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La sorella

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SCENA IX

Balia, Erotico.

Balia. Io non vo’ dirti il mal trovato. Ma mi meraviglio come non ti vergogni di comparirmi dinanzi.

Erotico. A me questo?

Balia. A te questo.

Erotico. E dici da vero?

Balia. E ti par che in un tale accidente non si parli da vero?

Erotico. Tutte due se sono accordate contro me. Ed è possibile che non possa conoscere donde proceda questo sdegno? che non apro la bocca per dimandare, che mi saltano adosso infuriate, che non mi lasciano dir le mie ragioni?

Balia. Pensava che i piaceri, che ti fussero stati fatti, ti avessero posto in obligo da non sciortene giamai; ma tutto è stato fatto al vento, malvaggio, ingrataccio, che tu sei.

Erotico. È possibile che le donne abbino a pigliar tutte le cose per la punta, né vogliono ascoltar cosa, se non quelle che si confanno alla natura loro?

Balia. Cosa da gentiluomo! dopo cavate le voglie, van le povere donne per le lingue del volgo e per le bocche degli uominacci, e raccontate per essempio d’infelici.

Erotico. Ascoltami due parole, per amor de Dio.

Balia. Non bisognan piú belle parole né lacrime, instrumenti da ingannar le povere donnecciuole. L’amore è converso in odio, e il piangere accresce lo sdegno.

Erotico. Ed è possibile che non vogli lasciar l’ira per un poco e ascoltar le mie ragioni?

Balia. M’incolerisco di sorte, che se mai mi dispiacque d’esser donna, mi dispiace ora; ché si fussi uomo come te, ti caverei quelle intestine dal corpo. Ma. se non me ti togli dinanzi, cosí donna come sono, ti caverò cotesti occhi con i diti, e ti strapparò il naso dalla faccia con i denti; e me ne insanguinarei insino all’unghie, cane ingrato e disconoscente.

Erotico. O che tu sei fuora di te o che ti sogni? che diavol t’ho fatto io, che non puoi temprar la lingua dall’ingiurie e narrarmi il fatto come passi?

Balia. Non posso piú patire l’importunitá e la mala creanza di costui.

Erotico. Meglio sará entrarmene ad Attilio e tormi dinanzi l’occasione di qualche nuovo errore.

Balia. Veggio Orgio, e m’ha vista ragionar con Erotico, disgraziata me!

SCENA X

Orgio, Balia.

Orgio. A dio, buona donna.

Balia. Sí, che son buona donna, e se nol credi, te ne giurerò!

Orgio. Ti ho colta sul fatto, non puoi piú negarlo. Giá m’hai chiarito di quanto ne stava suspetto.

Balia. Che gran cosa che m’abbiate visto parlar con un giovane?

Orgio. Che parlavi di cose di stato, di astrologia o di filosofia?

Balia. Non si può dunque parlar d’altre cose?

Orgio. Le baliaccie, che han figliane da marito, parlando con i giovani, non puon dar buon odor di loro. Né fu mai figlia puttana, che la madre o la balia non le sia stata ruffiana.

Balia. Non vi potete doler di me, padron mio.

Orgio. Se tu m’avesti stimato padrone, e non una bestia, non mi aresti trattato nel modo che m’hai trattato.

Balia. Di che vi dolete di me?

Orgio. Chi ha portate e riportate l’ambasciate fra quel giovane e Sulpizia? o ridotti i loro amori nel termine dove or sono?

Balia. Volete dunque dir che vostra nipote sia una puttana, e io una ruffiana?

Orgio. Sotto sí onorata maestra non potea imparar altre opre di quelle ch’ave imparate.

Balia. Questo guadagno dopo la servitú di trent’anni in casa vostra?

Orgio. Questo guadagno io con te, dopo averti amata e onorata trent’anni in casa mia, che al fin avesti a svergognarmi la nipote?

Balia. Mai la casa vostra è stata cosí onorata e riverita, come mentre ci son stata io.

Orgio. Mi doglio ritrovarmi qui nella strada publica, che non vorrei far i vicini consapevoli de fatti miei, ché per risposta ti vorrei far cader questi pochi denti che ti sono restati in bocca, e trarti quei pochi capelli che ti ha lasciati il mal francese; ma faremo i nostri conti in casa, quando manco ci pensarai.

Balia. In casa vostra non entrerò piú mai, poiché in tal stima ci son tenuta.

Orgio. Tu ci entrerai per tuo dispetto, se non di buona voglia.

