, ed allargare il giro delle sue mura. Avea Carlo I d'Angiò, dopo le antiche ampliazioni, di cui ben a lungo favella il Tutini65, dato principio ad allargare le sue mura, riducendo il mercato (quel miserabil teatro ove rappresentossi l'orribil tragedia dell'infelice Corradino) dentro la città, edificando le mura con torri avanti la chiesa del Carmelo, tirandole per dritto incontro al mare insino all'antico porto della città che si chiama piazza dell'Olmo, e racchiuse dentro di esse le strade, che oggi si appellano della Conciaria, la Ruga de' Franzesi, la Piazza, detta Loggia de' Genovesi, la Piazza delle Calcare e la Ruga de' Catalani. Carlo II suo figliuolo nel 1300 l'ampliò dalla parte di Forcella, e la Regina Giovanna II nel 1425 erse le nuove mura dalla dogana del sale, insino alla strada delle Corregge. Ma Ferdinando dilatò il suo circuito in più ampj e magnifici spazj, e con augusta celebrità si diede ad ingrandirla, buttando la prima pietra con gran solennità e pompa a' 15 giugno dell'anno 1484 dietro il Monastero del Carmelo, ove edificò una Torre, che oggi giorno è in piedi, ed è nomata la torre Spinella, per essere stato Francesco Spinello Cavalier napoletano dal Re destinato Commessario a questa nuova fabbrica delle mura di Napoli. Venne perciò racchiuso dentro la città per queste nuove mura il monastero del Carmelo, e si tolsero via i ponti di tavole, ch'erano avanti a ciascheduna porta della città, poichè attorno all'amiche mura v'erano i fossi; ed a lato della chiesa suddetta si fece quella porta, che ancor oggi si vede adornata di pietra travertina. Camminano queste mura da questo luogo, e rinserrano la strada del Lavinaro, l'altra della Duchesca (così appellata, perchè ivi anticamente era il giardino d'Alfonso Duca di Calabria e della Duchessa sua moglie) e la piazza chiamata Orto del Conte; e si trasferì la porta di Forcella dall'antico luogo a quello dove è al presente, donde vassi a Nola, onde Nolana appellossi. Così ancora fu trasportata la porta Capuana, ch'era vicina al castello di Capuana, a fianchi della Chiesa di S. Caterina a Formello, ove ordinò Ferdinando, che magnificamente si costruisse, e fece scolpire in marmo la sua coronazione per collocarla sopra la medesima; benchè poi, non sapendosene la cagione, non vi fu posta, se non che da poi proseguendo l'Imperador Carlo V di cinger Napoli di nuove mura, abbellì ed adornò questa porta di finissimi marmi e maravigliose sculture con quella magnificenza, che ora si vede. Furono da Ferdinando continuate queste mura, insino al monastero di S. Giovanni a Carbonara, per le quali così questo, come quello di Formello vennero a rinserrarsi dentro la città. Ma rimase interrotto ogni lavoro per le turbolenze, che seguirono, e per le nuove guerre, ch'ebbe a sostenere nella nuova congiura orditagli da' Baroni, cotanto ben descritta da Camillo Porzio. La fabbrica è ben intesa: ella è tutta di piperno, e da passo in passo vi sono molti Torrioni della stessa pietra, il cui Architetto fu Messer Giuliano Majano da Fiorenza66. Sopra ciascuna porta vi fu scolpita in marmo l'effigie del Re sopra un destriere con l'iscrizione: Ferdinandus Rex nobilissimæ Patriæ. Carlo V poi finì il disegno, poichè nel 1537, quando egli venne a Napoli, rinovò ed abbellì la porta Capuana con quella magnificenza, che ora si vede, e togliendo l'effigie di Ferdinando vi pose le sue imperiali insegne; e tirando le mura dalla parte di dietro del Monastero di S. Giovanni a Carbonara le continuò sino alla porta di S. Gennaro, e poi le stese insino alle falde del Monte di S. Martino, nella maniera, ch'ora si vedono; ma le fabbricò non già di piperno, ma di pietra dolce del monte del paese con nuovo modo di fortificazioni, non con torri, ma con Baloardi: e questa fu l'ultima ampliazione per ciò che riguarda il giro delle mura, poichè da poi si fabbricò tanto intorno ad esse, che i suoi borghi nello spazio di 150 anni sono divenuti ora tante ampissime e vastissime città.

Non pure il Re Ferdinando ne' suoi anni di pace inalzò cotanto Napoli capo di un sì floridissimo Regno; ma ebbe ancora particolar pensiero delle sue ampie province, che lo compongono. Non volle, che d'un Regno se ne formasse una città sola, con ispogliar le altre delle loro prerogative; ma le città principali delle province le fece Sedi de' Vicerè. Quando prima i Presidi, che si mandavano a governarle, eran chiamati Giustizieri, ne' suoi tempi cominciarono a chiamarsi Vicerè. Quindi ne' tempi di questi Re Aragonesi leggiamo i Vicerè d'Apruzzo e di Calabria. Quindi leggiamo concedute alle città ove risedevano grandi prerogative, come all'Aquila, Bari, Cosenza ed a molte altre.

