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I Vicere

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«Ci siamo! Adesso stiamo freschi!…» mormorarono qua e là gli avversari, gli studenti; ma voci crucciate ingiunsero: «Silenzio!» mentre l’oratore, prese le mosse da Adamo ed Eva e da Caino ed Abele, galoppava per la Babilonia, l’Egitto, la Grecia e Roma, saltava a piè pari il Medioevo, piombava nell’Ottantanove, si arrestava al principe di Bismarck ed al socialismo della cattedra. L’attenzione del pubblico cominciava a diminuire; tuttavia molti si sforzavano di seguirlo in quella corsa pazza. «Lo Stato dovrà dunque essere l’incarnazione della divina Provvidenza? (Ilarità.)» No, dove lo Stato non può arrivare, deve supplire l’iniziativa individuale: quindi Trade-unions, probiviri, cooperative, libertà di sciopero. Era così sciolta la quistione sociale? «No, ci vuol altro!»

Qualche signora sbadigliava dietro il ventaglio, la gente che desinava all’una se la svignava. Ma, finalmente, dichiarato che i problemi sociali «sono nodi gordiani che nessuna spada deve tagliare, ma che l’amoroso studio e l’industre pazienza possono sciogliere», l’oratore passava alla politica estera. «L’assetto dell’Europa, sarebbe vano celarlo, risente ancora delle preoccupazioni della Santa Alleanza.» L’unità germanica doveva soddisfare gl’italiani, ma forse il panslavismo era un fenomeno non scevro di pericoli. «Io credo che s’apponesse il principe di Metternich quando diceva… Non sfuggì tuttavia all’acuto sguardo del conte di Cavour… È certo che il concetto del celebre Pitt…» Sfilavano tutti gli uomini di Stato passati e presenti, entravano in ballo Machiavelli, Gladstone, Campanella, Macaulay, Bacone da Verulamio; l’oratore chiedeva a se stesso: «Qual è la missione storica dell’Inghilterra?… Però la Spagna, se udisse la voce del sangue?…» Tutto questo, pel tradimento di Tunisi! «No, non è stata la Francia di Magenta e Solferino; è stata la Francia di Brenno e di Carlo viii!…» L’uditorio si scosse un poco; gli stenografi annotarono: grandi applausi. Ma gli antagonismi di razza si sarebbero un giorno composti; allora, sarebbero sorti gli Stati Uniti d’Europa. «Però, come ottimamente disse Camillo Benso,» la pace andava cercata nelle fide alleanze e nei forti battaglioni (Benissimo). «Ferve la lotta tra i sostenitori delle grandi navi e delle piccole: io credo che le une e le altre siano necessarie all’odierna guerra marittima. Caio Duilio distrusse la flotta cartaginese mutando la battaglia navale in terrestre.» (Bravo! applausi.) Così, un «giorno non lontano, rivendicati i nostri naturali confini (Applausi vivissimi), riunita in un sol fascio la gente che parla la lingua di Dante (Scoppio di applausi), stabilite le nostre colonie in Africa e forse anche in Oceania (Benissimo!), noi ricostituiremo l’Impero romano!» (Ovazione.)

Subito dopo passò alla quistione delle finanze.

«Quivi sospiri, pianti ed alti guai…» (Ilarità.) Ma i guai non erano senza riparo. «Non facciamo per carità di patria confronti con gli Stati Uniti d’America…» Prima di tutto occorreva riformare il sistema tributario. «Paul Leroy Beaulieu dice… Secondo l’opinione dell’illustre Smith…» Citazioni e cifre si accavallavano. Pochi lo seguivano ormai in quelle elucubrazioni, altra gente andava via, le signore sbadigliavano francamente. «Passiamo adesso ai trattati di commercio… Consideriamo l’ufficio dei comizi agrari…» Ad ogni annunzio di nuovo argomento, piccoli gruppi di spettatori seccati se ne andavano: «Bellissimo discorso, ma dura troppo…» Gli uscenti costringevano la folla a tirarsi da canto, i fedeli ingiungevano: «Silenzio!» e Baldassarre non si dava pace, vedendo l’ineducazione del pubblico. «Amministrazione della giustizia… Giustizia nell’amministrazione. Discentrare accentrando, accentrare discentrando…» Quanto alla marina mercantile, il sistema dei premi non era scevro d’inconvenienti. Poi, «riforma postale e telegrafica, legislazione dei telefoni; non bisogna neppure dimenticare l’idra della burocrazia…»

