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Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. I

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Il Municipio annunziava ai romani la prossima entrata dei francesi.

"Romani!

"Il coraggio da voi dimostrato nella difesa di Roma, i sacrifici che incontraste, vi hanno assicurata la gloria e la stima degli stessi stranieri – Una difesa ulteriore, come fu annunziato dal Decreto dell'Assemblea, sarebbe stato impossibile, senza volere la distruzione d'una città che conserva memorie le quali non debbono perire. La vostra rappresentanza municipale non ha accettato patti per non compromettere menomamente la dignità di un popolo così generoso, ed ha dichiarato di cedere alla forza.

"Le leggi di umanità e di incivilimento, la disciplina di un'armata regolare, le assicurazioni dei comandanti ci ripromettono il rispetto delle persone e delle cose.

"La vostra rappresentanza municipale vi promette che non mancherà di fare quanto è in suo potere onde non si rechi ingiuria ad alcuno. Abbisogna però del vostro concorso ed è certa di ottenerlo. Fida nel vostro contegno dignitoso e nell'esperienza costante che ha dimostrato al mondo come i romani in circostanze prospere o avverse, hanno saputo egualmente mantenere l'ordine, e costringere anche i nemici e salutare con riverenza la città dei monumenti, e rispettarne gli abitanti che con le loro virtù rendono impossibile l'oblio della Romana Grandezza.

"Dal Campidoglio il 2 luglio 1849.

"Francesco Sturbinetti, Senatore.

Lunati Giuseppe, Gallieno Giuseppe, Galeotti Federico, Deandreis Antonio, Piacentini Giuseppe, Corboli Curzio, Feliciani Alceo, Tittoni Angelo, Conservatori.

Giuseppe Rossi, Segretario.

La sera del 2 luglio i francesi s'impadronirono di Porta Portese, di Porta S. Pancrazio, e il dì seguente occupavano Porta del Popolo. Nella giornata entrava in Roma il generale Oudinot circondato dal suo Stato Maggiore ed alla testa della 2a Divisione e di numerosa cavalleria, accolto con ogni sorta di dimostrazioni ostili ed al grido "Viva la Repubblica Romana, morte agli stranieri, morte al cardinale Oudinot, morte al traditore".

La sera del 4 soldati francesi entrano a viva forza con le armi in pugno alla sede della Costituente ed intimavano alla sezione che vi stava in permanenza di sciogliersi. Carlo Bonaparte che la presiedeva protestò.

"In nome di Dio; in nome del popolo degli Stati Romani che liberamente, con suffragio universale, ha eletto i suoi rappresentanti; in nome dell'art. 5o della Costituzione francese, l'Assemblea Costituente Romana protesta in faccia all'Italia, in faccia alla Francia, in faccia al mondo incivilito contro la violenta invasione, della sua sede operata dalle forze francesi il giorno 4 luglio, alle ore 6 pomeridiane.

Roma, nel Campidoglio 4 luglio 1849.
Per l'intera Assemblea
Il Presidente di Sezione: C. Bonaparte,
Il Segretario: Quirico prof. Filopanti.

CAPITOLO XV
Garibaldi esce da Roma coi suoi legionari San Marino – Morte di Anita – Cesenatico

A mezzo giorno del 2 luglio, Garibaldi radunava sulla Piazza del Vaticano i resti della sua divisione, e fatto formare il quadrato li arringò così:

"Soldati, io esco da Roma. Chi vuole continuare la guerra contro lo straniero venga con me. Ciò che io offro a quanti vogliono seguirmi eccolo: non paga, nè onori, nè stipendi. Gli offro fame e sete, marcie forzate, battaglie e morte. Chi ama la patria mi segua".

Lo seguirono circa tremila uomini, i resti cioè della Legione Italiana, buona parte della polacca, e del battaglione Medici, grossi manipoli di finanzieri, di studenti e di emigrati, i superstiti Lancieri di Masina, circa quattrocento Dragoni; i pochi bersaglieri Lombardi.

La sera del giorno stesso usciva furtivamente da Porta San Giovanni, e lasciando tutti incerti sulla sua meta s'incamminò per la via Tiburtina.

