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La crociera della Tuonante

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12. Alle prese colle belve

In un momento i tre naufraghi scavalcarono la murata e saltarono sulla tolda, sbarazzandosi subito dei due archibugi e delle munizioni che non avevano potuto proteggere dalle ondate.

Come avevano previsto, la nave era deserta. Sorpresa certamente da un terribile uragano, aveva perduto i due alberi all’altezza delle coffe, poi si era sbandata, forse a causa di qualche falla che succhiava lentamente sì, ma continuamente, riempiendo la sentina.

«Nessuno!» esclamò il mastro. «Né vivi né morti!»

Un concerto spaventevole che saliva dalle tenebrose profondità della stiva, lo smentì subito. Erano ruggiti, urli: erano fremiti d’orsi, miagolii di giaguari e di coguari, latrati di lupi.

«Corpo d’un campanile!» esclamò il Bretone, il quale aveva subito aperto il suo coltello. «Chi sono gli abitatori di questa nave misteriosa? Non vi sono uomini, ma pare vi abbondino le bestie feroci. Che cos’ha caricato il suo capitano?»

Piccolo Flocco e l’Assiano per precauzione si erano aggrappati alle griselle, pronti a mettersi in salvo sulle coffe, e avevano avuto anche la precauzione di portare con loro i fucili e le munizioni.

Testa di Pietra, impugnando sempre il coltellaccio, si avvicinò al boccaporto maestro che era spalancato, e subito fece un gran salto indietro, slanciandosi verso i compagni, i quali già si erano messi in salvo sulla coffa del trinchetto.

«E dunque, Testa di Pietra, si possono conoscere i nomi dei nostri nuovi amici?» domandò Piccolo Flocco.

«Ah, birbante! Amici hai il coraggio di chiamarli? Và un pò a provare i loro denti e le loro unghie! Vuoi sapere i nomi dei signori che popolano la stiva e che hanno già sfondate parecchie gabbie di ferro? Te lo dico subito: giaguari, coguari, bisonti, coyotes, orsi grigi e neri, e serpenti.

«Sarebbe stato meglio fossimo rimasti sulla scogliera.»

«Pare anche a me,» rispose il mastro.

«E come mai si trovano tante belve feroci su questa nave?»

«Perché se ne fa mercato. E che prezzi si pagano nei porti della Germania! È vero, Hulbrik?»

«Amburgo tutta piena di pestie cattive,» rispose l’Assiano. «Abitanti non potere certe notti nemmeno dormire, quando arrivare bastimento da Africa o da Asia.»

«E tu dici, Testa di Pietra, che quelle belve sono riuscite a rompere le gabbie?»

«Ho veduto io, con questi occhi, un paio d’orsi grigi e due o tre giaguari slanciarsi verso la scala,» rispose il mastro.

«Vi sono anche dei serpenti, hai detto?

«Sì; ne ho veduti parecchi, ma non sono fuori ancora.»

Piccolo Flocco mandò un lungo sospiro.

«Io non ho paura delle bestie che hanno unghie,» disse. «Ma i serpenti mi fanno troppa paura, e non vorrei…»

S’interruppe bruscamente gridando:

«Buon giorno, signore! Siamo lieti di fare la vostra conoscenza, purché restiate lontano. Avete il vostro biglietto da visita?»

Quell’uscita del giovane gabbiere era stata così comica, che Testa di Pietra ed anche l’Assiano non avevano potuto trattenere un grande scroscio di risa. Il signore, che il giovane gabbiere aveva cortesemente salutato, era un enorme orso grigio, il quale, dopo avere sfondata la sua gabbia, reso feroce dalla gran fame che doveva tormentarlo da parecchi giorni, era comparso sulla tolda, salutando la libertà con un urlo feroce.

«Corpo d’una balena!» esclamò il mastro. «È grosso quasi come un bisonte! Chi è che vuole scendere per dirgli che abbia la cortesia di tornarsene nella gabbia e di lasciarci tranquilli?»

«Io no di certo!» rispose il giovane gabbiere, il quale guardava con spavento le enormi mascelle del bestione, armate di lunghissimi denti gialli.

«E tu, Hulbrik?»

«Io non potere, patre. Gambe tremarmi.»

«E i nostri archibugi sono inutili,» disse Testa di Pietra, «perché le munizioni sono bagnate »

«Ma i calci dei nostri fucili pesano! Con una botta bene appioppata si può fracassare una testa anche dura.»