Adesso si vedevano larghi vuoti nell’arena e nei portici, specialmente nelle terrazze dove il sole arrostiva i crani. «Ma questo non è un programma elettorale, è un discorso da ministro!…» sogghignavano alcuni; l’uditorio era schiacciato dal peso di quell’erudizione, di quelle nomenclature monotone; la luce troppo chiara, il silenzio del monastero ipnotizzava la gente; il presidente del comizio abbassava lentamente la testa, vinto dal sonno; ma, ad uno scoppio di voce del candidato, la rialzava rapidamente, guardando attonito attorno; i musicanti sbadigliavano, morendo di fame. Baldassarre dava di tanto in tanto il segnale di applausi, incorava i fedeli anch’essi accasciati e vinti; si disperava vedendo passare inosservate le bellissime cose dette dall’oratore. Questi parlava da un’ora e mezza, era tutto in sudore, la sua voce s’arrochiva, il braccio destro infranto dal continuo gestire si rifiutava oramai al suo ufficio. Egli continuava tuttavia, deciso ad andare sino in fondo, nonostante la stanchezza propria e del pubblico, perché si dicesse che aveva parlato due ore difilato. A un tratto alcune seggiole rovesciate dalla gente che scappava fecero un gran fracasso. Tutti si voltarono, temendo un incidente spiacevole, una rissa; l’oratore fu costretto a tacere un momento. Riprendendo a parlare, la voce gli uscì rauca e fioca dalla strozza; non ne poteva più, ma era alla perorazione.

«Queste ed altre riforme io vagheggio; non credo tuttavia di dover abusare della vostra pazienza.» Sospiri di sollievo uscirono dai petti oppressi. «Concittadini! Se voi mi manderete alla Camera, io dedicherò tutto me stesso all’attuazione di questo programma. (Bene! Bravo!) Io non presumo di essere infallibile, perché non sono né profeta né figlio di profeta (Si ride): accoglierò pertanto con lieto animo, anzi sollecito fin da ora i miei concittadini a suggerirmi quelle idee, quelle proposte, quelle iniziative che credono giuste e feconde (Benissimo). Il nostro motto sia: Fiat lux! (Applausi). Luce di scienza, di civiltà, di progresso costante (Scoppio di applausi). Il pensiero della patria stia in cima ai nostri cuori (Approvazioni). La patria nostra è quest’Italia che il pensiero di Dante divinò, e che i nostri padri ci diedero a costo di sangue (Vivissimi applausi). La nostra patria è anche quest’isola benedetta dal sole, dov’ebbe culla il dolce stil novo e donde partirono le più gloriose iniziative (Nuovi applausi). La nostra patria è finalmente questa cara e bella città dove noi tutti formiamo come una sola famiglia (Acclamazioni). Dicesi che i deputati rappresentino la nazione e non i singoli collegi. Ma in che consistono gl’interessi nazionali se non nella somma degli interessi locali? (Benissimo, applausi.) Io, quindi, se volgerò la mente allo studio dei grandi problemi della politica generale, credo di potervi promettere che avrò a cuore come i miei propri gli affari più specialmente riguardanti la Sicilia, questo collegio, la mia città natale e tutti i singoli miei concittadini (Grande acclamazione). Grato a tutti voi dell’indulgenza con la quale m’avete ascoltato, io finisco invitandovi a sciogliere un triplice evviva. Viva l’Italia (Scroscio d’applausi grida di: Viva l’Italia.) Viva il Re! (Generali e fragorosi battimani.) Viva la libertà! (Tutto il pubblico in piedi applaude e acclama. Si sventolano i fazzoletti, si grida: Viva Francalanza! Viva il nostro deputato! Il presidente abbraccia l’oratore. Commozione generale, entusiasmo indescrivibile.)»

