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I Vicere

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2

Verso sera, mentre la servitù raccolta nel cortile commentava ancora la magnificenza del funerale, arrivò dalla via di Messina il conte Raimondo con la contessa Matilde. Baldassarre, udendo il tintinnìo delle sonagliere, si precipitò giù per lo scalone e arrivò allo sportello della corriera giusto nel momento che questa arrestavasi e che il padrone saltava giù.

«Chi c’è?» domandò il contino, troncando con voce breve le cerimonie di Baldassarre e mostrando le carrozze allineate nella corte.

«Visite pel signor principe, Eccellenza…» e subito il maestro di casa prese l’aspetto grave e triste conveniente alla circostanza luttuosa.

Il conte s’avviò per lo scalone senza curarsi della moglie né del bagaglio. Baldassarre, a capo chino, offerse il gomito alla signora contessa, ma ella smontò senza appoggiarsi. «Più bella che mai!» giudicavan le donne che le si appressavano rispettosamente, «quantunque un po’ dimagrata, in verità…» La moglie del portinaio osservò anche: «Pare più afflitta lei del contino… E con che dolce voce pregava che portassero su le valige e i sacchi da notte, e rispondeva al: “Benvenuta, Eccellenza!” dei servi, informandosi della loro salute, domandando a Giuseppe se il suo bambino stava bene e a donna Mena se la sua figliuola s’era maritata!…»

Su, nelle anticamere, il principe e Lucrezia vennero incontro al fratello ed alla cognata. Raimondo si lasciò baciare dalla sorella, e, stretta la mano che Giacomo gli tendeva, entrò nella Sala Gialla, zeppa di gente al pari della Rossa, poiché, tolto il divieto di lasciar salire i soli prossimi parenti, ora i cugini in quarto e in quinto grado, gli affini, gli amici venivano in processione a condolersi della gran disgrazia. Tutti, all’apparire della contessa Matilde, si levarono, ad eccezione di don Blasco e di donna Ferdinanda. Quest’ultima, quando la nipote le baciò la mano, borbottò un: «Ti saluto» freddo freddo; quanto a don Blasco, non le rispose neppure. Egli vociava, gesticolando:

«Vogliono il resto? Ah, vogliono il resto? Se vogliono il resto, non hanno da far altro che chiederlo!…»

L’incontro del Priore con Raimondo fu osservato da tutti: il Priore che stava seduto accanto a Monsignor Vescovo col Vicario e parecchi canonici, appena scorto il fratello s’alzò e gli aperse le braccia: Raimondo si lasciò abbracciare un’altra volta, ma quelle dimostrazioni d’affetto lo seccavano visibilmente. Poi il principe lo condusse via, e tutti ripresero i loro posti e i discorsi interrotti.

In un gruppo di pezzi grossi dove c’erano, fra gli altri, il presidente della Gran Corte, il generale e alcuni senatori municipali, don Blasco continuava a fiottare contro i rivoluzionari e i quarantottisti che minacciavano d’alzar la coda. Non era bastata loro la famosa lezione spiegata da Satriano? Volevano il resto? Sarebbero stati immediatamente serviti!

«Ma la colpa più grande credete forse che sia dei sanculotti o di quel ladro di Cavour? È di quei ruffiani che per la loro posizione dovrebbero sostenere il governo e invece si mettono coi morti di fame!»

Egli l’aveva principalmente col fratello duca che s’era fitto in capo di fare il liberalone, lui, il secondogenito del principe di Francalanza! Il marchese di Villardita approvava, chinando la testa, giudicando però che i rivoluzionari, con o senza l’aiuto dei signori, sarebbero rimasti cheti almeno per un altro mezzo secolo: la città portava ancora i segni della terribile repressione dell’aprile Quarantanove: non erano del tutto scomparse le tracce del fuoco e del saccheggio, e mezza popolazione piangeva i morti, i condannati all’ergastolo, gli esiliati.