«Ma nessuno di noi avrà tanto poco giudizio da affrontare Barba Grigia con dei fucili scarichi. Conosco la robustezza eccezionale di quegli animali. Piuttosto facciamo una cosa: tu, Piccolo Flocco, taglia un pezzo di vela e metti a seccare le polveri. Il sole è già abbastanza caldo.»

«Lascia fare a me: fra un’ora noi potremo sparare.»

Hulbrik indicò al mastro l’orso grigio, e gli chiese:

«Rampicatori?»

«Quando sono giovani sì, poi ingrassano troppo e non si sentono più in grado di spingersi in alto. Sono quelli neri che, anche grossissimi, danno la scalata alle piante.»

«Tu aferne feduti, patre?»

«Non so se due o più.»

«Brutto carico, patre!»

«Certo, è da preferirsi di caffè e di zucchero.»

Intanto Barba Grigia spadroneggiava in coperta, senza occuparsi dei tre uomini rifugiati sulla coffa, e che sapeva d’altronde di non poter raggiungere. Vi erano diverse casse e diversi barili sparsi sul cassero. L’equipaggio della disgraziata nave, sorpreso dalla tempesta, pareva non avesse avuto il tempo d’imbarcare tutti i viveri ritirati dalla dispensa.

L’orso grigio, guidato dal suo fiuto finissimo, attraversò la coperta, brontolando e dimenandosi comicamente, poi diede la scalata al cassero.

«Ah, birbante!» gridò Piccolo Flocco. «Va a fare una abbondantissima colazione. Divorerà tutto, e non rimarrà più nulla per noi.»

«T’inganni,» rispose il mastro. «Quando i nostri fucili potranno sparare, quell’onesto plantigrado ci regalerà i suoi prosciutti, che, ti assicuro, sono squisiti. Lasciamolo mangiare.»

«E le altre bestie?»

«M’è parso di averne vedute nel frapponte.»

«Che siano ritornate nelle loro gabbie?»

«Ve le hai cacciate tu?»

«Io no, perché non mi sono mosso dalla coffa.»

Sarei ben lieto che qualcuno le avesse fatte rientrare, perché se gli orsi grigi non possono arrampicarsi, i giaguari ed i coguari vivono quasi sempre fra i rami degli alberi donde sorprendono meglio la selvaggina. Se quelle bestie riusciranno a guadagnare il ponte, ci faranno passare un terribile momento. Le coffe non sono alte; e poi vi sono le griselle.»

«Tagliamole prima che servano a quei signori.»

«Ecco un buon consiglio, Piccolo Flocco. Isoleremo l’albero e non lasceremo che una fune per discendere più tardi.»

Intanto l’enorme orso grigio si era gettato sulle casse e sui barili, sventrando le une e gli altri colle sue formidabili zampacce. Non l’aveva tradito il suo fiuto. Si trattava di enormi pezzi di carne salata, di biscotti a migliaia e di un grosso barile pieno di lardo. Mai orso grigio americano si era trovato dinanzi ad una tale cuccagna, e Barba Grigia aveva mostrata la sua soddisfazione con una mezza dozzina di urli. Poi aveva assalito ora questo, ora quello, rimpinzandosi ingordamente. Ma pareva preferisse i biscotti, perché sparivano con una rapidità spaventevole.

«Buon appetito, signore!» gli gridò Piccolo Flocco.

Ma l’orsaccio non gradì affatto quella gentilezza, perché si rizzò sulle zampe deretane, e fremè dimenando le terribili mascelle.

«È diventato matto il bestione! Che ne dici, mastro?»

«Gli orsi grigi, ch’io sappia, non sono mai stati a scuola, e perciò sono maleducati,» rispose il Bretone. «Ma lasciamolo urlare finché vuole… cioè, non finché vuole, ma fino a quando potremo adoperare i nostri archibugi. Si seccano le polveri?»

«Fra un quarto d’ora potremo scaricare.»

«Bada che siano bene asciutte: un colpo sbagliato può costarci caro.»

In quel momento nella profondità della stiva scoppiò un clamore spaventevole a base di ruggiti, di miagolii, di fremiti e di ululati. Pareva che le belve avessero fiutato i viveri che quel briccone di Barba Grigia voleva riservare tutti per sé, e cercassero con maggior accanimento di sfondare le gabbie.