Consalvo non ne poteva più, sfiancato, rotto, esausto da una fatica da istrione: parlava da due ore, da due ore faceva ridere il pubblico come un brillante, lo commoveva come un attor tragico, si sgolava come un ciarlatano per vendere la sua pomata. E mentre la marcia, intonata per ordine di Baldassarre, spronava l’entusiasmo del pubblico, nel gruppo degli studenti canzonatori domandavano:

«Adesso che ha parlato, mi sapete ripetere che ha detto?»

Negli ultimi giorni, l’ansietà di Consalvo divenne febbre scottante.

La riuscita non poteva mancare, ma egli voleva essere il primo. Il suo comitato oramai era tutta la città, tutto il collegio, elettori e non elettori. I cartelloni con la scritta: votate pel principe di francalanza. eleggete consalvo uzeda di francalanza. è candidato al primo collegio il principe consalvo di francalanza crescevano di dimensioni, erano lenzuoli di carta con lettere d’una spanna: sembrava che gli stessi muri gridassero il suo nome… Il primo! Il primo! Egli voleva essere il primo!…

La sera della vigilia c’era al palazzo un vero pandemonio: tutti domandavano: «Il principe?… Dov’è il principe?…» ma la gente di casa rispondeva che egli era presso lo zio duca, il quale stava poco bene. Nondimeno il lavoro progrediva alacremente, come se egli ci fosse. Erano venuti i rappresentanti di Giardona e Lisi, per concretare la lista degli uffici elettorali; frattanto si preparavano a partire coloro cui toccava andar a vigilare nelle sezioni rurali. A mezzanotte arrivò il principe. L’adunanza si protrasse fino alle due, quando partirono le prime carrozze per le sezioni lontane.

E il domani, costituiti gli uffici, cominciata la votazione, insieme con la notizia della vittoria del principe – perché gli elettori dichiaratisi per lui erano migliaia, venivano apposta dalle villeggiature, si facevano trascinare alle urne sopra le seggiole se non potevano andare coi loro piedi – una voce si sparse, dapprima sorda, poi sempre più alta fra i seguaci di Lisi: «Tradimento, tradimento!…» Il principe, affermavano, si era messo d’accordo, nelle ultime ore della sera innanzi, con Vazza; alcuni precisavano: «L’abbiamo visto noi entrare in casa dell’avvocato, verso le undici…» e sostenevano che lì si fosse complottato il tradimento, l’accordo coi clericali, l’abbandono di Lisi, fors’anche quello di Giardona. «Come, quando? Che diavolo infinocchiate? Il principe è stato in casa del duca, non si è mosso di lì!…» rispondevano i suoi fautori nel tripudio della vittoria già assicurata.

 

Al palazzo, verso il tramonto, arrivarono i primi telegrammi delle sezioni di provincia; ma quei risultati non erano tutti egualmente favorevoli: i candidati locali avevano forti maggioranze; il posto del principe, nelle prime somme, oscillava fra il secondo ed il terzo. Consalvo, pallidissimo, aveva la febbre. Ma, come venivano i risultati delle sezioni urbane, la sua posizione si consolidava; del terzo posto non si parlava più; egli stava con Vazza tra il primo e il secondo. Quando arrivarono gli ultimi telegrammi e gli ultimi messi con le cifre definitive, non vi fu più dubbio: egli era il primo con 6043 voti; veniva dopo Vazza con 5989; poi Giardona con 4914; il radicale Marcenò restava fuori con 3309; Lisi precipitava con meno di 3000 voti; gli altri erano tutti a distanza di migliaia di voti, con 2000, con 1000 appena. Giulente non ne aveva più di 700!