Balia. Io per forza?

Orgio. Tu sí, e ti strascinerò per li capelli.

Balia. Oimè, oimè, vicini, aiuto, aiuto!

Orgio. Ci bisognano uomini e non asini, a governar queste bestie.

ATTO V

SCENA I

Balia sola.

Balia. A questo modo, eh? come l’infame e le cattive? Per ogni minimo disdegnuccio, subito sbalza di casa, e delle buon’opre di tanti anni non ce ne ricordiamo; né basta il caricarci di male parole, ma di bastonate ancora. Le bastonate dunque sono il prezzo della servitú di trent’anni? E come le vecchie sien cagion de tutti i mali: «Caccia la vecchia, uccidi la vecchia, impicca la vecchia e squarta la vecchia». Ma appiccata e squartata sia da dovero, s’io non me ne vendico: se non posso vendicarmene con le mani, me ne vendicarò come posso: ne farò tal vendetta, che non ti vanterai di avermi fatto ingiuria. Me ne andrò alla casa di Pardo; e li manifesterò un fatto, che li farò sborsar molte migliaia di scudi; e so che cavandosegli quei scudi di mano, li fará peggio che se li cavasse il fegato, il polmone e il core. Forse che gli rincresce, all’assassino, del mal fatto? o viene a darmi qualche buona parola per sodisfazione e acchetarmi? Mira in che stima mi tiene! Ma perché piú perdo tempo in lamentarmi, e non batto la porta di Pardo? Toc.

SCENA II

Pardo, Balia.

Pardo. Che buona nuova, balia mia?

Balia. Vengo con buona intenzione di farvi bene.

Pardo. Ed io vi ricevo con miglior volontá.

Balia. Vi priego per l’antica amicizia che è stata fra noi, per la vicinanza e per l’etá vostra veneranda, che piacciavi darmi udienza per poco tempo.

Pardo. Balia mia, ho gran piacere che me si porga occasione d’impiegarmi ne’ tuoi comandi, per aver tanto tempo conversato fra noi domesticamente, come buoni vicini.

Balia. Vengo a scoprirvi alcuni secreti di Orgio, che v’importano, poiché egli per i suoi mali trattamenti non mi dá cagione che gli abbia a nascondere.

Pardo. Mala cosa è porsi fra dua che son stati gran tempo amici; che, raffreddatosi quell’impeto della colera, si riconciliano insieme e restano poi nemici i mezani.

Balia. Non ci è luogo di riconciliazione piú, né che speri mai piú entrar in casa sua, poiché egli mi ha dato delle bastonate cosí sconciamente.

Pardo. Se ben v’ha trattato male per ira, giá non ne morrai per questo.

Balia. Orgio, dopo la servitú di trent’anni, mi paga con prezzo di tanta ingratitudine.

Pardo. Ma che sète per dirmi?

Balia. Sappiate che Cleria, che vi fu rapita da turchi, e vi costò tanti dinari a riscattarla, non è vostra figlia, ma è Sulpizia, figlia di Filogono; e quella Sulpizia, che è in casa nostra, è Cleria vostra figliuola.

Pardo. Come dite voi questo? e come lo sapete?

Balia. Lo dico, che niuno lo può saper meglio di me, ed è cosí. Quando voi generaste la vostra Cleria, la deste alla moglie di Filogono, che la lattasse, perché egli era allor poverello ed era vostro vicino: ella si lattò la sua Sulpizia, che ora è in casa vostra, e a me diede a lattare la vostra Cleria, sotto nome di Sulpizia.

Pardo. E perché tanto assassinamento?

Balia. Perché voi eravate in quel tempo, come ora sète, oltra modo ricchissimo, ed egli poverissimo: ché, dando a voi la sua figliuola, l’avreste maritata nobilissimamente, e la vostra figliuola, essendo egli poverissimo, l’arebbe umilmente collocata, con speranza che, dopo la vostra morte, si fussero scoverti a lei per veri padre e madre, e ch’ella fusse costretta poi darli onorevol vitto, e da sua pari. Eccovi la cagione.

Pardo. E può cader in cuor di uomo un cosí nefando pensiero?