Gli cavalcava al fianco, in vesti virili, la sua Anita; gli faceva da guida Ciceruacchio coi suoi figli, l'accompagnava Ugo Bassi; ne seguivano le sorti Sacchi, Marocchetti, Montanari, Hoffstetter, Cenni, Livraghi, Isnardi, Sisco, Ceccaldi, Chiassi, Stagnetti, Bueno, Müller, l'eletta dei suoi ufficiali superstiti. Giunto in sull'alba del 3 a Tivoli, fece spargere la voce che si dirigeva al Napoletano. Al tramonto infatti, levato il campo, marciò per un buon tratto verso il Mezzogiorno; indi volse improvvisamente a Settentrione, pernottò a Monticelli, e la mattina del 4 s'accampò a Monterotondo.

Qual era il suo disegno? dove voleva andare? a che mirava? nessuno seppe indovinarlo. Egli aveva in animo di portare il suo aiuto a Venezia, e certo una cosa voleva: tener viva la fiamma finchè avesse soffio di vita, morire, tra i laceri brani della sua bandiera!

Come era facile prevedersi l'Oudinot gli sguinzagliò contro due grosse colonne, l'una comandata dal generale Molière, l'altra dal generale Morris; il borbonico Statella gli muoveva alle spalle dal Tronto; gli Spagnoli di Don Consalvo appostati a Rieti gli sbarravano la destra; e gli austriaci del D'Aspre, accampati nell'Umbria, l'aspettavano di fronte a Foligno, e gli chiudevano le due vie di Perugia e di Ancona. Così Garibaldi era accerchiato in una maglia di ferro; sbagliata una mossa, l'eroe, l'amato del popolo, era irremisibilmente perduto. Ma l'inseguito era Garibaldi, ed il leone non si sarebbe lasciato cogliere! Nel pomeriggio del 5 staccava la marcia da Monterotondo; il sei era a Confine; il 7 a Poggio Mirteto; l'8 a Terni dove s'incontrò col colonnello Forbes, che veniva a portargli una colonna di ottocento uomini, resti di corpi sbandati nella campagna, e due pezzi di cannone.

Terni era il centro di cinque vie; si poteva salire a Foligno, quanto discendere a Rieti; voltare per Narni e Viterbo, come salire a Todi e Perugia. Garibaldi lasciò in ogni passo delle squadriglie per ingannare gl'inseguenti, spinse una avanguardia di cavalli a Todi, e il dì appresso, 9 luglio, vi si condusse egli stesso col grosso del corpo. Qui le cose cominciavano a volgere male, e l'orizzonte ad intorbidirsi. Il programma di Garibaldi – fame, sete, marcie forzate – se ebbe applausi quando fu proclamato, accennava man mano a divenire impossibile; anche ai tanti di buona volontà veniva meno le forze, e sintomi di scoramento cominciarono a manifestarsi; seguirono quindi le diserzioni, prima a frotte, poi in massa.

Intanto concordi notizie recavano, che i francesi del Morris gli muovevano contro da Viterbo, e che gli austriaci da Foligno si mettevano in marcia per Todi. Garibaldi mandò un nerbo de' suoi a scorazzare sulla strada di Foligno per far credere che mirava là; spedì Müller con i suoi cavalli ed una compagnia della legione per la strada di Orvieto con ordine di spingersi fino a Montefiascone-Viterbo; seppellì i due cannoni del Forbes, e quando ebbe l'assicurazione dai suoi scorridori che i due nemici erano ancora lontani tanto da potervi scivolare in mezzo, lasciò Todi la sera del 12, passò il Tevere a Ponte Acuto e s'incamminò per la via mulattiera, montuosa ed obbliqua di Brodo per Orvieto, sua meta la Toscana.

La sera del 13 avendo avuto informazioni che il generale Morris era ancora lontano, staccò la marcia per Orvieto ove giunse sul mattino del 14.

Non entrò in Orvieto ma s'accampò su di una buona posizione a cavaliere della strada di Ficulle. Gli Orvietani mandarono a Garibaldi invito di entrare in città, e lo fornirono del pane mandato ad ordinare dai Francesi. Ma Egli non s'indugiò; nel pomeriggio del 15 levò il campo e mosse verso Ficulle, vi arrivò a sera quando già i Francesi gli erano alle calcagne; gli Austriaci gli muovevano incontro da Perugia.