Era notte alta, ma il palazzo Francalanza, illuminato a giorno, risplendeva da tutte le finestre. Una folla sterminata traeva a congratularsi «col primo eletto del popolo»; per le scale era un brusìo incessante; nelle sale non si respirava. Consalvo, raggiante, circolava a stento in mezzo alla folla compatta, afferrava tutte le mani, si stringeva addosso a tutte le persone, guarito interamente, come per incanto, dalla manìa dell’isolamento e dei contagi, nella pazza gioia del magnifico trionfo. E quando una grande fiaccolata, un’immensa dimostrazione con musiche e bandiere, venne ad acclamarlo freneticamente, egli si fece al balcone, arringò la folla, si diede nuovamente in pascolo alla sua curiosità, come un tribuno.

Per tre giorni la città fu in un continuo fermento: ogni sera la dimostrazione si rinnovava, l’entusiasmo invece di raffreddarsi cresceva. Fra il basso popolo una canzonetta, sull’aria del Mastro Raffaele, furoreggiava:

Evviva il principino

Che paga a tutti il vino;

Evviva Francalanza

Che a tutti empie la panza.

Gruppi di ubriachi gridavano: «Viva Vittorio Emanuele! Viva la rivoluzione! Viva Sua Santità!…» cose ancora più pazze. Per tre giorni il palazzo restò ancora invaso dalla gente che veniva a congratularsi: una processione incessante dalle dieci del mattino a mezzanotte, con appena due ore di sosta per la colazione ed il pranzo. Modestamente, egli tentava parlare dei risultati generali, dell’«ottimo esperimento» che aveva fatto la nuova legge, del senno di cui avevano dato prova gl’italiani; ma non lo lasciavano dire, gli parlavano soltanto di lui, della sua clamorosa, meritata vittoria.

Il quarto giorno uscì nelle vie. Si spezzò il braccio, dalle tante scappellate, dalle tante strette di mano. La gioia gli si leggeva in viso, traspariva da tutti i suoi atti e da tutte le sue parole, nonostante lo studio per contenerla. Stanco di veder gente, per assaporare altrimenti il proprio trionfo pensò di far visita ai parenti. Cominciò dal duca, che veramente stava male, con gli ottanta anni di maneggi e d’intrighi sulle spalle.

«È contenta Vostra Eccellenza dei risultati?» gli domandò Consalvo.

Ma il vecchio, quantunque avesse raccomandato a tutti il nipote perché il potere restasse in famiglia, pure non sapeva difendersi da un senso d’invidia gelosa pel nuovo astro che sorgeva, mentre egli non solo era tramontato politicamente, ma sentiva di aver poco da vivere.

«Ho sentito… va bene…» borbottò seccamente.

«Ha visto pure che nel resto d’Italia tutto è andato benissimo? Pareva dovesse cascare il mondo, e i radicali sono appena qualche dozzina. Anche la destra ha guadagnato…»

Egli piaggiava un poco lo zio, del quale aspettava adesso l’eredità. A Roma avrebbe avuto bisogno di denari, di molti denari; quanto più ricco sarebbe stato, tanto più presto avrebbe conquistato il suo posto nella capitale. E la specie di freddezza che gli dimostrava il duca non lo inquietava: a chi avrebbe dovuto lasciare la sua sostanza, se non all’erede del nome degli Uzeda? Ai figli di Teresa, forse?

Lasciata la casa dello zio, egli andò dalla sorella. Se doveva esser grato a costei per la generosità con la quale s’era visto trattato al tempo della morte del padre, non le aveva tuttavia perdonato il rifiuto di aiutarlo durante la lotta: voleva ora farle vedere che anche da solo aveva saputo trionfare. Ma Teresa non c’era. Il portinaio gli disse che la duchessa nuora era uscita con la carrozza di campagna, insieme con Monsignor Vicario. Egli salì tuttavia, e trovò la vecchia duchessa con Padre Gentile.