Balia. Ma la morte privò l’uno e l’altra di tanta speranza, e Idio ne ha fatto la vendetta per voi, ch’essendo eglino venuti poi in miglior fortuna, arebbono voluto manifestarvi l’inganno e riaver indietro la loro figliuola; ma vi fu rapita da turchi: e allora piansero amaramente il peccato e il gastigo di Dio, e se ne moriro ambiduoi di disperazione e di doglia. Ma Filogono lasciò la robba ad Orgio suo fratello, con condizione che, riavendosi la loro Sulpizia, cioè la da voi stimata Cleria, se li consignassero diecimila ducati di dote, e, non ricuperandosi, si dessero alla vera vostra Cleria, cioè la stimata loro Sulpizia, duemila ducati per lo suo casamento, e il restante ereditasse Orgio suo fratello. Or, scoprendosi che la vostra Cleria è figlia vera di Filogono, sará forzato questo furfante darle diecimila ducati di dote: e cosí io li vengo a far questo danno e le mie vendette.

Pardo. Ma che certezza arò io, che la vostra Sulpizia sia la mia vera Cleria?

Balia. Sulpizia vostra è di pel rosso, come voi sète; gli occhi azurri, come i vostri; e il volto simile al vostro: e, se ben vi ricordate, ha una macchia rossa nel braccio sinistro, come goccia di vin rosso.

Pardo. O Dio, veramente mi ricordo di quella macchia rossa, e parmi or di vederla; e nella vostra Cleria mai piú ve l’ho vista. Ma io non conseguisca mai desiderio in mia vita, se, sempre che ho vista Sulpizia, non mi sentiva un certo movimento di sangue per la persona, tra carne e pelle, e non potea imaginarmene la cagione. La natura veramente facea l’ufficio suo, e per una certa occulta affezione l’ho sempre richiesta ad Orgio per darla per moglie ad Attilio, e ancor senza dote. O Dio, in che peccato era io per incorrere! Ma ben fece Orgio, che non lo volea mai consentire. E da che Attilio mi ha condotta la vostra Sulpizia in casa, non mi ha avuto mai grazia, né l’ho mirata mai di buon occhio. O vecchio per tanti anni deluso! Ma sai tu chi ha fatto il testamento di Filogono?

 

Balia. È quel notaio che sta appresso la casa vostra.

Pardo. Lo conosco benissimo. Voi potrete trattenervi in casa mia, finché vi torni commodo, se non volete tornar nella vostra: e trattarete con Costanza mia moglie, che oggi è gionta da Turchia, e ragionate de’ signali, finché vada al notaio e veda il testamento di Filogono; ché ritrovandosi vero quanto dici, come so che è ben vero, ne arai tal mancia, che ne restarai sodisfatta.

Balia. Non ricerco altrimente mancia di ciò: mi gravava la conscienza sopra questo, e mi vendico di quel scostumato vecchiaccio che mi ha cosí bestialmente mal concia.

SCENA III

Orgio solo.

Orgio. Veramente l’ira è una mala consigliera, e trasporta l’uomo a cose, che poi non se ne può piú ritirare, perché l’animo alterato è cagion di molti moti disordinati. La rabbia troppo acuta, che mi mosse cosí subito, fe’ che mi ricordasse piú tosto dell’error suo che del debito mio; perché d’una cosa, che ne potea far passaggio, ha fatto che non abbia avuto rispetto alla servitú di trent’anni, onde io medesimo son stato ministro del mio male. Ho visto la balia ragionar lunghissimamente con Pardo, e son certo che l’ará rivelato della figlia quanto è stato occulto fin ora, perché non ci era altri vivo che lo sapessi. Dogliomi del mio fratello, che d’una cosa, che volea ch’ad altri fusse occulta, non dovea farne consapevole una fantescaccia: ché le cose, che si devono tener occulte, non deve l’uomo fidarle a persona: ché, se l’uom istesso non può tener secrete le cose sue, come si spera ch’altri le voglia tener secrete? Si guardò di me, che l’era fratello, e si fidò della balia; ché non lo seppi mai, se non quando fece testamento. E ho per certo che questa cicalona ce l’ará raccontato, perché ho visto ancora Pardo avviarsi per quella strada, dove abita il notaio, per veder il testamento. O veritá, quanto sei difficile a nascondere, o quanto facile a discoprire, che non può l’uomo tanto giú sepelirti, quanto piú tu assumi di sopra! Giá par che di ora in ora me lo veggia di sopra, con gridi, con minaccie e con ingiurie, che gli restituisca la figliuola sua e che mi tolga la mia: e il peggio sará, che bisogna che sborsi diecimila ducati per la sua dote. Conosco aver errato; ché non dovea cosí rigorosamente castigar la balia, e dovea considerar ch’era vecchia, che i vecchi per se stessi sono colerici e ritrosi. Ma ogni uomo, che spunta di lá, mi par che sia Pardo e che dica: – Dammi la mia Cleria e togliti la tua Sulpizia. Ma eccolo che viene, e alla volta mia. Idio mi aiuti.