Partì la mattina del 16; abbandonò dopo poche miglia di cammino la strada maestra, e si buttò a Sole dove riposò per poche ore; e la notte, per sentieri impervii e monti disabitati, sotto una pioggia dirottissima, in mezzo a tenebre fitte, guadagnò il confine Toscano e giunse alla mattina a Cetona accolto festosamente dalla popolazione. Fu quella la prima volta che la brigata, dacchè era uscito da Roma, dormì acquartierata.

Liberatosi dai Francesi gli restavano sempre di fronte gli Austriaci, che scendevano da Perugia, ed i Toscani, che tenevano presidii tra Santeano e Chiusi, i quali potevano impacciare se non arrestare i suoi movimenti e molestarlo.

Ma l'eroe non se ne sgomentava. Fortificatosi a Cetona, circondati i suoi fianchi d'imboscate, coperte le spalle da forze sufficienti, mandò celeremente una grossa squadriglia a battere la strada Sarteano e Chiusi, e quando gli riportarono di avere snidati e messi in fuga i presidii Toscani, ripigliò la marcia; dormì il 17 a Sarteano; entrò il 18 a Montepulciano, dove tutta la popolazione fece a gara nell'usargli gentilezze e nel colmarlo di cortesie e d'offerte. Rinata la speranza in Garibaldi, pubblicò un ardente manifesto ai Toscani col quale li invitava ad insorgere contro la tirannide domestica e straniera. Ma fu l'illusione di un momento, e presago ormai che nulla più poteva sperare, proseguì il suo fatale cammino.

Giunto sull'albeggiare del 20 a Torrita prese una grande risoluzione, quello di abbandonare il granducato Toscano e di prendere per nuova meta l'Adriatico e Venezia! Là sulla laguna ardeva sempre quel gran focolare, in cui ormai si concentravano tutti gli sforzi d'Italia.

Il piano di Garibaldi fu presto formato; salire fin presso Arezzo; passare dal subappennino al grande appennino; scendere tra Pesaro e Ravenna all'Adriatico; imbarcarsi nel punto più opportuno per Venezia.

Vani sforzi! inseguito come belva feroce passo passo dagli Austriaci che con forze superiori da ogni parte lo circondavano, seppe rompere il cerchio di ferro, e per vie dirupate e nascoste, guadagnò dopo enormi fatiche le alture di Carpegna al mezzodì del 30; ne ripartì nel Vespro, traversò la Valle del Conca, prese un po' di riposo poche ore in un bosco, e al tocco dopo mezzanotte ripigliò la marcia alla volta di S. Marino.

 

Non gli restava altro rifugio!

A San Marino scioglieva la sua colonna e lasciava libero ognuno di tornare alla vita privata col seguente ordine del giorno:

San Marino 31 luglio 1849.

Soldati!

Noi siamo giunti sulla terra di rifugio, e dobbiamo il miglior contegno ai nostri ospiti. In tal modo noi avremo meritata la considerazione che merita la disgrazia perseguitata.

Da questo punto io svincolo da qualunque obbligo i miei compagni, lasciandoli liberi di ritornare alla vita privata, ma rammento loro che l'Italia non deve rimanere nell'obbrobrio, e che è meglio morire che vivere schiavi dello straniero.

G. Garibaldi.

Verso le undici di sera chiamò intorno a sè i migliori suoi ufficiali e i pochi suoi fidi, e svelò loro l'incrollabile suo proposito di sottrarsi ai patti che il governo della repubblica Sammarinese stava trattando collo straniero.

"A chi vuole seguirmi, egli dice, io offro nuove battaglie, patimenti, esiglio; patti collo straniero mai".

Le parole di Garibaldi caddero come stille roventi nell'animo degli accorsi al suo invito, ma a pochi bastò il cuore e la forza di ascoltare il suo appello. Non furono più di duecento quelli disposti a seguirlo. Allo scoccar della mezzanotte, preceduto da tre guide paesane, per un unico sentiero di montagna, scendeva il Titano; guizzando tra le scolte nemiche, traversava la Marecchia, passava Montebello; e camminando tutta la giornata verso le 10 di sera del 1o agosto penetrava in Cesenatico. Non perdette tempo; fatti prigionieri i Carabinieri e i pochi soldati austriaci colà sorpresi, s'impadronì di tredici "bragozzi" Chiozzetti, v'imbarcò tutta la gente, uscì dal porto e veleggiò per Venezia.