Il Priore, tornato a sedere accanto a Monsignore, nel gruppo delle tonache nere, deplorava anch’egli, a bassa voce, l’iniquità dei tempi per via della legge piemontese contro le corporazioni religiose; e don Blasco, nel crocchio opposto:

«Adesso fanno la guerra senza denari! Rubando la Chiesa di Cristo! E quel celebre d’Azeglio? Avete letto il suo sproloquio?…»

Dalla parte delle donne la principessa se ne stava in un angolo, un po’ alla larga, per evitar contatti. Donna Ferdinanda, seduta vicino al principe di Roccasciano, parlava con lui d’affari, del raccolto, del prezzo delle derrate, mentre la principessa di Roccasciano raccontava alla baronessa Cùrcuma un suo sogno, la madre che le era apparsa con tre numeri in mano: 6, 39 e 70, sui quali avea giocato dodici tarì di nascosto del marito. Le ragazze Mortara e Costante, amiche di Lucrezia, parlavano d’abiti a quest’ultima, per divagarla, quantunque ella non desse loro ascolto e rispondesse a sproposito, com’era sua abitudine; ma la cugina Graziella teneva da sola animata la conversazione, rivolgendosi a tutti ed a ciascuno, passando da una sala all’altra chiacchierando d’abiti, di sarte, della Crimea, del Piemonte, della guerra, del colera. Stanca del viaggio, la contessa Matilde parlava poco, aspettando di ritirarsi nelle sue camere; don Cono, venuto a mettersele vicino, le recitava tutte le epigrafi da lui composte pel funerale: «M’è sovvenuto d’una variante; bramo il giudizio della contessa…» E il cavaliere don Eugenio giudicava povertà il lusso dei moderni funerali a paragone di quello di un tempo: «Nel 1692 fu perfino emanato un bando, in via di prammatica, per impedire l’eccedente sfarzo delle cerimonie mortuarie!»

Tutti s’alzarono al sopravvenire di donna Isabella Fersa con suo marito don Mario e con Padre Gerbini: il Benedettino reggeva galantemente sul braccio un velo della dama. Questa baciò tutte le Uzeda, fuorché la principessa, la quale, schivandosi, presentò: «Mia cognata Matilde…»

Donna Isabella strinse forte la mano alla contessa e le si mise a sedere a fianco, sospirando:

«Che grande disgrazia! Ma bisogna fare la volontà di Dio!… Siete stati a Firenze?… Anche noi ci fummo l’anno scorso; ma voialtri allora eravate a Milazzo… Una sola bambina finora?… Il conte aspetta un maschietto, naturalmente. Felice voi che avete una figlia: v’invidio, contessa, sapete…»

Padre Gerbini faceva intanto il giro delle signore, discorrendo a lungo con le più giovani e belle, dicendo loro cose galanti e proibite. Egli prendeva le morbide e bianche mani femminili, le teneva un poco fra le sue egualmente bianche e inanellate, poi le baciava. Vedendo rientrare il principe col fratello, lasciò le dame per condurre Raimondo dinanzi alla Fersa.

«Il conte di Lumera… donn’Isabella Fersa, la più bella dama del regno…»

«Non gli creda, dice a tutte così…» esclamò ella sorridendo. «Sono dolente di conoscerla,» riprese, con altro tono di voce e stringendogli la mano, «in questa triste circostanza…» Sospirò un poco, poi ricominciò: «Giusto, la contessa mi diceva che arrivate da Firenze…»

«Direttamente. Ci siamo fermati appena a Messina.»

«Per lasciar la bambina a vostro suocero. Avete fatto bene! Com’è questa Milazzo?»

«Non me ne parli.»

Per fortuna, egli ci stava il meno che poteva, sempre attirato a Firenze, dove aveva tante amicizie. Come egli citava i grandi nomi di Toscana, donna Isabella chinava ripetutamente il capo in atto affermativo: «I Morsini, sicuro… i Realmonte…»

La contessa volgeva supplici sguardi al marito, quasi per dirgli: «Portami via…» ma Raimondo non cessava di parlare del suo tema favorito. Fersa gli s’avvicinò un momento per stringergli la mano ed esprimergli il proprio rammarico.

«Tuo zio il duca arriva domani?»

«Così m’ha detto Giacomo.»

«E del testamento?»

«Non si sa nulla.»