SCENA IV

Pardo, Orgio.

Pardo. Fermatevi, Orgio, che ho da parlarvi....

Orgio. (Questa ragionata non sará buona per me: che li torni la figlia).

Pardo.... So che siamo vecchi e arrivamo agli ottanta, e abbiamo a star assai meno al mondo, che non siamo stati: anzi abbiamo il piede in staffa per partirci per l’altro mondo, dove non ci è ritorno....

Orgio. (Il prologo della predica). Questo è il peggio.

Pardo.... E morti che siamo, abbiamo a render stretto conto delle nostre azioni a Dio, e molto piú delle restituzioni delle robbe, né si rimette il peccato se non se restituisce il rubbato....

Orgio. (Quando dovemo riscuotere, siamo predicatori; quando dovemo pagare, siamo diavoli).

Pardo.... Or che siam vivi, possiam rimediare a quello che non possiamo, essendo morti. E tristi coloro che lasciano gli eredi, che restituiscano; che, come la robba ha fatto carne e sangue con l’uomo, non si restituisce piú mai....

Orgio. Di grazia, venghiamo al fatto: ché giá è passata quaraesima, e mi volete far ascoltar la predica.

Pardo. Vostro fratello, di benedetta memoria…

Orgio. (Di maladetta!).

Pardo.... mi scambiò la figlia, tenendosi la mia propria, e mi diè la sua per la mia....

Orgio. Ascoltate.

Pardo. Ascoltate, di grazia, voi, e non m’interrompete, accioché non cominciate a negar la veritá, e poi, negata, la vogliate defendere fin alla morte; e vengamo a liti, contrasti e questioni. Non accade nasconder quel che è palese: ho visto il testamento; e quel che lascia a sua figlia, quando si palesi il fatto, è quanto vi dico.

Orgio. Io so ben che…

Pardo.... Dio ce ‘l perdoni! che essendomi tolta da turchi, ho mandato mio figliuolo sin in Constantinopoli a riscattarla; e mi costa piú di cinquecento ducati, senza l’altre spese e travagli. Però toglietevi la vostra Sulpizia e restituitime la mia Cleria.

Orgio.... ancor ch’io potessi con qualche convenevole scusa difendermi da questa calunnia, io non so farlo; ma confesso liberamente che mio fratello ebbe torto.

Pardo. Di grazia, non entriamo in rettoriche; né bisogna mi doniate quello che non mi potete vendere. Vo’ la mia figlia.

Orgio. Di grazia, non vi alterate e non alzate cosí la voce. Toglietevi la vostra figlia, ma non l’onor mio; ché, restituendovi poi la figlia, voi non potete restituirmi l’onore. Toglietevela quando volete, ché non vi si niega.

Pardo. Sia ringraziata la bontá divina, che prima scoverto si sia che sposati insieme; e che abbiamo spedito un negozio senza farci sentir dal mondo: e resteremo amici, come siamo stati sempre. Andiamo a casa mia o nella vostra, a far il cambio.

Orgio. Eccomi pronto a quanto volete.

Pardo. Venete a casa mia, che mangiaremo insieme, e poi ragionaremo de fatti nostri.

Orgio. Non posso, ho che fare, ci vengo con l’animo.

Pardo. Vo’ che ci vengáti in persona; e per la porta di dietro mandaremo a chiamar Sulpizia vostra, ch’io spasimo di vederla: e vi prego, concedetemi questa grazia.

Orgio. Faccisi quanto comandate.

SCENA V

Erotico, Attilio.

Erotico. (Mira fortuna! m’è forza di confortar costui, e ho bisogno di esser confortato io). Fermatevi, ché voglio esser partecipe delle vostre fatiche e compagno nelle vostre sciagure; ché le nostre fortune poiché hanno una conformitá fra loro, andiamo insieme.

Attilio. Avendo per compagno un amico cosí caro come voi sète, la mia sciagura diverrebbe fortuna: però vo’ andarmene solo e disperato.

Erotico. Il disperarsi è un tradir se stesso, e, tradendo voi, tradite me insieme con voi: però consultiamoci un poco.