«Teresa è andata a Belpasso a visitare la Serva di Dio… sai bene, quella contadinella dei miracoli… Monsignor Vescovo non ha permesso a nessuno questo genere di visite; ha fatto un’eccezione solo per tua sorella…»

«La santità della duchessa,» disse compuntamente il Padre Gesuita, «spiega e legittima questa eccezione.»

Consalvo credé di dover chinare un poco il capo, in atto di ringraziamento, come per una cortesia detta a lui stesso.

«E quando tornerà?»

«Stasera, certo.»

«Monsignore,» continuava a spiegare il Padre, «ha provvidamente impedito che questo spettacolo alimentasse la malsana curiosità della folla; ma i sentimenti cristiani che animano la giovane signora e la distinguono fra tutte…»

La conversazione, sempre sullo stesso soggetto, continuava fra il Gesuita e la duchessa. Consalvo, visto sul tavolino da lavoro accanto al quale era seduto un foglietto stampato, lo scorreva con la coda dell’occhio: «formule du serment. En présence de la Très Sainte Trinité, de la Sainte Vierge Marie et de tous les Saints qui sont nés ou qui ont vécu sur le sol de… au nom des pays de… ici représentés, et devant notre vénéré pasteur père et chef spirituel, moi, délégué à cet effet, je déclare formée la province chrétienne du… sous le patronage spécial de Saint… Au nom de cette nouvelle province je reconnais librement et solennellement le Christ Jésus, fils de Dieu vivant, vrai Dieu et vrai homme, dans l’hostie sainte exposée sur cet autel, comme notre Seigneur et maître et comme le Chef suprème du… Au pied du Christ Jésus nous jetons nos biens, nos familles, nos personnes, notre vie, notre honneur, en un mot tout ce qui tient le plus au cœur de l’homme… » Contenendo a fatica il sorriso, Consalvo sorse in piedi.

«Non sai che Ferdinanda sta male?» gli disse la duchessa.

«Che ha?»

«Un’infreddatura. Ma alla sua età tutto può esser grave… Perché non vai a trovarla?»

Egli ascoltò il consiglio. Anche da quella parte poteva venirgli qualcosa, un mezzo milioncino. Se fosse stato più accorto, avrebbe preso con le buone la vecchia, senza rinunziare, beninteso, a nessuna delle proprie ambizioni. L’ostinazione, la durezza di cui aveva dato prova anche con lei erano sciocche, degne d’un Uzeda stravagante, non dell’onorevole di Francalanza, dell’uomo nuovo che egli voleva essere. E arrivando in casa della vecchia, in quella casa dov’era venuto tante volte bambino, a veder gli stemmi, a udire le storie dei Viceré, ad abbeverarsi d’albagia aristocratica, un muto sorriso gli spuntò sulle labbra. Se gli elettori avessero saputo?

«Come sta la zia?» chiese alla cameriera, una faccia nuova.

«Così così…» rispose la donna, guardando curiosamente quel signore sconosciuto.

«Ditele che il principe suo nipote vorrebbe vederla.»

La vecchia era capace di non riceverlo; egli aspettava la risposta con una certa ansietà. Donna Ferdinanda, udendo che c’era di là Consalvo, rispose alla cameriera, con voce arrochita dal raffreddore: «Lascialo entrare.» Ella aveva saputo gli ultimi vituperi commessi dal nipote, la parlata in pubblico come un cavadenti, i princìpi di casta sconfessati, l’inno alla libertà e alla democrazia, il palazzo Francalanza invaso dalla folla dei mascalzoni, Baldassarre ammesso alla tavola del principe che prima aveva servito: Lucrezia le aveva narrato ogni cosa, per vendicarsi, per rovinare Consalvo, per portargli via l’eredità. E donna Ferdinanda aveva sentito rimescolarsi il vecchio sangue degli Uzeda, dallo sdegno, dall’ira; ma adesso era ammalata, l’egoismo della vecchiaia e dell’infermità temperava i suoi bollori. E Consalvo veniva a trovarla; dunque s’umiliava, le dava questa soddisfazione negatale per tanto tempo. Poi, nonostante le apostasie e i vituperi, egli era tuttavia il principe di Francalanza… Il capo della casa, il suo protetto d’una volta… «Lascialo entrare…»

Egli le andò incontro premurosamente, si chinò sul lettuccio di ferro, quello di tant’anni addietro, e domandò:

«Zia, come sta?»