«Dio mio!» esclamò Piccolo Flocco, turandosi gli orecchi. «Che musica!…»

«Si direbbe che una banda militare tedesca suoni nella stiva!» disse Testa di Pietra con intenzione.

L’Assiano sbarrò gli occhi, stupito di udire offendere le bande tedesche, che anche allora erano giudicate le migliori.

«Tu, patre, non essere musicista,» disse. «Tu non afere orecchi buoni.»

«Hai ragione, Hulbrik,» rispose il Bretone ridendo. «I miei orecchi sono solamente abituati alla grossa musica dei cannoni da caccia.»

«Ja! Ja! E tu afere ormai timpallo offeso.

«Il timpallo?… Che diavolo è, Hulbrik? Vorresti spiegarti un po’ meno tedescamente, perché io prenda delle precauzioni anche contro questo nuovo malanno?

«Udito offeso, patre, da troppe cannonate.»

«Ah, ho capito; ma io so ancora distinguere se è un giaguaro che miagola, se è un coguaro che urla, se è un orso che freme.»

«Ed anche se è un cane che ha i dolori di ventre.» disse il giovane gabbiere, scoppiando in una risata.

Testa di Pietra gli lanciò uno sguardo furibondo:

«Tu vuoi che ti accoppi!» gli gridò.

«Ebbene, vieni ad accopparmi, se ne hai il coraggio! Sarai un Bretone fratricida.»

«Canaglia! Vuoi sempre aver ragione tu?»

«Se non sono di Batz, sono di Pouliguen; e forse noi siamo più furbi.»

«Corpo d’un campanile!» esclamò il mastro, «comincio a crederlo. Che razza di canaglie fioriscono in quella borgata!»

«Lo sai ora dopo quattro anni che ci conosciamo?»

«E che ci bisticciamo! Ma ora finiscila, Piccolo Flocco. Dobbiamo pensare alle bestie feroci, mio caro.»

«Che vadano a mangiare l’orso grigio?»

«Uhm! È un boccone un po’ duro da mandarsi giù. Quando quei mostruosi Barba Grigia lavorano di zampate, danno da fare anche ai giaguari… Tuoni!»

«Che cosa c’è?

«Guarda e ammira!»

Una magnifica bestia, dalla taglia d’una giovane tigre indiana, dal mantello giallastro, picchiettato di alcune macchie scure e di altre variopinte, aveva fatta la sua comparsa in coperta, mandando uno di quei miagolii che diventano talvolta veri ruggiti.

 

«Pella pestia!» disse l’Assiano.

«Che sarebbe ben contenta di affondare denti e artigli nelle tue grasse e rosee carni, amico,» disse il mastro.

«Saltare pestia?»

«E come!»

«Anche qui?

«Può darsi… Piccolo Flocco, è secca la polvere?»

«A puntino,» rispose il giovane gabbiere.

«Allora carica gli archibugi senza perder tempo.»

«Subito,» rispose il bravo giovane, il quale pareva se ne ridesse delle belve che occupavano la nave.

«Altra pestia!» gridò in quel momento l’Assiano.

«Corpo d’un campanile!» urlò Testa di Pietra. «Escono dunque tutte dalle gabbie?»

Guardò verso il boccaporto maestro e vide fermo un animale un po’ più grosso d’un lupo, coperto di un fitto pelame fulvo, con la testa quasi rotonda e la bocca munita di lunghi baffi.

«Cane?» chiese Hulbrik.

«Mio caro, è un leone quello lì.»

«Così piccolo e senza criniera?»

«Non è un leone africano, ma americano; tuttavia quelle pestie, come tu le chiami, sono terribili, e non hanno paura di assalire le persone. È un leone insomma ridotto in tutto fuorché in ferocia… Qua i fucili, Piccolo Flocco.»

«Eccoli, Testa di Pietra,» rispose il gabbiere.

«Sei ben sicuro che la polvere sia secca?»

«Ne rispondo. Se mancherà il colpo, gettami alle bestie.»

Il vecchio Bretone aveva già preso uno dei due archibugi e si preparava a far fuoco, quando disse:

«Noi per ora non abbiamo bisogno di sprecare le nostre munizioni. Povero Barba Grigia!… Si troverà a mal partito con due avversari così agili e così robusti.»