Attilio. L’anima mia è in tanta confusione, che non ci è luogo alcuno per consolazione.

Erotico. Ascoltate una parola.

Attilio. Non ho tempo.

Erotico. Vi spedirò subito.

Attilio. Son contento; ma fate presto.

Erotico. A cosí maladetto, insolito e sregolato accidente, andandoci con buon ordine, è temperamento di effetto.

Attilio. Orsú, hai finito?

Erotico. Non mi accurtate il tempo che mi avete dato.

Attilio. Voi lo prolungate piú di quello che v’ho promesso. Ho tanto in odio il mondo, questo sol, questa luce, che vorrei esser mille passi sotterra per non vedergli.

Erotico. Andiamo, come volete; ma non sarebbe bene aspettar Trinca, per saper qualche cosa di Cleria? che fa, che dice, che spera?

Attilio. Fa quello istesso che fo io; e mi affligono piú i suoi che i miei dolori, però schiverò di udirlo.

Erotico. Ed io vo ancor disperato, non potendomi imaginar la cagione, come Sulpizia sia cosí meco adirata.

Attilio. O casa, io mi parto per non averti a veder piú mai. Tu pur fosti ricetto un tempo di ogni mia gioia e consolazione: prego Idio, che resti cosí contenta colei che alberga in te, quanto io mi parto mal contento e disconsolato.

Erotico. Attilio, tu m’hai mostro le lacrime; e stimo che non siano uomini al mondo piú disperati di noi. Ma veggio uscir Trinca da casa vostra molto allegro: aspettiamo, fin che ne sappiamo la cagione.

SCENA VI

Trinca, Erotico, Attilio.

Trinca. (O Dio, e dove troverò Attilio, il mio padrone, e Erotico, per dargli cosí buona nuova?).

Erotico. Cerca di noi, e ci vuol dar una buona nuova.

Attilio. Niuna buona nuova può esser per me, se non che Cleria fusse mia moglie; ma ciò non potendo essere, dunque non è buona per me.

Trinca. (Dove andrò, in casa di Erotico over in piazza? ma stimo che sien partiti per disperati).

Erotico. Trinca, volgeti a noi.

Trinca. Io non posso piú celar l’allegrezza, e bisogno che sfoghi. V’apporto una grande allegrezza.

Attilio. Ne ho perduto ogni speranza.

Erotico. Si dee piú tosto perder la vita che la speranza.

Trinca. Consolatelo, signor Erotico.

Erotico. Non può consolare il compagno, chi non può consolar se stesso.

Attilio. L’allegrezza, che tu dici, è come quell’olio che si pone alla lucerna, quando sta per spengersi.

Trinca. Per secreta volontá di chi può il tutto, quel caso disturbator delle nostre felicitá or s’è rivolto in accommodar le nostre difficoltá; e possiam dir che siate morti e ravvivati in un punto.

Erotico. Trinca, ancor che la tua allegrezza vera non l’estimi, pur godo nell’imaginazione delle tue parole.

Trinca. Vi prometto far ambiduoi contenti.

Erotico. Troppo prometti.

Attilio. La fortuna traditora pur mi lusinga con nuove speranze, e pur le credo. Costui mi dice che mi renderá contento. e son certo che è impossibile, e pur mi piace d’intenderlo.

Trinca. Stammi allegro, padrone, ché è trovata la tua vera sorella.

Attilio. E questo è il mio dolore. Ma sempre che sento nominar sorella, sento un orror scuotersi per tutta la persona.

Trinca. E cosí arai la tua moglie desiderata.

Attilio. Cose contrarie: è trovata la sorella e arai la moglie desiata. Cosí, Trinca, ti beffi del tuo padrone?

Trinca. Avete il torto a dirlo. Voi arete la vostra Sulpizia ed Erotico la sua Cleria.

Attilio. Or ti beffi di l’uno e di l’altro.

Trinca. Io dico il vero all’uno e all’altro. Sappiate che per un mirabile accidente, per un benevolo incontro di fortuna, è successa cosa tutta contraria a quella che minacciava la presente confusione.

Attilio. Dammi un succinto raguaglio del fatto.

Trinca. Orgio, avendo visto la balia ragionar con Erotico, la batté sconciamente.

Erotico. Oimè, che dici? questa è una mala nuova per me.