Ma sopra ogni altra provincia innalzò quella d'Otranto, e particolarmente la città di Lecce, dove ristabilì con ampissimi privilegi e prerogative quel Tribunale. Quando questo Contado, dì cui Lecce era capo, fu sotto i Principi di Taranto dell'illustre famiglia del Balzo e poi Orsino, questi Principi tenevano il lor Tribunale, ch'era chiamato il Concistoro del Principe; quindi ancor oggi vediamo alcune sentenze profferite in Lecce in Consistorio Principis, dove s'agitavano le cause di quel Contado, ed avea il suo Fisco; onde si diceva il Fisco del Principe, a differenza del Fisco del Re. Questo Concistoro era composto di quattro Giudici Dottori, d'un Avvocato e d'un Proccuratore fiscale, d'un Maestro di Camera, o sia Camerario, d'uno Scrivano e d'un Mastrodatto. Fu istituito nel 1402 da Ramondello Orsino e da Maria d'Engenio genitori del Principe Giovanni Antonio67: ed avea la cognizione delle cause così civili, come criminali, sopra tutto il Contado e sopra tutte quelle città e Terre, che i Principi di Taranto aveano occupate alla Regina Giovanna I.

Quando per la morte dell'ultimo Principe, accaduta in Altamura, il Principato di Taranto venne in mano del Re Ferdinando, ancorchè il Duca Giovanni d'Angiò tentasse i Leccesi perchè si mantenessero sotto le sue bandiere, nulladimanco furon costanti sotto la fede del Re, al quale si diedero, subito che intesero esser morto in Altamura il Principe68. Ed oltre ciò, venuto il Re in Lecce nel 1462 dopo la morte del Principe, gli presentarono tutto il tesoro del Principe, che teneva serbato nel castello di quella città, ricchissimo di vasi d'oro e d'argento e di preziosissime suppellettili: ciò che oltremodo fu accettissimo a Ferdinando, il quale, per le spese della guerra, che sosteneva col Duca Giovanni, era rimaso molto esausto di denaro. Concedè per tanta fede e per un sì opportuno soccorso a Leccesi privilegi ampissimi: confermò loro tutte le concessioni e contratti di terre demaniali e burgensatiche, che aveano avuti col Principe. Confermò il Concistoro co' Giudici, che lo componevano, e gli stipendj che tenevano situati sopra le entrate d'alcuni Casali della città: concedè loro privilegio, che quel Tribunale dovesse sempre risedere in Lecce: lo ingrandì d'altre più eminenti prerogative, costituendolo Tribunal d'appellazione sopra tutte le altre città e Terre della provincia così dei Baroni, come demaniali: che potesse conoscere delle cause feudali, anche de' feudi quaternati: potesse dare i balj ed i tutori a pupilli feudatarj: potesse ravvivare l'istanze perente, che noi diciamo insufflazion di spirito: che le sentenze potessero proferirsi in nome del Re, e potesse farle eseguire, non ostante l'appellazione interposta. Vi costituì per Capo D. Federico suo figliuolo secondogenito, il qual vi dimorò fin che per la morte di Ferdinando II, suo nipote non fosse stato chiamato alla successione del Regno. Volle perciò, che non meno del S. C. di Santa Chiara, fosse nomato ancor egli Sacro Consiglio provinciale, e che dopo quel di Napoli fosse il più eminente sopra tutti gli altri Tribunali del Regno. Quindi avvenne, che la Puglia, essendosi divisa in due Province, in Terra di Bari e Terra d'Otranto, avendo ciascheduna il suo Tribunal separato, ambedue s'usurpassero il titolo di Sacra Audienza; ma ora molte delle riferite prerogative sono svanite, e toltone questo spezioso nome ed alcuni altri privilegi di picciol momento, sono state uguagliate alle Udienze di tutte le altre province del Regno.

48Franc. Salgado de Supplicat. ad SS. par. 2 c. 38 num. 141.
49Leggesi nell'editto del 1605 sotto Clem. VIII nell'Indice de' libri proib.
50Questa consulta si legge tra' M. S. di Chiocc. tom. 17 de Typograph.
51In Indice libr. prohib. sub Urban. VIII ann. 1627, 4 Feb. V. Petram. d. Rit. 235.
52È da vedersi la lettera del Re nel t. 17 de' M. S. Giur. di Chioc.
53Prag. 5 de Citation.
54Bertrand. Loth in Resol. Belgic. tract. 14 quaest 2 art. 7.
55Van-Espen par. 4 de Usu plac. Regii, cap. 2 § 4.
56Van-Espen loc. cit. cap. 3, 4, 5 et 6.
57Salgad. de Supp ad SS.
58Probat. libert Eccl. Gall. cap 10 num. 11.
59Van-Espen in Appendice, litter. E.
60V. il P. Servita nell'Istoria dell'Inquis. ver. fin.
61Si leggono dopo i Riti della G. C. in più rubriche, e la prima comincia, de Procedendi modo in causis civilib.
62Summ. t. 3 p. 505.
63Toppi t 3. Orig. Trib. p. 307
64Toppi Biblioth.
65Tutini Orig. de' Seg. cap. 2.
66Tutin. l. c.
67Summ. tom. 3 pag. 454.
68Anton. Galat, de Situ Japigiae.