Tra i discorsi di politica, di moda, di viaggi, quella domanda curiosa era sussurrata qua e là, e otteneva sempre la stessa risposta. Il presidente della Gran Corte, testimonio della consegna del testamento segreto fatta dalla principessa al notaio l’anno innanzi, non sapeva nulla intorno al contenuto della carta di cui aveva firmato la busta, e i figli della morta erano al buio peggio degli estranei. Forse, se Raimondo fosse venuto a tempo, quando sua madre lo aveva insistentemente chiamato, egli avrebbe saputo qualcosa; ma il conte, divertendosi a Firenze, aveva fatto orecchio da mercante, quasi non si trattasse dei suoi stessi interessi. Possibile, allora, che la principessa non si fosse confidata proprio a nessuno? a qualcuno dei cognati? a un uomo d’affari, almeno? Di botto don Blasco, lasciando in pace Cavour e la Russia:

«E allora, che sugo ci sarebbe stato?» esclamò. «Così fanno tutti coloro che ragionano, eh?… Ma in questa casa la logica era un’altra!… Nessuno doveva saper niente! tutto si doveva fare a loro capriccio; sempre chiusi, sempre misteriosi, come se fabbricassero moneta falsa!»

Il presidente scrollava il capo con bonomia, per acquietare il monaco focoso; ma questi proseguiva:

«Volete sapere che dirà il testamento? Domandatelo al confessore! Sissignori: al confessore!… Voi al confessore di che parlate? Dei peccati, eh? delle cose di coscienza?… Degli affari, naturalmente, incaricate gli avvocati, i notai, i parenti, sì o no?… Qui invece il confessore scriveva il testamento: forse il notaio impartiva l’assoluzione!»

Alcuni sorridevano a quelle sparate, e le supposizioni avevano libero corso. Il presidente era sicuro, checché si dicesse in contrario, che l’erede sarebbe stato il principe, con un forte legato al conte; e il generale confermava: «Sicuramente, l’erede del nome!» ma il barone Grazzeri scrollava il capo: «Se non andarono mai d’accordo?» Don Mario Fersa, infatti, piano al cavaliere Carvano, manifestava la sua opinione, secondo la quale l’erede sarebbe stato Raimondo. Forse il contegno di lui durante la malattia della madre, il costante rifiuto di venire a vederla, potevano avergli un poco nociuto; ma la predilezione dimostrata dalla principessa a quel figliuolo era stata troppo grande perché in un momento ne andassero dispersi gli effetti. «Non dimentichiamo,» rammentava il cavaliere Pezzino, «che la felice memoria non volle mai chiedere l’istituzione del maiorasco appunto per esser libera di fare a modo suo.» Dunque si sarebbe proprio visto questa enormità? Il capo della casa diseredato? erede Raimondo che non aveva figli maschi? diseredato il principe che aveva già nel piccolo Consalvo il successore?… I lavapiatti, come familiari della defunta, erano richiesti della loro opinione, ma essi che ne sapevano meno di tutti rispondevano evasivamente, per non far torto a nessuno. «E gli altri figli? Ferdinando? Le donne?…» La curiosità, benché contenuta ed espressa sotto voce, era vivissima. Il confessore, questo famoso Padre Camillo, non aveva parlato? «Non c’è, è a Roma da parecchi mesi; e anche ci fosse, non parlerebbe: è volpe fina…» E tutti gli sguardi si volgevano naturalmente a Giacomo ed a Raimondo. Questi chiacchierava ancora con donna Isabella, e pareva che il testamento materno fosse l’ultimo dei suoi pensieri, anzi che egli ignorasse perfino la morte della madre; il principe invece aveva un aspetto più grave del consueto, quale conveniva alla tristezza di quei giorni; egli riceveva con espressioni di gratitudine le reiterate condoglianze delle persone che si congedavano. Alcune di queste però non riuscivano a trovarlo, andavano via senza poterlo salutare; e i familiari si guardavano con la coda dell’occhio, comprendendo. Egli aveva una folle paura della iettatura, attribuiva a una gran quantità d’individui il funesto potere; stava sulle spine in loro presenza, evitava di salutarli, con le mani in tasca. Ma il presidente della Gran Corte, appena alzatosi, se lo vide vicino:

 

«Se lo zio arriverà domani, presidente, fisseremo per posdomani la lettura?»