Trinca. Da questo disordine è nata la vostra allegrezza: ché la balia se ne venne a Pardo, e l’ha manifestato che, quando partorí Costanza e diede a lattar Cleria alla moglie di Filogono, scambiò le bambine, e ritornò la sua Sulpizia a Costanza e si tenne la vera Cleria. A signali Costanza ha trovato vero quanto ha detto. Pardo andò ad Orgio, e minacciandolo l’ha scoverto il tutto. In questo Costanza con tanti bei modi s’è oprata con Pardo suo marito, che ottenne Sulpizia, figlia di Filogono, cioè la vostra Cleria, per vostra moglie con diecimila ducati di dote, che li lasciò il padre, ritrovandosi: dicendogli non deversi far resistenza a quello, che con tanti meravigliosi avvenimenti avea disposto l’alta bontá di Dio, ma lasciarsi guidar da lei.

Attilio. Oimè, che io mi sento incapace di tanta allegrezza, dubito che non mi suffochi l’animo. Ahi, che non potendola caper il mio petto, se ne versa fuori la miglior parte.

Trinca. Cosí dal flusso e riflusso del mar della vostra fortuna, fra suavi scherzi e vari errori, sète stato ributtato al porto di salute.

Attilio. O madre, o cara madre, o tre volte madre, perché tre volte m’hai donato l’essere! O cieli troppo potenti, troppo influenti! o stupori, o meraviglie grandi, che da moglie mi diventi sorella e da sorella moglie! Ma Cleria che facea?

Trinca. Piangeva la poverella amarissimamente; e, non potendo esser vostra moglie, purché fusse amata da voi, si contentava non solo d’esservi sorella, ma umilissima schiava.

Attilio. Dunque Sulpizia è la nostra Cleria sorella? Erotico caro, poiché nelle angustie mi sète stato caro compagno, vo’ che ancora mi siate nelle prospere: non potendo con alcun premio meritar la vostra affezione, vi prometto Cleria per moglie, poiché per bellezza, per etade e per altre nobilissime parti, l’uno è ben degno dell’altra.

 

Erotico. Voi sempre foste la mettá dell’anima mia; or tutta è vostra, e non ci resta piú alcun’altra parte del mio: e son tutto in anima e in corpo vostro. Perché dandomi Sulpizia, mi duoni la vita; e posso dir da oggi innanzi ch’io son vivo per voi, e però vivo per voi.

Trinca. Non bisogna che voi ce la promettiate, perché è sua: che, scovertasi vostra sorella, la balia s’oprò tanto con Costanza e con Pardo, che fusse data a voi; e io ricordando al padrone l’appuntamento di oggi, si son convenuti insieme che sia vostra moglie.

Erotico. O Dio, che nuova!

Attilio. Ed altro che di calze e di giubbone.

Erotico. E perché mi dái contentezza di tanta importanza, te si prepara nuovo guiderdone, che partecipi delle nostre consolazioni.

Trinca. Or sei contento?

Attilio. E consolato ancora. I miei sensi sono tanto occupati dalla improvisa dolcezza, che non posso gustar piacere dell’allegrezza; e se non muoio or di dolcezza, non morrò piú mai. Che fa mia madre?

Trinca. Sta con un piacer grandissimo, ch’essendo stata disturbatrice delle vostre gioie, or è stata aiutrice delle vostre consolazioni; e mi dá ordine, perché son aggionte nozze a nozze, che s’aggiungano feste a feste, conviti a conviti, e balli a balli.

Attilio. Or da un amor cosí strano, mostruoso e fuor del naturale, cosí malagevole da sperarsene bene, n’è riuscito cosí onorato matrimonio. E se ben Idio permette alcuna volta cose che dispiacciono, lo fa per trarne poi un grandissimo bene, come è accaduto a noi.

Erotico. Se vi partevate disperato, or non areste avuto questo contento.

Attilio. M’hai fatto bene, non volendo.

Trinca. Questa volta abbiamo avuto piú ventura che senno. Giá s’è inviato a chiamar Sulpizia per la porta del giardino, e vi stanno aspettando con gran disio di sposarse; e me hanno inviato fuori a chiamarvi col prete da vero, e non col falso parrocchiano.

Erotico. Entriamo, non facciamo aspettarci.

Attilio. Andiam, fratel mio.

Trinca. Spettatori, costoro non usciranno piú fuori; ché, come seranno appresso le loro spose, non li distaccarebbono dalle lor falde tutti gli argani del mondo, ché tira piú un pelo del manto delle donne, che diece paia di buoi. Partetevi; e se non è stata di tanta aspettazione come desiavate, almeno favorite l’animo col solito applauso.

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