Ella fece solo un gesto ambiguo col capo.

«Ha febbre? Mi lasci sentire il polso… No, soltanto un po’ di calore. Che cosa ha preso? Ha chiamato un dottore?»

«I dottori sono altrettanti asini,» gli rispose brevemente, voltandosi con la faccia contro il muro.

«Vostra Eccellenza ha ragione… sanno ben poco… ma qualcosa più di noi sanno pure… Perché non curarsi in principio?»

La vecchia rispose con uno scoppio di tosse cavernosa che finì con uno scaracchio giallastro.

«Ha la tosse e non prende nulla! Le porterò io certe pastiglie che sono davvero miracolose. Mi promette di prenderle?»

Donna Ferdinanda fece il solito cenno col capo.

«Io non sapevo nulla, altrimenti sarei venuto prima. M’hanno detto che Vostra Eccellenza stava poco bene a momenti, in casa Radalì… Sa che mia sorella è andata oggi a vedere la Serva di Dio, quella di cui si narrano tante cose? È andata col Vicario, lei solamente ha avuto il permesso. Pare che sia un favore insigne… Vostra Eccellenza crede a tutto ciò che si narra?»

Non ebbe risposta. Pur continuò a parlare, comprendendo che alla vecchia doveva far piacere udir chiacchiere e notizie, vedersi qualcuno vicino.

«Io, col rispetto dovuto, non ne credo niente. È forse peccato? Lo stesso San Tommaso volle vedere e toccare, prima di credere… ed era santo!… Ma francamente, certe storie!… Teresa adesso è infatuata… Basta, ciascuno ha da vedersela con la propria coscienza… E la zia Lucrezia che l’ha con me? Che cosa voleva che io facessi?… Mi va sparlando per ogni dove, quasi fossi l’ultimo degli uomini…»

La vecchia non fiatava, gli voltava le spalle.

«Tutto pel grande amore del marito improvvisamente divampatole in petto!… Prima dichiarava ridicoli gli atteggiamenti di Giulente,» non lo chiamava zio sapendo di farle piacere, «adesso sono tutti infami coloro che non l’hanno sostenuto!»

Un nuovo scoppio di tosse fece soffiare la vecchia come un mantice. Quando calmossi, ella disse con voce affannata, ma con accento di amaro disprezzo:

«Tempi obbrobriosi!… Razza degenere!»

La botta era diretta anche a lui. Consalvo tacque un poco, a capo chino, ma con un sorriso di beffa sulle labbra, poiché la vecchia non poteva vederlo. Poi, fiocamente, con tono d’umiltà, riprese:

«Forse Vostra Eccellenza l’ha anche con me… Se ho fatto qualcosa che le è dispiaciuta, gliene chiedo perdono… Ma la mia coscienza non mi rimprovera nulla… Vostra Eccellenza non può dolersi che uno del suo nome sia di nuovo tra i primi del paese… Forse le duole il mezzo col quale questo risultato s’è raggiunto… Creda che duole a me prima che a lei… Ma noi non scegliamo il tempo nel quale veniamo al mondo; lo troviamo com’è, e com’è dobbiamo accettarlo. Del resto, se è vero che oggi non si sta molto bene, forse che prima si stava d’incanto?»

Non una sillaba di risposta.