«Quando credete, principe mio! Sono agli ordini vostri!…»

«Veramente…» aggiunse, abbassando la voce, «io non avrei tanta fretta… anzi mi parrebbe una sconvenienza verso la memoria di nostra madre… Ma sapete come succede quando si è in molti… quando bisogna dar conto a tanti…» E poiché suo fratello il Priore se ne andava anche lui, insieme col Vescovo, li avvertì entrambi, essendo Monsignore un altro dei testimoni.

«Fate, fate voialtri…» disse il Priore, disinteressato. «Che bisogno avete di me?»

Ma Giacomo protestò:

«No, no; che vuol dire! Bisogna fare le cose in regola, per soddisfazione di tutti…»

Siccome annottava, molti andavano via. Padre Gerbini, quantunque il Priore avesse dato l’esempio, restò ancora un poco a cicalare con le signore; poi se n’andò anche lui. Restò, sbraitando contro i rivoluzionari e la cognata morta, don Blasco, che rientrava sempre l’ultimo al convento.

Adesso i servi accendevano le lampade; e con le finestre chiuse, il calore diveniva intollerabile nella sala. La contessa si sentiva mancare e non vedeva più il marito che aveva seguito donna Isabella nella Sala Rossa a discorrere di Parigi. Ancora una volta aveva accanto lo zio Eugenio e don Cono, i quali continuavano a sviscerare le antiche cronache cittadine e citavano con linguaggio fiorito roba latina.

«I funeri di Carlo V furono celebrati a presenza del Viceré Uzeda…»

«La real cappella tolse luogo nel nostro Duomo, ove fu eretta un’altissima piramide ornata di busti e personaggi, fra i quali l’Italia, la Spagna, la Germania e l’India…»

«Per lo appunto; anzi la epigrafe suonava così:

India mæsta sedet Caroli post funera Quinti…»

«E il disvenamento del corsier favorito?»

«Pei funerali di nostro nonno, alla più corta! Quando morì il principe nostro nonno, si svenò il suo cavallo di coscia…»

«Uso barbarico anziché no. Il nobile corsiere rigava di sangue la via, finché cadeva spirando l’ultimo fia…»

A un tratto don Cono esclamò:

«Contessa, gran Dio!»

Tutti accorsero. Era pallida e fredda, con gli occhi rovesciati e le labbra dischiuse. Suo marito, accorso anche lui con donna Isabella, disse:

«Non è nulla… la fatica del viaggio…» E piano, quasi tra sé, mentre la portavano via: «Le solite smorfie!…»

Giorni di continue novità, quelli! Il domani, come s’aspettava, arrivò il duca. Mancava da cinque anni, e nel primo momento la servitù e gli stessi parenti quasi non lo riconobbero: quand’era partito per Palermo aveva un bel collare di barba alla borbonica, adesso invece s’era lasciato crescere il pizzo che dava un altro carattere alla sua fisonomia. Tutti i nipoti gli baciarono la mano; egli s’informò della disgrazia e si scusò per non esser venuto più presto; si scusò anche, pel disturbo che gli dava, col principe, il quale gli aveva fatto preparare al terzo piano le stanze da lui occupate nella casa paterna prima di lasciarla. Ma il nipote protestò:

«Vostra Eccellenza non mi disturba, mi aiuta… E in questo momento ho più bisogno dei suoi consigli…»

«Sai nulla?»

«Nulla!»

«Tua madre non avrà fatto, spero, una delle sue pazzie…»

«Quel che ha fatto mia madre sarà ben fatto!»