In sulle prime al fuggitivo arrise la fortuna; ma verso sera apparì all'orizzonte la flottiglia Austriaca che s'avanzava a tutto vapore.

Ritornato ardito uomo di mare, concepì con rapidità fulminea il suo piano; comandò ai bragozzi di sparpagliarsi e di dirigersi verso punta della Maestra, dove le acque basse li avrebbe protetti dall'inseguimento. Ma egli comandava a timidi pescatori; questi alle prima minaccie delle scialuppe nemiche che venivano loro incontro, si scompigliarono senza saper più manovrare: sicchè otto bragozzi caddero prigionieri degli austriaci ed a Garibaldi non restò che gettarsi sulla costa di Magnavacca, che per miracolo potè afferrare.

Ma la terra non era più sicura del mare; squadre di gendarmi lo cercavano per ogni verso.

Prima necessità fu quella di separarsi per potersi meglio nascondere ai nemici. Ugo Bassi e il Capitano Livraghi presero per una via, Ciceruacchio e i suoi figli per un'altra; e Garibaldi restò solo con Anita e il Capitano Leggiero. Ma la povera Anita era in fin di vita, di lei non viveva più lo che lo spirito, il corpo era consunto dagli stenti sofferti. Unico mezzo di salute era quello di lasciare all'istante quella spiaggia; Garibaldi, senza pensare ad altro, prese sulle braccia la sua Anita e scortato da Leggiero, e guidato da un contadino che la fortuna gli aveva condotto dinanzi, col caro peso traversò la macchia e arrivò ad una deserta capanna, dove trovò un nascondiglio, e fu per Anita un po' di riposo un giaciglio di frasche.

Era là da qualche tempo quando Garibaldi si vide davanti all'uscio della capanna un giovanotto in veste signorili che lo salutava rispettosamente. Era Gioacchino Bonnet di Comacchio, di famiglia di patrioti il cui nome va ricordato dagli Italiani. Fu lui che salvò Garibaldi, facendogli traversare le valli di Comacchio, travestito de' suoi abiti, in una sua barca, nella quale aveva preparato anche un giaciglio per l'Anita; fu per mezzo suo, e dei suoi fidi guardiani, che potè arrivare nella fattoria Guiccioli presso Sant'Alberto. Colà appena adagiata sul letto, l'eroica Anita esalava l'ultimo suo respiro nelle braccia del marito.

Così il 4 agosto 1840 alle 4 di sera spirava l'anima forte di Anita Ribeira Garibaldi; essa fu martire dell'amore, sublime, intrepida donna degna compagna dell'Eroe che tanto la pianse. Le sue ossa furono coperte, da poca sabbia, in vicinanza della fattoria Guiccioli alla Mandriola, a circa undici miglia da Comacchio!

Povera martire!!!

Lasciato per necessità il triste luogo Garibaldi, con l'aiuto di patriotti montanari, potè raggiungere la pinetta di Ravenna e di là subito dopo, si condusse alla valle Guiccioli, detto Manubria. Colà venne a prenderlo in consegna il bravo popolano Giuseppe Savini di Ravenna, che, tenutolo nascosto per alcuni giorni in un casolare delle Paludi di Ravenna della Valle di Canna, lo passò ad Antonio Fuzzi, Ravennate esso pure, che a sua volta lo affidò a Don Giovanni Verità onesto e patriottico sacerdote di Modigliana, mercè il quale, attraversato il Passo della Futa potè sconfinare in Toscana. Da allora passando sempre da mano amica a mano amica, sgusciando in mezzo alle ronde mandate alla sua caccia, protetto dalla sua stella, valicò i due versanti dell'appennino. Il 26 agosto fu a Poggibonsi, di là a Pomarance dove fu ospite di Antonio Martini. In appresso, Camillo Serafini lo tragittò a San Dalmazio dove lo raccomandò al Guelfi che a sua volta, condottolo prima a Massa Marittima poi a Follonica, lo consegnò finalmente alle mani di Paolo Azzarini, marinaio di Rio, che si offrì di portare Garibaldi a Porto Venere, in terra di salute.

Colà sbarcato assieme all'amico Leggiero rilasciò all'Azzarini un prezioso documento così concepito:

"Il padrone Paolo Azzarini, che la fortuna mi fece incontrare in terra italiana, dominata dagli austriaci, mi ha trasportato su questo luogo di asilo e di salvamento, trattandomi egregiamente e senza interesse".

G. Garibaldi.

In questo frattempo un forte corpo di armata austriaco invadeva gli Stati di Romagna; occupava il 7 maggio Ferrara e marciava difilato su Bologna. Quel popolo patriottico si dispose alla resistenza, e quando gli austriaci investirono la porta di Galliera buon numero di popolani spalleggiati da uno squadrone di carabinieri comandati dal Colonnello Boldrini con una carica arditissima ed a colpi di baionetta mettono in fuga il nemico; ma i bravi bolognesi sono ad un tratto arrestati dalle scariche di mitraglia di tre pezzi di cannoni che gli austriaci avevano piazzati in buona posizione e fulminati dalle Carabine dei Tirolesi che seminavano morte, sono costretti di cedere e ritirarsi dopo avere veduto cadere ferito a morte il colonnello Boldrini, l'aiutante Marziani, il maresciallo Pavoni e numerosi altri. Occupata Bologna gli austriaci proseguirono per restaurare il governo papale nelle Marche.

CAPITOLO XVI
Assedio di Ancona e sua eroica difesa

Ancona era investita dagli austriaci, il 24 maggio, bloccata e chiusa per terra e per mare.

Erano 12,000 gli assedianti, muniti di armi potenti.

Il generale Wimpfen aveva mandato agli anconitani l'intimazione di arrendersi, e di assoggettarsi al Sovrano Pontefice; il Preside Mattioli rispose con fiere parole; Livio Zamboccari, comandante delle milizie a difesa, ricordava: "gloria a piccolo Stato il vincere; gloria per la santità del diritto soccombere".

I difensori erano 4850 compresovi i fratelli accorsi da Iesi, da Loreto, da Sinigaglia, da Fano, da Pesaro, dalla Romagna, dalla Lombardia ed anche dal Piemonte, nell'insieme, i più maldestri alle armi, vissuti fino allora nelle industrie e nei commerci; ma tutti animati di amor patrio, e dal proposito di fare il proprio dovere.

Elia e suo padre erano giunti pochi giorni prima del blocco in Ancona e furono destinati sul vapore da guerra "Roma" sotto gli ordini del tenente di vascello Castagnoli e poscia comandati ai forti in difesa della città.

Il 25 maggio avvenne il primo scambio di fucilate fra le Torrette e Montagnolo, e il primo cannoneggiamento fra il forte della Lanterna e il piroscafo austriaco "il Vulcano".

Il 27 "la Bellona" la più potente nave armata della squadra nemica, attacca il forte della Lanterna con le sue bordate e nonostante fiera difesa, smontati alcuni pezzi, il forte fu costretto al silenzio: diresse allora la nave le sue bordate alla Darsena, ma i cannonieri del forte Marano risposero con spessi colpi e con tiri così bene aggiustati da aprire numerose falle nei fianchi della "Bellona" che fu salvata dal "Vulcano" accorso in aiuto per trarre la Nave Ammiraglia a rimorchio fuori del tiro del forte; essa ebbe il comandante mortalmente ferito, due morti e quaranta messi fuori di combattimento.

Così con ugual valore, con indomita fierezza, nessuno mancò al dovere suo nei memorabili venticinque giorni d'assedio.

Tutti i giorni un combattimento; sui forti, sui baluardi, sulle baricate, all'aperto. Agli austriaci occupanti le alture; alla squadra che batteva il forte cannoneggiando con potenti artiglierie, rispondevano con efficacia i nostri bravi dal Cardetto, dalla Cittadella, dai Cappuccini, da Marano, dalla Lanterna, da ogni luogo fortificato; i marinai e popolani senza conoscere la balistica eransi tramutati in un lampo puntatori meravigliosi.

Nel profondo della notte dal 29 al 30 maggio gli austriaci lanciarono in città una spaventosa grandinata di bombe.

Gli Anconitani, a giorno fecero una sortita; tre volte attaccarono nelle sue posizioni avanzate il nemico alla baionetta; i giovani parevano veterani, i veterani erano tramutati in eroi! sembrava ricostituita la compagnia della morte, rinnovante le tradizioni del libero comune, intrepida nelle audaci sorprese, negli scontri temerari, nello sprezzo della morte; i vecchi gli inabili alle armi, le donne fornivano le munizioni; i capitani di mare in corse pericolose rompevano il blocco, rifornivano i viveri.

L'8 di giugno Wimpfen, mandava un messaggio al comune, che è documento del valore Anconitano, tanto più alto in quanto veniva dal nemico stesso. "Le truppe imperiali, esso dice, passarono per le romagne, per le marche senza incontrare ostacoli; ne trovarono solo avanti Ancona; si arrenda la città se non vuol essere distrutta".

Ancona non si arrese; ma continuò la difesa colla forza rinnovata dalla disperazione.

Il 15 giugno, trecento uomini comandati dai capitani, Gervasoni, Gigli ed Ornani, cuori ardimentosi, assaltarono Monte Marino alla baionetta; i nemici furono messi in rotta e l'altura rapidamente occupata. Ma le forze nemiche ritornarono soverchianti di numero all'assalto; la lotta durò accanita i nostri piuttosto che cedere morivano nel santo nome della patria, finchè più che decimati furono obbligati alla ritirata. Gervasoni fu colpito a morte, e Francesco Gigli sopraffatto da' nemici sarebbe rimasto sul terreno, se Enrico Schellini con coraggio leonino non fosse accorso in suo aiuto.

La minaccia di Wimpfen aveva infiammati gli animi alla lotta suprema.

Dal 14 al 18 giugno le bombe, i razzi, scoppiavano per le vie, nelle case, sugli ospedali, rombavano di notte e di giorno con orrendo fracasso; pareva d'essere circondati da una catena di vulcani che eruttassero fiamme, fuoco e ferro sulla patriottica città.

I pompieri, onorato corpo che vanta nobilissime tradizioni, senza badare a fatiche e pericoli, si moltiplicarono, spengevano incendi, sgombravano via le macerie, demolivano muri, salvavano quanti più potevano dalle case incendiate, trasportavano feriti, lottavano ogni giorno, ogni ora con la furia degli incendi, guidati dal sentimento del dovere e da profonda pietà umana.

Tanto sacrificio, tanta nobiltà d'animo, tanti eroismi non bastarono a salvare la città degli oppressori.

I viveri erano esauriti e il blocco sempre più stretto come in cerchio di ferro non permetteva d'introdurne in città; ottanta incendi divamparono, gli ospedali riboccavano di feriti che non si aveva mezzo di alimentare; oltre trecento morti affermarono col sangue l'affetto alla patria.

Ancona, diroccata, affamata, straziata, dopo 35 giorni di resistenza veniva forzata alla resa.

La marina mercantile Anconitana della quale era a capo Antonio Elia fece nella difesa del patrio suolo bravamente il suo dovere.

Era necessario pensare alla salvezza dei compromessi politici affinchè non cadessero nelle mani dei sbirri papalini e dei Croati.

Un bastimento anconitano, di cui era proprietario e comandante Mariano Scoponi, ottenne per solerte intromissione del patriotta Nicola Novelli, di poter inalberare bandiera inglese e su di esso dovevano prendere imbarco per essere trasportati a Corfù, quanti credevano di non essere sicuri in patria.

 

E difatti vi si imbarcarono tutti quelli, che si trovavano compromessi e che avevano a temere la vendetta del governo ristaurato e dello straniero. Antonio Elia aveva avuto un diverbio col priore del convento di S. Francesco di Paola.

Temendo la vendetta del prete che mai perdona, il figlio e gli amici lo pregarono caldamente, di prendere esso pure imbarco per l'estero. Ma egli rispondeva di avere la coscienza tranquilla, di nulla avere a temere, non volere quindi volontariamente abbandonare la patria e la famiglia, e restò.

La notte del 24 luglio 1849 la casa abitata dall'Elia, appartenente ai frati di S. Francesco di Paola ed attigua al loro convento, fu circondata da gendarmi papali, da soldati austriaci e da poliziotti. Si picchiò all'uscio di casa ed alla intimazione della forza fu aperto; venne eseguita una minuziosa perquisizione e nulla si rinvenne. Non era questo che volevasi dal barbaro austriaco e dai preti; era necessario dare un terribile esempio alla popolazione, applicando la legge stataria su uno dei capi del popolo. Non essendosi rinvenuto nulla in casa, gli assetati di sangue del patriota, requisiti alcuni muratori, si diedero a rompere un condotto di scolo avente comunicazione con tutti i cinque piani superiori, abitati da numerosi inquilini.

In fondo al condotto disfatto, fu trovata un'arma che aveva appartenuto chi sa a chi, o che poteva anche essere stata appositamente gettata da coloro, che avevano premeditato il delitto. Antonio Elia venne legato sotto gli occhi della moglie incinta, in mezzo al pianto di quattro creature, e condotto alle Carceri di S. Palazia. Appena giorno la povera moglie con le sue quattro piccole figlie andava a gettarsi alle ginocchia del generale austriaco Faltzenter domandando grazia per l'innocente, ed il permesso di poterlo visitare nelle carceri. Le fu accordato il permesso di visitare il marito, ma quando la santa donna si presentava alle carceri una detonazione le gelava il sangue e le faceva istintivamente comprendere, che la vita di Antonio Elia veniva barbaramente ed ingiustamente troncata. Alla domanda di vedere il marito, come ne aveva il permesso, le fu risposto che era troppo tardi. Sarà stata una raffinatezza di barbarie del generale quella di far trovare presente alla esecuzione la moglie del martire? Il sospetto almeno è ammissibile.

Ecco una lettera che Garibaldi scriveva al figlio del martire Anconitano:

Caprera, 22 dicembre 1868.

Mio caro Elia,

"Figlio del popolo, il padre vostro merita di essere annoverato tra i grandi Italiani.

"Oggi, che si avvicina la caduta della tirannide papale noi dobbiamo ricordare agli italiani le vittime della sua ferocia e fra quelle una delle più illustri, certamente, Antonio Elia.

"Ancona ricordi quel prodissimo suo cittadino che tanto l'onora".

Vostro
G. Garibaldi

Per la morte del padre, Augusto Elia all'età di venti anni rimaneva unico sostegno della povera madre e delle quattro sorelle, tutte di tenera età.

Un fatto avvenuto in Ancona nell'inverno del 1849 lo obbligò di lasciare la patria e la famiglia e di darsi a volontario esilio.

In tarda ora di una notte oscura e piovosa una povera donna scendeva la via del porto con un orcio pieno d'acqua attinta alla pubblica fonte di piazza grande. Quando fu in vicinanza del vicolo della Cisterna, la poveretta veniva brutalmente assalita da quattro croati, i quali, toltole l'orcio, volevano trascinarla nel vicolo oscuro per violentarla. Mentre la povera donna resisteva e gridava sopraggiunse un giovane, il quale, sguainata in men che si dica dal fodero di uno dei croati la sciabola-baionetta, assalì i quattro intenti a dare prova di loro prodezza su di una povera donna; i quattro furono assai malconci e posti fuori combattimento dal giovinotto e la donna liberata.

Alla mattina l'Elia se ne stava in casa sua in prossimità del luogo ove avvenne il fatto, quando gli si fa annunziare l'amico del padre e suo, Agostino Scipioni, il quale, tutto trepidante, lo veniva ad avvisare, che una donna, la signora Piermattei, gli aveva confidato di averlo riconosciuto quale assalitore dei quattro croati; gli disse di aver supplicata la signora Piermattei di non ripetere parola se non voleva farlo fucilare; la signora promise di non parlare, ma l'amico Scipioni pensava, che non vi era da fidarsene e volle che l'Elia lasciasse subito Ancona. Così fece, prese subito imbarco e si recò a Malta: l'opportuna fuga salvò la vita, ma all'Elia figlio, apriva la via dolorosa dello esilio.

Scorsero dieci anni. Ma ormai i destini della patria venivano maturandosi e l'ora della resurrezione stava per suonare.