«Vostra Eccellenza giudica obbrobriosa l’età nostra, né io le dirò che tutto vada per il meglio; ma è certo che il passato par molte volte bello solo perché è passato… L’importante è non lasciarsi sopraffare… Io mi rammento che nel Sessantuno, quando lo zio duca fu eletto la prima volta deputato, mio padre mi disse: “Vedi? Quando c’erano i Viceré, gli Uzeda erano Viceré; ora che abbiamo i deputati, lo zio siede in Parlamento.” Vostra Eccellenza sa che io non andai molto d’accordo con la felice memoria; ma egli disse allora una cosa che m’è parsa e mi pare molto giusta… Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai Re; ora viene dal popolo… La differenza è più di nome che di fatto… Certo, dipendere dalla canaglia non è piacevole; ma neppure molti di quei sovrani erano stinchi di santo. E un uomo solo che tiene nelle proprie mani le redini del mondo e si considera investito d’un potere divino e d’ogni suo capriccio fa legge è più difficile da guadagnare e da serbar propizio che non il gregge umano, numeroso ma per natura servile… E poi, e poi il mutamento è più apparente che reale. Anche i Viceré d’un tempo dovevano propiziarsi la folla; se no, erano ambasciatori che andavano a reclamare a Madrid, che ne ottenevano dalla Corte il richiamo… o anche la testa!… Le avranno forse detto che un’elezione adesso costa quattrini; ma si rammenti quel che dice il Mugnòs del Viceré Lopez Ximenes, che dovette offrire trentamila scudi al Re Ferdinando per restare al proprio posto… e ci rimise i quattrini! In verità, aveva ragione Salomone quando diceva che non c’è niente di nuovo sotto il sole! Tutti si lagnano della corruzione presente e negano fiducia al sistema elettorale, perché i voti si comprano. Ma sa Vostra Eccellenza che cosa narra Svetonio, celebre scrittore dell’antichità? Narra che Augusto, nei giorni dei comizi, distribuiva mille sesterzi a testa alle tribù di cui faceva parte, perché non prendessero nulla dai candidati!…»

 

Egli diceva queste cose anche per se stesso, per affermarsi nella giustezza delle proprie vedute; ma, poiché la vecchia non si muoveva, pensò che forse s’era assopita e che egli parlava al muro. S’alzò, quindi, per vedere: donna Ferdinanda aveva gli occhi spalancati. Egli continuò, passeggiando per la camera:

«La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d’oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. Il primo eletto col suffragio quasi universale non è né un popolano, né un borghese, né un democratico: sono io, perché mi chiamo principe di Francalanza. Il prestigio della nobiltà non è e non può essere spento. Ora che tutti parlano di democrazia, sa qual è il libro più cercato alla biblioteca dell’Università, dove io mi reco qualche volta per i miei studi? L’Araldo sicolo dello zio don Eugenio, felice memoria. Dal tanto maneggiarlo, ne hanno sciupato tre volte la legatura! E consideri un poco: prima, ad esser nobile, uno godeva grandi prerogative, privilegi, immunità, esenzioni di molta importanza. Adesso, se tutto ciò è finito, se la nobiltà è una cosa puramente ideale e nondimeno tutti la cercano, non vuol forse dire che il suo valore e il suo prestigio sono cresciuti?… In politica, Vostra Eccellenza ha serbato fede ai Borboni, e questo suo sentimento è certo rispettabilissimo, considerandoli come i sovrani legittimi… Ma la legittimità loro da che dipende? Dal fatto che sono stati sul trono per più di cento anni… Di qui a ottant’anni Vostra Eccellenza riconoscerebbe dunque come legittimi anche i Savoia… Certo, la monarchia assoluta tutelava meglio gl’interessi della nostra casta; ma una forza superiore, una corrente irresistibile l’ha travolta… Dobbiamo farci mettere il piede sul collo anche noi? il nostro dovere, invece di sprezzare le nuove leggi, mi pare quello di servircene!…»

Travolto dalla foga oratoria, nel tripudio del recente trionfo, col bisogno di giustificarsi agli occhi propri, di rimettersi nelle buone grazie della vecchia, egli improvvisava un altro discorso, il vero, la confutazione di quello tenuto dinanzi alla canaglia, e la vecchia stava ad ascoltarlo, senza più tossire, soggiogata all’eloquenza del nipote, divertita e quasi cullata da quella recitazione enfatica e teatrale.