Fu così stabilita la lettura pel domani, a mezzogiorno, e il signor Marco ebbe ordine d’avvertire il notaio, il giudice e i testimoni perché si tenessero pronti. Intanto la notizia dell’arrivo del duca s’era subito diffusa per la città, e le prime visite gli furono annunziate che egli non s’era neppur riposato del viaggio. Venivano a cercarlo una quantità di persone che non si sapeva chi fossero: donna Ferdinanda, a udire i nomi annunziati da Baldassarre: Raspinato, Zappaglione, sgranava tanto d’occhi; don Blasco, da canto suo, soffiava come un mantice; ma il peggio fu verso sera, quando cominciò una vera processione «di tutti i sanculotti morti di fame», gridava il monaco al marchese, «che hanno scroccato o vogliono scroccar quattrini a quell’animale di mio fratello!» Mentre il duca dava udienza agli amici, l’Intendente Ramondino venne a far la sua visita di condoglianza al principe, il quale lo ricevé nella Sala Rossa, insieme col marchese di Villardita e don Blasco. Questi, dimenticando che a San Nicola stavano per serrare i portoni, fece una terribile sfuriata contro l’agitazione dei quarantottisti; ma il rappresentante del governo, stringendosi nelle spalle, pareva non desse importanza ai sintomi di cui si buccinava: in verità, a Palermo avevano arrestato qualche facinoroso; ma, al fresco, le teste calde si sarebbero subito calmate.

«Perché non fate venire altra truppa? Perché non date un esempio?… Il bastone ci vuole: sante nerbate!»

Il monaco pareva inferocito; ma il capo della provincia stringevasi nelle spalle: bastavano i soldati della guarnigione; non c’era paura di niente! Del resto, più che sulle baionette, il governo faceva assegnamento sull’influenza morale dei benpensanti… L’elogio era diretto al principe, che se lo prese; ma don Blasco girava gli occhi stralunati come se, avendo un boccone di traverso, facesse sforzi violenti per inghiottirlo del tutto o vomitarlo.

«E il testamento della felice memoria?» disse l’Intendente, curioso anche lui come tutta la città.

«Sarà aperto domani…»

Entrò a un tratto il duca che strinse la mano all’Intendente e gli si mise a sedere a fianco. Allora don Blasco s’alzò rumorosamente per andar via. E nell’anticamera, al marchese che lo accompagnava:

«Capisci?» gridò. «Tutto il giorno coi sanculotti e adesso si strofina all’autorità! Son cose che mi rivoltano lo stomaco!… In questa casa non metterò più piede!»

Anche donna Ferdinanda, nella stanza di lavoro della principessa, dov’era raccolto tutto il resto della famiglia e alcuni lavapiatti, fiottava contro il fedifrago; ma quando Baldassarre annunziò, sull’uscio, credendo che il duca fosse lì:

«Don Lorenzo Giulente e suo nipote cercano del signor duca…»

«Non se ne può più!» proruppe la zitellona arrossendo fin nel bianco degli occhi. «È uno scandalo! Dovrebbe pensarci la polizia!»

Don Mariano, con aria costernata, esclamò:

«Adesso anche il ragazzo!… È una cosa veramente dispiacevole!… Passi lo zio, che è morto di fame; ma il nipote?…»

«Il nipote?» incalzò la zitellona. «Voi non sapete che la volpe, quando non poté arrivare all’uva, disse che era acerba?»

Lucrezia, impallidita, teneva gli occhi bassi, strappando la frangia della poltrona; il principino Consalvo, seduto vicino alla zia, domandò:

«Perché l’uva?»

«Perché?… Perché pretendevano il consenso reale all’istituzione del maiorasco! E non avendolo ottenuto si sono buttati coi sanculotti!… Il consenso reale!… Come se non ci fosse un certo articolo 948 nel Codice civile che canta chiaro!» E sempre rivolta al ragazzo, il quale la guardava con gli occhi sgranati, recitò, gestendo con un dito e cantilenando: «Potrà domandarsene l’istituzione (del maiorasco) da quegl’individui i di cui nomi trovansi inscritti sia nel Libro d’oro sia negli altri registri di nobiltà, da tutti coloro che sono nell’attuale legittimo possesso di titoli per concessione in qualunque tempo avvenuta, e finalmente da quelle persone che appartengono a famiglie di conosciuta no-bil-tà nel Regno delle Due Sicilie…»

«Io credo che i Giulente sono nobili,» disse Lucrezia, prima che la zia finisse e senza alzare gli occhi.