Il giaguaro ed il coguaro, invece di occuparsi degli uomini, si erano diretti verso il cassero, l’uno seguendo il passaggio di babordo e l’altro quello di tribordo per disputare all’orso la cena.

Infatti Barba Grigia, che pareva avesse il ventre di un elefante, da oltre mezz’ora divorava, sempre col miglior appetito, pareva deciso a dar fondo a tutti quei viveri.

«Godremo un bellissimo spettacolo!» disse Testa da Pietra, il quale non pertanto aveva armato l’archibugio. «L’unico scioglimento felice per noi sarebbe che tutte queste bestie si divorassero fra loro.»

I due felini, procedendo cauti e in silenzio, erano saliti sul cassero, ma da due diverse scale per non incontrarsi, e in quel frattempo l’orso grigio aveva sfasciato un altro barile pieno di prosciutti salati.

Stava per addentarne uno, quando il suo naso sentì l’odore di selvatico che tramandano tutti i felini. Mandò un urlo ferocissimo, lasciò andare il barile e si rizzò sulle zampe di dietro, agitando invece furiosamente quelle anteriori come un pugilatore inglese o americano.

«Che unghie ha sfoderato l’amico!» esclamò Piccolo Flocco. «Non vorrei provarle sul mio corpo.»

«Nemmeno io!» rispose il mastro. «Ma non credere che i suoi due avversari siano sprovvisti di adatte difese.»

«Che succeda proprio un combattimento?»

«È certo. Barba Grigia non vorrà cedere le provviste, e gli altri due affamati faranno di tutto per prenderle.»

«Prutte pestie!» brontolò l’Assiano il quale, essendo un buon tiratore, si era armato di uno dei due archibugi.

Il giaguaro, più lesto, più ardito e sicuro delle proprie forze, si era fatto incontro all’orso, ruggendo e dimenando la lunga coda come un gatto in collera. I suoi occhi contratti pareva sprizzassero fiamme. Con un gran salto cadde distante quattro o cinque passi dall’orso, e si mise a girare vorticosamente, costringendo l’avversario a cambiare di continuo la sua posizione. Il coguaro invece, meno forte ma più furbo, si era appiattato dietro una cassa, mettendosi in osservazione. Forse sperava che orso e giaguaro si ammazzassero a vicenda lasciando lui padrone del campo e della colazione senza aver nulla rischiato.

«Ah, il furbo!» esclamò Testa di Pietra. «Pareva volesse anch’esso prender parte alla lotta, e ora, che il buon momento sarebbe giunto per aiutare il compagno, nicchia.»

«È il più piccolo,» osservò il giovane gabbiere.

Se non è grosso come il giaguaro, ha per altro delle unghie terribili, le quali producono ferite spaventose. Non vorrei incontrarlo in piena foresta, mio caro!»

«Nemmeno io, patre,» disse il Tedesco. «Brutto muso da gatto rabbioso.»

«S’attaccano i due bestioni!» gridò Piccolo Flocco, alzandosi per non perdere nulla di quella lotta.

Il giaguaro era riuscito a sorprendere l’orso alle spalle e l’aveva assalito con grande ferocia, lavorando d’artigli e di denti. Il povero Barba Grigia invano girava su se stesso cercando di sbarazzarsi del carnivoro, il quale lo conciava orribilmente. Urlava spaventosamente, agitava da forsennato le zampe anteriori, e batteva i denti producendo un grande rumore. Ma il giaguaro non lasciava: pareva si fosse come incrostato sul largo dorso del plantigrado, e non cessava di mordere, di lacerare, di strappare. Il sangue scorreva a fiotti; ma gli orsi grigi non sono animali da lasciarsi facilmente vincere. Vedendo che non poteva cogliere l’avversario, si rovesciò indietro tutto d’un colpo, schiacciando l’assalitore.

Si udì un urlo feroce, poi un rumore come di ossa fracassate; quindi si vide il giaguaro trascinarsi penosamente verso l’abitacolo di poppa e li stramazzare.

«Le ha prese!» disse Testa di Pietra. «Preferisco che l’orso le dia, non essendo per noi, almeno per ora, pericoloso… Ah, il coguaro!…»

Il leone americano, attratto dall’odore del sangue, si era slanciato a sua volta contro l’orso ed era andato a cadere stupidamente fra le possenti zampe del plantigrado.

«Bravo merlo!» gridò Testa di Pietra. «Ora levati da quella stretta se lo puoi. Le tue costole già scricchiolano come fuscelli secchi.»