«Si rammenta Vostra Eccellenza le letture del Mugnòs?…» continuava Consalvo. «Orbene, imaginiamo che quello storico sia ancora in vita e voglia mettere a giorno il suo Teatro genologico al capitolo: Della famiglia Uzeda. Che cosa direbbe? Direbbe press’a poco: “Don Gafpare Vzeda”,» egli pronunziò f la s e v la u, «“fu promosso ai maggiori carichi, in quel travolgimento del nostro Regno che passò dal Re don Francesco ii di Borbone al Re don Vittorio Emanuele ii di Savoia. Fu egli deputato al Nazional Parlamento di Torino, Fiorenza e Roma, et ultimamente dal Re don Umberto have stato sublimato con singolar dispaccio al carico di senatore. Don Consalvo de Uzeda, viii prencipe di Francalanza, tenne poter di sindaco della sua città nativa, indi deputato al Parlamento di Roma et in prosieguo…”» Tacque un poco, chiudendo gli occhi: si vedeva già al banco dei ministri, a Montecitorio; poi riprese: «Questo direbbe il Mugnòs redivivo; questo diranno con altre parole i futuri storici della nostra casa. Gli antichi Uzeda erano commendatori di San Giacomo, ora hanno la commenda della Corona d’Italia. È una cosa diversa, ma non per colpa loro! E Vostra Eccellenza li giudica degeneri! Scusi, perché?»

La vecchia non rispose.

«Fisicamente, sì; il nostro sangue è impoverito; eppure ciò non impedisce a molti dei nostri di arrivare sani e vegeti all’invidiabile età di Vostra Eccellenza!… Al morale, essi sono spesso cocciuti, stravaganti, bislacchi, talvolta…» voleva aggiungere «pazzi» ma passò oltre. «Non stanno in pace tra loro, si dilaniano continuamente. Ma Vostra Eccellenza pensi al passato! Si rammenti quel Blasco Uzeda, “cognominato nella lingua siciliana Sciarra, che nel tosco idioma Rissa diremmo”; si rammenti di quell’altro Artale Uzeda, cognominato Sconza, cioè Guasta!… Io e mio padre non siamo andati d’accordo, ed egli mi diseredò; ma il Viceré Ximenes imprigionò suo figlio, lo fece condannare a morte… Vostra Eccellenza vede che sotto qualche aspetto è bene che i tempi siano mutati!… E rammenti la fellonia dei figli di Artale ; rammenti tutte le liti tra parenti, pei beni confiscati, per le doti delle femmine… Con questo, non intendo giustificare ciò che accade ora. Noi siamo troppo volubili e troppo cocciuti ad un tempo. Guardiamo la zia Chiara, prima capace di morire piuttosto che di sposare il marchese, poi un’anima in due corpi con lui, poi in guerra ad oltranza. Guardiamo la zia Lucrezia che, viceversa, fece pazzie per sposare Giulente, poi lo disprezzò come un servo, e adesso è tutta una cosa con lui, fino al punto di far la guerra a me e di spingerlo al ridicolo del fiasco elettorale! Guardiamo, in un altro senso, la stessa Teresa. Per obbedienza filiale, per farsi dar della santa, sposò chi non amava, affrettò la pazzia ed il suicidio del povero Giovannino; e adesso va ad inginocchiarsi tutti i giorni nella cappella della Beata Ximena, dove arde la lampada accesa per la salute del povero cugino! E la Beata Ximena che cosa fu se non una divina cocciuta? Io stesso, il giorno che mi proposi di mutar vita, non vissi se non per prepararmi alla nuova. Ma la storia della nostra famiglia è piena di simili conversioni repentine, di simili ostinazioni nel bene e nel male… Io farei veramente divertire Vostra Eccellenza, scrivendole tutta la cronaca contemporanea con lo stile degli antichi autori: Vostra Eccellenza riconoscerebbe subito che il suo giudizio non è esatto. No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa.»