«Io credo invece che sono ignobili,» ribattè secco donna Ferdinanda. «Se possedevano documenti da far valere, avrebbero ottenuto l’approvazione reale.»

«Nobili di Siracusa…» cominciò don Mariano.

«O Siracusa o Caropepe, se avevano i titoli non gli avrebbero negata l’iscrizione nel Libro rosso!»

«Il Libro rosso è chiuso dal 1813,» annunziò don Eugenio col tono di chi dà una notizia grave.

Lucrezia era rimasta a capo chino, guardando per terra. Quando la zia poté credere d’averla ridotta al silenzio, la ragazza riprese:

«I Giulente sono nobili di toga.»

Un risolino fine fine della zitellona le rispose:

«Gli asini credono che la nobiltà di toga sia paragonabile a quella di spada!… Che differenza passava tra i sei giudici del Real Patrimonio, don Mariano? I tre di cappacorta erano nobili… nobili! e i tre di cappalunga, giurisperiti… giurisperiti!… Adesso sapete com’è?… Tutti i mastri notai si credono altrettanti principi!… Un tempo c’erano i baroni da dieci scudi, oggi ci sono quelli da dieci baiocchi…»

Allora la ragazza s’alzò e andò via. Donna Ferdinanda continuava a sorridere finemente, guardando la contessa Matilde.

Frattanto il signor Marco faceva disporre ogni cosa nella Galleria dei ritratti per la lettura del testamento. Il principe era stato un poco esitante sulla scelta del luogo dove compiere la cerimonia: la Sala Rossa, discretamente addobbata, capiva poca gente: il Salone dei lampadari, vastissimo, non aveva altri mobili fuorché le lampade antiche pendenti dalla volta e gli specchi incastrati nelle pareti; la Galleria, invece, conciliava la grandezza con la sontuosità, perché era vasta come due saloni messi in fila, e arredata di divani e sgabelli e mensole e tripodi dorati, e finalmente più degna, per le generazioni d’avi pendenti in effige dai muri, della solennità che radunava i nipoti. Nel mezzo di quella specie di grande corridoio, l’amministratore generale fece disporre una gran tavola coperta da un antico tappeto e provveduta d’un monumentale calamaio d’argento. Intorno alla tavola dodici seggioloni a bracciuoli aspettavano i testimoni e gl’interessati: quello del principe, più alto, volgeva la spalliera al grande ritratto centrale del Viceré Lopez Ximenes de Uzeda, a cavallo e in atto di frenare la bestia con la sinistra e d’appuntar l’indice destro al suolo come dicendo: «Qui comando io!…» Torno torno, in alto e in basso, quanto la parete era lunga, quant’erano larghi i vani tra finestra e finestra nella parete di contro, una moltitudine d’antenati: uomini e donne, monaci e guerrieri, vescovi e dottori, dame e badesse, ambasciatori e viceré, di faccia, di profilo e di tre quarti; vestiti d’acciaio, di velluto, d’ermellino; col capo coronato d’alloro, o chiuso negli elmi, o coperto dai cappucci; con scettri e libri e bacoli e spade e fiori e mazze e ventagli in mano.

Il giorno stabilito, prima del notaio, del giudice e dei testimoni e d’ogni altro parente, spuntò don Blasco, rodendosi le unghie. Entrato che fu, si mise a girare per la casa ficcando gli occhi dappertutto, con le orecchie erte come un gatto, con le narici aperte quasi a fiutare la preda. Subito dopo apparve donna Ferdinanda; e la servitù, giù nella corte, osservava che i cognati della morta, pei quali il testamento non aveva nessun interesse, erano più impazienti di conoscerlo che gli stessi figliuoli. Ma ormai la curiosità di tutti era divenuta insofferente e quasi nervosa: i lavapiatti, sopraggiungendo per aiutare il principe al ricevimento, scambiavano esclamazioni: «Oramai ci siamo! Fra qualche mezz’ora!…» Il Priore venne con Monsignor Vescovo, riprotestando che la propria presenza era inutile; il principe ripeté che voleva tutti. Il giudice col notaio Rubino arrivò nello stesso tempo che il marchese con la moglie e don Eugenio. Poi il presidente della Gran Corte col principe di Roccasciano, altri testimoni; poi la cugina Graziella col marito, poi ancora la duchessa Radalì, poi i parenti più lontani, i Grazzeri, i Costante, poi l’ultimo testimonio, il marchese Motta: ma Ferdinando non si vedeva ancora. E don Blasco, pigliando pel bottone del soprabito il marchese, gli diceva:

 

«Scommettiamo che hanno dimenticato un’altra volta d’avvertirlo?» L’attesa fu penosa. Nessuno parlava più del testamento, ma tutti gli sguardi erano rivolti alla cartella del notaio. I più indifferenti, tuttavia, parevano il conte Raimondo che chiacchierava con le signore e il principe che parlava col presidente d’una causa relativa alla dote della moglie. Mentre il fratello minore, però, saltava da un discorso all’altro con grande disinvoltura, il principe faceva lunghe pause, durante le quali i suoi occhi si fissavano, corrugati, e un pensiero molesto gli velava la fronte.

Quando finalmente Ferdinando spuntò, stralunato, assonnato, come caduto dalle nuvole, fu uno scandalo: mentre perfino la servitù era già vestita di nero, egli portava ancora l’abito di colore, e a don Blasco il quale gli diceva: «Che diavolo hai fatto?» rispondeva, balbettando: «Scusate… scusate… non ci pensavo più…»

All’invito del principe, passarono tutti nella Galleria: il principe, il duca, il conte, il marchese, il cavaliere, il signor Marco, il giudice col notaio e i quattro testimoni presero posto alla tavola; gli altri sederono sui divani tutt’intorno: la principessa appartata in un angolo; donna Ferdinanda con Chiara e la cugina Graziella da una parte; Lucrezia con la duchessa e la contessa Matilde da un’altra: il Priore, seduto sopra uno sgabello, incrociò le mani in grembo e alzò gli sguardi al soffitto con moto di rassegnata indifferenza; don Blasco, appoggiato in piedi allo stipite della finestra centrale, dominava l’adunanza come uno spettatore diffidente dinanzi a una prova di prestigio.

«Vostra Eccellenza permette?» domandò il notaio, e ad un gesto d’assenso del principe cavò dalla cartella un plico sul quale tutti gli occhi si fermarono. Accertata l’incolumità dei suggelli, riscontrate le firme, egli aprì la busta e ne tolse un quadernetto di due o tre fogli. Dopo un breve scambio di cerimonie col giudice, questi, in mezzo a un religioso silenzio, cominciò finalmente la lettura:

«Io, Teresa Uzeda nata Risà, principessa di Francalanza e Mirabella, vedova di Consalvo vii, principe di Francalanza e Mirabella, duca d’Oragua, conte della Venerata e di Lumera, barone della Motta Reale, Gibilfemi ed Alcamuro, signore delle terre di Bugliarello, Malfermo, Martorana e Caltasipala, cameriere di S. M. il Re (che Dio sempre feliciti).

In questo giorno 19 di marzo dell’anno di grazia 1854, sentendomi sana di mente ma non di corpo, raccomando l’anima mia a Nostro Signore Gesù Cristo, alla Beata Vergine Maria ed a tutti i gloriosi Santi del Paradiso e dispongo quanto segue:

I miei amati figli non ignorano che nel giorno in cui entrai in casa Francalanza ed assunsi l’amministrazione del patrimonio, tali e tante passività oberavano la sostanza del mio consorte, che essa poteva considerarsi, anzi era effettivamente distrutta ed alla vigilia di venire smembrata tra i molteplici suoi creditori. Spinta pertanto dall’affetto materno che mi spronava a sacrificarmi pel bene dei miei figli amatissimi, io mi accinsi fin da quel giorno all’opera del riscatto, la quale è durata quanto tutta la mia vita. Assistita dai consigli prudenti di ottimi amici e parenti, coadiuvata dall’opera intelligente del signor Marco Roscitano, mio amministratore e procuratore generale, con l’aiuto della Divina Provvidenza alla quale ne rendo tutte le grazie del mio cuore, io oggi mi trovo di avere non solamente salvata ma anche accresciuta la sostanza della casa…»

Il signor Marco, al passaggio che lo riguardava, aveva chinato rispettosamente il capo. Don Blasco, sempre in piedi, mutò posto: lasciata la finestra si mise dietro al giudice, in modo non solamente da udir meglio ma da verificare con l’occhio la fedeltà della lettura. Il principe teneva le braccia incrociate sul petto e il capo un po’ chino; Raimondo batteva un piede, guardando per aria, seccato.