Barba Grigia, reso furioso per le ferite ricevute dal giaguaro, si era serrato strettamente contro il petto il suo secondo avversario. Graffiava e mordeva, facendo zampillare altro sangue, ma non poteva muoversi che a grande stento, anche perché scivolava sul pelame lunghissimo del suo formidabile nemico.

«Grida come una scimmia rossa,» disse Testa di Pietra.

«Che cedano le sue costole?» chiese il giovane gabbiere.

«Se non m’inganno devono essere già fracassate. I Barba Grigia sono dotati d’una forza straordinaria, e le loro zampe, quando afferrano, non lasciano più andare. Ohimè… povero leoncino!…Dovevi dare aiuto al giaguaro, imbecille! In due forse sareste riusciti a fare qualche cosa.»

La lotta intanto continuava sul cassero, tutto lordo di sangue e sparso di peli. Il plantigrado, sempre ritto sulle zampe deretane, s’avanzava, indietreggiava, poi girava violentemente su se stesso, come se fosse diventato pazzo. Fra le zampe anteriori stringeva sempre il coguaro, il quale pareva si fosse deciso a far fagotto per l’altro mondo delle bestie feroci.

Per quattro o cinque minuti ancora il gigante delle Montagne Rocciose continuò a balzare, perdendo sangue in gran copia dal dorso e dal ventre, poi allargò le zampe. Il coguaro era caduto come un pacco di biancheria bagnata, producendo un egual rumore. Le sue forme graziosissime non erano più riconoscibili, tanto le strette erano state potenti. Ma nemmeno Barba Grigia si trovava, quantunque vincitore, in buone condizioni.

I tre naufraghi lo videro girare all’impazzata, ora pestando il cadavere del giaguaro, ora quello del coguaro, mandando sempre urli spaventevoli; poi si lasciò cadere, nascondendo la testa fra le zampe e contraendosi tutto. Un tremito fortissimo lo scoteva, facendolo di quando in quando sussultare e urlare.

«Piccolo Flocco,» disse Testa di Pietra, col suo inalterabile buon umore, «non avresti per caso alle mani un veterinario da mandare subito a quel povero Barba Grigia? Se nessuno chiude le sue ferite, fra un’ora sarà dissanguato. »

«Lascialo crepare: mangeremo i suoi zamponi senza correre nessun rischio.»

Aveva appena pronunciate quelle parole, quando, per la terza o quarta volta, dalle profondità della stiva uscivano urli spaventevoli, poi delle bestie: due, cinque, dieci, quindici irruppero dal boccaporto, scagliandosi sulla tolda.

«Corpo d’un campanile!» esclamò Testa di Pietra. «Siamo fritti!»

13. Una strage

Come mai tutte quelle belve erano finalmente riuscite a sfondare le sbarre delle loro gabbie quasi nello stesso tempo? L’orso le aveva prima rovesciate, servendosi del suo straordinario vigore muscolare, e poi aveva torto i ferri? Chi sa? Il fatto è che sulla coperta della nave disalberata si trovavano insieme tre o quattro giaguari, un orsaccio nero, tre coguari e più di mezza dozzina di lupi grigi. E appena fuori, tutte quelle bestie si erano scagliate in tutte le direzioni, all’impazzata, urlando orribilmente. Ma l’odore del sangue attirò subito la loro attenzione e tutte si lanciarono sul cassero, dove il povero Barba Grigia agonizzava fra le sue vittime.

«Spalancate gli occhi!» disse Testa di Pietra. «Succederà una scena che pochi uomini hanno veduto.»

«Che mangino i prosciutti di Barba Grigia?» chiese Piccolo Flocco.

«Oh, su quelli non ci conto ormai più!»

«E poi mangeranno anche noi.»

«Ho tagliato tutte le corde e le griselle, e mi pare che nessun pericolo ci minacci. Ci sarebbe l’orso nero, che è un buon arrampicatore, ma per lui serberemo i primi colpi, se mostrerà il muso all’altezza della coffa.»

«Ah, povero Barba Grigia!…» disse con un falso sospiro il giovane gabbiere.

Le belve, rese furiose dalla lunga fame, ed eccitate dall’acre odore del sangue, si erano scagliate furiosamente sul gigante delle Montagne Rocciose, ridotto ormai in tale stato, da non potersi più difendere. I giaguari e i coguari gli diedero primi l’attacco, dilaniandolo ferocemente; l’orso nero, più furbo, si gettò sulle casse dei biscotti, mentre invece i lupi, senza correre alcun pericolo, divoravano le vittime del gigante delle Montagne Rocciose. Bastarono quindici minuti perché tutto sparisse dentro i ventri affamati delle belve.

Quando non ebbero più nulla da divorare, i giaguari volsero la loro attenzione ai naufraghi. La coffa era alta, ma con un gran salto la potevano arrivare.

«Attenti miei cari!» disse il Bretone. «Ci guardano e pensano che qui c’è dell’altra carne da divorare.»

«Io sparare,» disse Hulbrik.

«Aspetta che te lo dica io. La polvere è troppo cara.»

«Io pono tiratore.»

«Allora fucila l’orso nero, che è il più pericoloso.»

«Sì, patre: io tirare.»

L’Assiano, che come tutti i Tedeschi era davvero un buon tiratore, s’inginocchiò sulla coffa, si appoggiò bene, mirò a lungo, poi lasciò partire il colpo.

L’orso nero, che stava in quel momento vuotando l’ultima cassa di biscotti, fu colpito fra le due spalle, ed ebbe fracassata la spina dorsale.

Il disgraziato plantigrado, non più fortunato di suo fratello grigio, interruppe di colpo il suo pasto; si rizzò sulle zampe di dietro, agitando disperatamente la testa, poi stramazzò. Giaguari, coguari e lupi si gettarono subito su di lui urlando per farlo a pezzi e divorarlo.

«Che cosa dire tu, patre, dei tiratori tedeschi?» chiese l’Assiano.

«Corpo d’un campanile! Hai fatto un magnifico colpo, Hulbrik, e ti faccio i miei complimenti; ma non credere che i Bretoni non siano ottimi bersaglieri. Per tua regola, noi maneggiamo più spesso i grossi pezzi delle navi che le carabine, le quali sono troppo leggiere nelle nostre mani incallite; ma se si presenta l’occasione, sappiamo imbroccare; è vero, Piccolo Flocco?»

«E ammazziamo sempre!» riprese il giovane gabbiere.

«Tirare tu, patre?» chiese l’Assiano.

«Diamine! Ma preferirei veramente avere alle mani un buon pezzo da caccia carico a mitraglia: allora vedresti che spazzatura di bestie feroci! Ma sappiamo, come ti ho detto, maneggiare anche le piccole armi da fuoco e farci onore, perché l’occhio e la mano sono sicuri… Guarda quel brutto giaguaro che sta divorando la testa della tua vittima.»

«Prutta pestia!»

«Ora te l’accomodo io in salsa bretone.»

Testa di Pietra si appoggiò per bene, puntando il gomito sinistro sul fianco, essendo l’arma assai pesante; prese la mira due o tre volte, poi uno sparo rimbombò, avvolgendo la coffa in una nuvola di fumo acre, il giaguaro mirato fece un gran salto in aria mandando un vero ruggito; sgambettò per alcuni istanti sul cassero, seguito da presso dai lupi famelici, poi si abbatté.

«Fulminato!» esclamò Testa di Pietra. «Come vedi, Hulbrik, se i Bretoni sono famosi a maneggiare i cannoni, sanno anche fare buon uso degli archibugi e delle carabine.»

«Bel colpo, patre!» rispose l’Assiano.

«Piccolo Flocco, quante cariche abbiamo ancora?» chiese il mastro.

 

«Un centinaio e più.»

«Allora siamo ricchi e possiamo permetterci il lusso di una grande caccia in pieno mare.»

Le belve feroci dopo l’orso si erano gettate anche sul giaguaro, e lo divoravano ancora agonizzante. Piene fino a scoppiare, si dispersero per il cassero, ad una certa distanza le une dalle altre, guardandosi con diffidenza e ringhiando. Agli uomini non pensavano più, ché la fame l’avevano abbondantemente saziata.

«Bisogna sbarazzare la tolda da quelle canaglie,» disse Testa di Pietra, «se no, non possiamo scendere per cercare dei viveri.»

«Speri di trovarne ancora?» chiese il giovane gabbiere.

«Sotto la poppa della nave ho scorto una scialuppa contenente parecchie casse.»

«Una scialuppa?»

«Ma sì, Piccolo Flocco. Credo che i naufraghi non abbiano avuto il tempo di portarla via con loro.»

«Servirà più tardi per noi.»

«Lo spero. Questa nave è ridotta in così pessime condizioni che non si potrebbe farla veleggiare per un paio d’ore, se il vento soffiasse forte… Hulbrik, dormi?»

«A chi tirare, patre?»

«Alle bestie grosse da salto: giaguari e coguari. Dei lupi non occupartene per ora. Se ci daranno noia, li accopperemo più tardi coi calci delle carabine.»

«Sì, patre.»

«Tira dunque.»

L’Assiano sparò il suo secondo colpo, ed un altro giaguaro, ferito a morte, si allungò sul cassero senza mandare un urlo.

Le altre bestie non si mossero per dilaniarlo. Avevano già mangiato abbastanza; e per qualche settimana, data la loro resistenza, potevano fare a meno di altro cibo.

Poi sparò Testa di Pietra abbattendo un coguaro, il quale pareva il più feroce di tutti.

«Una vera distruzione!» disse Piccolo Flocco.

«Una strage!» rispose il mastro. «Finché ci sarà una bestia noi continueremo a far fuoco. A te, Piccolo Flocco, che non tiri male: prova quest’archibugio.

«Che catenaccio!» disse il giovane gabbiere.

«Tu sei un asino: è una vera carabina inglese, mio caro, che colloca le palle a posto con una precisione meravigliosa.»

«Sparerò con Hulbrik.»

«Benissimo.»

Presero la mira senza affrettarsi, poiché la nave subiva di quando in quando delle fortissime oscillazioni, poi spararono quasi contemporaneamente. Non tutti i colpi dovevano riuscire mortali, specialmente facendo fuoco da una coffa, la quale risentiva, più che il resto della nave, il rollio ed il beccheggio. Ma non mancarono il bersaglio quei destri tiratori; commisero bensì l’imprudenza di ferire i due più grossi giaguari che giacevano quasi l’uno accosto all’altro.

«Corpo d’una balena!» esclamò il mastro, vedendo i due animali balzare in piedi ruggendo e fissando la coffa. «Vedrete che quei signori delle foreste calde cercheranno di vendicare le loro ferite. Attento, Hulbrik! Attento, Piccolo Flocco! Caricate subito! caricate subito!» I due giaguari, solo feriti e forse non gravemente, spiccarono quindici o venti salti attraverso il cassero, mettendo in allarme lupi e coguari; poi, come se avessero preso un fulmineo accordo, corsero verso l’albero occupato dai naufraghi.

Fortunatamente Testa di Pietra aveva avuta la saggia precauzione di tagliare tutti i cordami, le griselle soprattutto, sicché una scalata non era più possibile. Ma il pericolo esisteva sempre, poiché le tigri americane per lo slancio e la forza di garretti nulla hanno da invidiare a quelle indiane.

Giunte sotto l’albero, col pelame arruffato e macchiato di sangue ed i baffi irti, i due bestioni si provarono a spiccare un gran salto verso la coffa per gettar giù gli uomini che la occupavano. Quel primo colpo andò perduto anche per la troppa precisione; ma non erano animali da abbandonare l’impresa.

Il più grosso, dopo aver fatto cinque o sei giri intorno all’albero, sempre scattando per non esser preso di mira, si slanciò risolutamente in aria, e riuscì a piantare le unghie delle zampe anteriori sull’orlo della coffa. Un momento di ritardo e vi si sarebbe issato del tutto: ma Testa di Pietra aveva l’abitudine di non lasciarsi sorprendere. Impugnò saldamente la pesante carabina e fece uso del calcio laminato d’ottone, anche per risparmiare una carica. Si udì un crac, ed il giaguaro, dopo d’aver sgambettato per qualche istante, si lasciò andare pesantemente sulla tolda, rompendosi qualche costola contro un piccolo argano che si trovava li vicino.

«La sua testa è scoppiata come una zucca!» disse il mastro, asciugando sulla vela inferiore il calcio del fucile lordo di sangue e di brani di cervello. «Ecco un altro che non ci darà più fastidi.»

In quel momento scoppiò ai suoi fianchi una fucilata. Hulbrik aveva sparato sull’altro giaguaro e gli aveva piantato una seconda palla in pieno corpo.

«Bravo Tedesco!» gridò Testa di Pietra.

L’aveva preso proprio a volo, cioè nel momento in cui il giaguaro aveva spiccato il salto verso la coffa.

I lupi ed i coguari, spaventati da quelle continue detonazioni e dalla strage, poiché gli occhi dovevano pur averli, come diceva il Bretone, erano balzati in piedi urlando ed ululando.

Erano furiosi, e se avessero potuta raggiungere la coffa, dei tre naufraghi non sarebbero rimaste nemmeno le ossa.

«Ed ora che cosa facciamo?» chiese il giovane gabbiere.

«Si continua il fuoco,» rispose il mastro. «Finché ci sarà una bestia, noi non potremo mettere i piedi sulla tolda senza correre il pericolo di vederceli mozzare.»

«Munizioni calare,» disse il Tedesco.

«Ne abbiamo ancora abbastanza della polvere per prendere d’abbordaggio anche una fregata d’alto bordo. Oh, che bravi bersaglieri siamo noi!»

«Ohé, camerati,» disse Piccolo Flocco, «non dormiamo sugli allori. Vi sono ancora otto o nove bestie che passeggiano per il cassero e ci guardano di traverso. »

«Tira dunque!» rispose il mastro. «Ho una fame feroce, e vorrei cacciarmi in corpo almeno un biscotto.»

«Gli orsi li hanno divorati tutti.»

«Gli orsi non sono usciti dalla dispensa, quindi io credo che nella cambusa troveremo ancora qualche cosa per noi.»

«Sì, delle patate fradice, che perfino i porci rifiuterebbero,» disse Piccolo Flocco.

«Oh, il signorino dalla bocca delicata!» gridò con voce tonante Testa di Pietra. «Ce ne fossero sempre delle patate, anche guaste, durante i naufragi!… Dimmi, monello, forse al Pouliguen vi allevano coi biscottini?»

«Dimmi un pò, camerata…»

«No, camerata: in questo momento io sono il tuo mastro.»

«Continua.»

«E basta con la troppa confidenza.»

«Diamine, siamo o non siamo Bretoni?»

«Che il diavolo ti porti, impertinente? Hai la lingua più lunga di tutte le pescatrici della Bretagna… Smetti di chiacchierare e guarda alle bestie.»

«Eh, non sono ancora sulla coffa.»

«Hulbrik,» disse il mastro un pò irritato, «si può parlare con questo pappagallo? Vuole sempre aver ragione lui!»

«Mio capitano, quando io rispondere male, tirarmi dei pugni che le casematte rintronano,» rispose il Tedesco.

«Sul viso?» chiese Piccolo Flocco.

«Su mustaccia.»

«Ah, ora capisco, perché tu hai una bella faccia rotonda come la luna piena!»

Testa di Pietra a quell’uscita non poté trattenere uno scoppio di risa.

«Questo furfante d’un gabbiere scherzerebbe anche dinanzi alla bocca dei cannoni carichi a mitraglia,» disse poi.

«Certo,» rispose Piccolo Flocco. «I Bretoni non hanno paura dei pezzi grossi. Si può dire che siamo nati fra il rombo delle artiglierie.»

«Lasciale andare ora, e sbrighiamoci a uccidere le ultime belve, prima che ci giunga addosso l’uragano. »

«Ancora tempesta?» chiese il Tedesco spaventato.

«Si forma verso ponente: prima di sera si farà sentire, e la nostra nave si romperà.»

«Lo dici così tranquillamente?» osservò Piccolo Flocco.

«Mio caro, noi due siamo marinai, ed Hulbrik soldato, gente quindi votata a cadere più o meno tardi nella grande tazza senza speranza di uscire, oppure a perire colpiti da una palla di cannone o di carabina. Perché dobbiamo spaventarci? Del rimanente, io sono già abbastanza invecchiato…»

«Ma io no!» lo interruppe il giovane gabbiere. «Ho appena vent’anni, io!»

«Tu affogherai a cento e un anno,» disse Testa di Pietra gravemente. «Hai sulla fronte una ruga simile a quella che aveva papà Kartuk, il più vecchio marinaio di Batz.»

«Ed è morto?…»

«Centenario.»

«Per quella ruga?»

«Così si dice.»

«Allora non tremo più. Mi sento il coraggio di andare in bocca a un pescecane, colla certezza di uscirne vivo e verde. »

«Allora, giacché ti credi invulnerabile, và a finire quelle poche bestie che ancora rimangono.»