«Di tutta questa sostanza io sono l’unica e sola donna e padrona, sì per la parte che rappresenta la mia dote in essa investita, sì perché il rimanente è frutto dei miei capitali parafernali e dell’opera mia, come ne fa ampia e piena fede il testamento del benamato mio sposo Consalvo vii, il quale dice così…»

Il giudice sostò un momento per osservare:

«Credo che possiamo saltare questo passo…»

«Infatti… È inutile,» risposero parecchie voci.

Il principe invece, sciolte le braccia, protestò, guardando in giro:

«No, no, io desidero che le cose si facciano in piena regola… Leggete tutto, di grazia.»

«…il quale dice così: “Sul punto di rendere a Dio l’anima mia, non avendo nulla da lasciare ai miei figli, perché, come essi un giorno sapranno, il nostro patrimonio avito fu distrutto in seguito a disgrazie di famiglia, lascio ad essi un prezioso consiglio: di obbedir sempre alla loro madre e mia diletta sposa, Teresa Uzeda, principessa di Francalanza, la quale, come si è finora sempre ispirata al bene della nostra casa, così continuerà per l’avvenire a non avere altra mira fuorché quella di assicurare, col lustro della famiglia, l’avvenire dei nostri figli benamati. Faccia il Signore che ella sia ad essi conservata per mille anni ancora, e il giorno che all’Onnipotente piacerà ridarmela compagna nella vita migliore, seguano i miei figli fedelmente le sue volontà come quelle che non potranno esser dirette se non al loro bene ed alla loro fortuna.”

«I miei cari figli, adunque,» continuava la testatrice «non potranno dare miglior prova della loro affezione e rispetto verso la memoria del padre loro e mia, se non scrupolosamente rispettando le disposizioni che io sono per dettare e i desideri che esprimerò.

Io nomino pertanto…» tutti gli occhi si fermarono sul lettore, don Blasco chinossi ancora un poco per meglio vedere lo scritto, «eredi universali…» e le labbra del principe ebbero a un tratto un’impercettibile contrazione «di tutti i miei beni, esclusi quelli che intendo siano distribuiti nel modo qui appresso indicato, i miei due figli Giacomo xiv principe di Francalanza e Raimondo conte di Lumera…»

Il giudice fece una breve pausa, durante la quale il Vescovo e il presidente scrollarono il capo, guardandosi, in atto di stupore approvativo. Il principe, incrociate di nuovo le braccia, aveva ripreso l’atteggiamento da sfinge; soltanto era un poco pallido; Raimondo pareva non accorgersi dei sorrisi di congratulazione che gli rivolgevano; donna Ferdinanda, con le labbra cucite, passava a rassegna i progenitori pendenti dalle pareti.

«Intendo però,» riprese il lettore, «che nella divisione tra i due fratelli suddetti restino assegnati al principe Giacomo i feudi della famiglia Uzeda da me riscattati, e spettino a Raimondo conte di Lumera le proprietà di casa Risà e quelle che in progresso di tempo furono da me acquistate. Il palazzo avito toccherà al primogenito; ma mio figlio Raimondo avrà l’uso, vita natural durante, del quartiere di mezzogiorno e annesso servizio di stalla e scuderia.»

Con ripetuti cenni del capo, il presidente e Monsignore continuavano ad esprimere la loro approvazione; si udì anche il marchese mormorare: «Giustissimo.» La cugina, ammutolita pel quarto d’ora, girava rapidamente gli sguardi dall’uno all’altro, come non sapendo che pesci pigliare. La lettura continuava: