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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI

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Quanto alle quattro proposizioni del clero gallicano, affermava, che erano opinioni ancora in pendente, e che Innocenzo undecimo, al quale si atteneva per dritto pontificio di giudicare, era stato in un punto di condannarle; che il clero di Francia, siccome quello, che era, non tutta la chiesa, ma solamente una parte di lei, non aveva diritto di giudicare da se della potestà della sedia apostolica, nè di limitarla, nè di modificarla, che del rimanente non aveva difficoltà di ammettere la prima, che in ciò consiste, che Dio diede alla santa sede il governo delle cose spirituali, non delle temporali; che i re ed i principi non sono soggetti nelle temporali alla potestà ecclesiastica, e che non si possono per l'autorità delle chiavi di san Pietro deporre, nè dal giuramento di fedeltà esimere i sudditi. Ma quindi passando papa Pio a quello che era il soggetto della controversia, distingueva il diritto di deporre i sovrani, e di dispensare i sudditi dal giuramento di fedeltà, da quello di fulminare una scomunica contro i principi, quando eglino secondo le leggi, ed i canoni della chiesa l'hanno incorsa; che conseguentemente qui non cadeva la dottrina della chiesa gallicana, nè che mai la chiesa di Francia aveva preteso, che il papa non avesse autorità di fulminare la scomunica contro chi l'avesse meritata, che egli aveva bensì scomunicato Napoleone, ma non deposto, nè sciolto i sudditi dal giuramento; che se poi per effetto della scomunica alcuni dei sudditi di lui rimettessero della divozione e fedeltà loro, ciò non al pontefice giusto castigatore, ma al principe colpevole prevaricatore, doveva unicamente attribuirsi; che tale dottrina, bene il sapeva, era del tutto consentanea ai pensieri di Bossuet, quantunque non in tutto con lui consentisse, e che bene era persuaso, che se tutto il clero di Francia fosse assembrato, la dottrina medesima accetterebbe ed approverebbe; che a lui non era ignoto, che ai tempi andati avevano qualche volta i vescovi ed i papi liberato i sudditi dal giuramento, ma solamente quando il sovrano era stato deposto dagli stati del regno e dai grandi, per modo che la dispensa dal giuramento altro non era, se non se la conseguenza di una deposizione fatta da coloro, ai quali aspettava il diritto di farla. Pertanto la deposizione non proveniva dalla dispensa, ma bensì la dispensa dalla deposizione, opera non dei papi, ma d'altrui. Venendo poi all'esempio allegato di Pio sesto, si spiegava con dire, che la tempesta aveva sorpreso improvvisamente quel generoso pontefice, e quando già vecchio e paralitico non aveva più in lui spirito, che intiero fosse; che perciò la debolezza del corpo già più vicino a morte che a vita, aveva in lui nociuto alla prontezza dell'animo; che se dal costume di tutta la sua vita si avesse a giudicare, non si poteva dubitare, che alle novità introdotte da Napoleone nelle cose ecclesiastiche, ed alle usurpazioni di lui nel patrimonio di San Pietro si sarebbe più presto e più acerbamente risentito ch'egli stesso non aveva fatto; che per verità Clemente settimo era stato condotto a duro passo, ma che fu persecuzione che presto ebbe fine, e che quelli stessi che l'avevano perseguitato e cacciato dalla sua apostolica sede, si erano raumiliati, ed avevano da lui chiesto perdono; come le parole avevano suonato, così essere succeduti i fatti, poichè tantosto fu rimesso nella sua Romana cattedra, e restituito alla pienezza dell'apostolica potestà, mentre Napoleone nella durezza e persecuzione sua ostinatamente perseverando, non solo faceva alcuna dimostrazion di volersi ritirare da quanto aveva fatto in pregiudizio dell'autorità ecclesiastica, e dalle sue usurpazioni contro il patrimonio di San Pietro, ma ancora pertinacemente affermava ed apertamente dichiarava, volere di per se stesso e senza intervento dell'autorità pontificia, turbare le sedi vescovili e parrocchiali, e far violenza al pontefice sulle nomine dei vescovi, e tener Roma suddita in sua mano.

Tornando quindi all'esempio di Pio sesto, aggiungeva, che egli non aveva avuto a fare col direttorio, che fuori della Chiesa essendo, alle leggi della Chiesa nè obbediva, nè si protestava obbediente, ma che egli, Pio settimo, aveva a far con Napoleone imperatore, il quale nella sua qualità di figliuolo primogenito della Chiesa, qualità, che continuamente assumeva e di cui si vantava, si trovava soggetto a tutte le sue regole e leggi; apparire, nè il taceva, che mai nissuno de' suoi antecessori era stato ridotto a quelle ultime strette in cui era egli; e quanto al patrimonio di San Pietro aveva giurato di difenderlo sino a sparsione di sangue, e che così si era risoluto di fare; che i canoni avevano decretato, che chi esso patrimonio offendesse e toccasse, incorresse incontanente nelle censure ecclesiastiche, che ad esse Napoleone imperatore si era confessato soggetto, poichè aveva fatto professione di cattolico; ch'egli le censure medesime fulminando, aveva adempito quell'obbligo al quale per le ecclesiastiche leggi consentite da tutta la Chiesa era tenuto, che non solamente il doveva fare, ma che non poteva non farlo, bene dolersi, e nell'interno del paternale suo animo compiangere, che le prese deliberazioni potessero offendere la Francia, sua figliuola prediletta, e sopra la quale con tanto amore si era versato; ma giudicherebbe ella se fosse per amare meglio un papa prevaricatore, o un papa osservatore de' suoi doveri, un papa innocente ed oppresso, od un imperatore colpevole e persecutore: della elezione non conservare dubbio alcuno; ricordarsi ancora con infinita allegrezza le grate accoglienze, l'affezionato concorso dei popoli, quando in quel nobile reame se n'era andato ad un ministerio, che ogni altra cosa portendeva, piuttosto che ruine: ricordarsi come fra quell'immenso apparato d'armi e di soldati avesse trovato luogo, per la Francese pietà, un umile preticciuolo inerme, solamente perchè la comunanza dei fedeli nella persona sua rappresentava; ricordarsi che dove concorrevano, se non supplici, almeno umili i primi potentati d'Europa, una opinione solamente fondata sul consenso dei popoli devoti a Dio, devoti al suo vicario in terra, devoti all'apostolica sedia tanto avesse potuto, ch'egli non potente fra mezzo ai più potenti, il principale e più onorato seggio si vendicasse: gisse pure onorata, gisse contenta, gisse felice la Francia; che quanto a lui, memore della pietà dimostrata, ogni cosa fuori dell'impossibile avrebbe e consentito ed operato, perchè ella quella pace di coscienza si godesse, che pei meriti suoi le era giustissimamente dovuta.

Desiderava Napoleone, solito a fare prima le cose, poi a volere che gli si consentissero, che il senatus-consulto dell'unione dello stato Romano al suo impero sortisse il suo effetto, anche per consentimento del papa. Non gli era nascosto, che ove il pontefice accettasse le condizioni proposte, facendosi abitatore di Parigi e suo pensionario, avrebbe dovuto finalmente consentire a quanto egli volesse nell'argomento della giurisdizione ecclesiastica; perciocchè la forza del pontefice tutta era fondata sull'opinione, e quando diventasse vile in cospetto degli uomini, avrebbe perduto coll'opinione quell'antico suo fondamento; che certamente avrebbe avuto parte di viltà, se in vece di viversene padrone con isplendore a Roma, o carcerato con onore in Savona, avesse accomodato l'animo a vivere suddito in Parigi. Per la qual cosa gli agenti imperiali continuamente e con esortazioni vivissime cercavano di muoverlo, acciocchè rinunziasse al dominio temporale, accettasse i milioni, abitasse il palazzo arcivescovile di Parigi. Certamente pareva a quei tempi la potenza di Napoleone inconquassabile: le paci di Tilsit e di Vienna, il matrimonio coll'arciduchessa, esercito invitto, vincitore, innumerabile, la fondavano. Niuna speranza rimaneva al pontefice di risorgere; il sapeva, il credeva, il diceva, ma vinse la coscienza: ricusò Pio le imperiali proposte. Che sapeva ben egli, affermava, ciò che volevano fare; che questi disegni, e se n'era accorto, già fin d'allora covavano, quand'egli era andato a incoronar Napoleone a Parigi; che già fin d'allora vi si racconciava il palazzo arcivescovile per la stanza dei papi; che vedeva chiaramente che era nato il pensiero di far i papi viaggiatori, e fors'anche primi elemosinieri degl'imperatori: papi di Francia volersi, non papi di Cristianità: del resto non volere, protestava, il palazzo di Parigi: sarebbe un nuovo carcere: non la potestà temporale, ma San Pietro avere fissa la sua sede in Roma; avere ciò dimostrato colla sua venuta in quella veneranda città, averlo dimostrato colla sua dimora, averlo dimostrato col suo martirio; il sangue dell'apostolo avere indicato, e santificato il luogo dell'apostolica sedia; volere Pio successore quella, o nissuna: non disfarebbe col consenso suo Pio ciò, che Cristo stesso Salvatore per mezzo di Pietro aveva fatto, che nè giuramento presterebbe, nè pensione accetterebbe; sarebbe vile agli occhi suoi, vile al mondo, se quel prestasse, se questa accettasse: essere il senatus-consulto la servitù della Chiesa: volersi mandar ad effetto le macchinazioni dei filosofi, rendere il papa tanto suddito, quanto i vescovi in Francia: che si mirava evidentemente alla distruzione della religione; che non potendo assaltarla di fronte, perchè la impresa era troppo difficile, la volevano assaltar di fianco: non mai i sacerdoti del paganesimo essere stati tanto dipendenti dalla potestà temporale, quanto i preti d'oggidì; volersi anche mettere sotto il giogo il papa: presumere che tali disegni non provenissero dal consiglio ecclesiastico raunato in Parigi, perchè se ciò fosse, tosto il separerebbe dalla comunione sua: in mezzo a tante turbazioni, o tanti sovvertimenti sperare, che Dio fosse quello che avesse a salvare la sua Chiesa: che del resto non poteva più riconoscere, qual figliuolo primogenito, l'usurpatore dei beni della santa sede, che già, e pur troppo aveva sopportato, che già gli era venuta a schifo la sua pazienza; che la sede di Roma non poteva operare come gli altri sovrani; ch'ei potevano rinunziare secondo gli accidenti a parte dei loro diritti col pensiero di riacquistargli, quando che fosse, ma che doveva il papa operare in coscienza; i trattati di Roma spirituale essere santi, e di buona fede ripieni.

 

Così papa Pio tormentato dai Napoleonici i suoi pensieri spiegava. Quanto poi a quello ch'egli in quei tempi tanto per lui lagrimevoli desiderasse fare, i ricordi dell'età non lasciano luogo a dubitazione. L'animo suo era di addomandar sempre i beni temporali della santa sede, ma di non mai far cosa che tendesse a volergli riacquistare per forza: solo questo chiedeva e richiedeva, che libero fosse, e libero lasciato tornare a far il papa nella sua Roma; che farebbe anche il papa in una grotta, che farebbelo nelle catacombe; che se alla parsimonia ed ai pericoli della primitiva Chiesa gli fosse duopo tornare, con piena rassegnazione vi tornerebbe, nè ciò fora anco grave a chi non mai tanto felice era stato, quanto, quando semplice fraticello essendo, in un umile chiostro le dottrine teologiche insegnava.

In cotal modo si raffermava, quanto alle sue particolari sorti, l'animo del pontefice; ma bene piangeva, ed amaramente deplorava le novelle discordie. Deploravale principalmente perchè laceravano le viscere più intime e più vitali della cristianità cattolica: deploravale perchè impedivano l'unione, della quale aveva allora speranza delle parti dissenzienti; imperciocchè aveva concetto il pensiero, che alcuni paesi addetti alle dottrine di Lutero avessero presto a ritornare nel grembo della chiesa. Solo disperava dei Calvinisti, siccome quelli ch'egli riputava più induriti, e che avevano voluto introdurre nel governo ecclesiastico gli ordini democratici.

Quest'erano le tribolazioni di Pio settimo. Ma ecco oggimai avvicinarsi il tempo, in cui la sua virtù doveva esser messa a più duri cimenti. Posciachè si era tentato di spaventarlo coi soldati, di osservarlo colle spie, di sgomentarlo colla segregazione, di scuoterlo con le minacce, si faceva passaggio ad assalirlo con le dottrine, e con le persuasioni di coloro, che o per antica amicizia, o pel carattere di cui erano vestiti, si credeva potessero avere molta autorità nelle sue deliberazioni. La mancanza dell'ufficio pontificale, che il papa ricusava di compire già da parecchj anni, principiava a farsi sentire fortemente nella cristianità cattolica, la condizione peggiorava ogni giorno. Molte sedi vescovili, ricusando il papa le bolle d'investitura, erano vacanti tanto in Francia, quanto in Italia ed in Germania. Altre vacanze si scoprivano alla giornata, ed era per estinguersi l'episcopato. L'imperatore, avendo dato favore col concordato all'opinione cattolica, vedeva non potersi esimere dal ricorrere all'autorità pontificia. Pensò sulle prime di usar l'autorità del cardinal Caprara, arcivescovo di Milano, e legato della santa sede a Parigi, di cui conosceva la condiscendenza. Scrisse il cardinale supplicando al papa, desse le bolle per le sedi vacanti ai vescovi nominati dal consiglio dei ministri dell'imperatore. Aggiunse che Napoleone consentiva, che in esse il pontefice non facesse menzione delle nomine imperiali, purchè egli non v'inserisse la clausula del moto proprio, od altra equivalente.

Rispose risolutamente il pontefice, maravigliarsi, che Caprara queste cose proponesse: esser evidente ch'ei non poteva accomodarvi l'animo: non mai la cancelleria apostolica avere ammesso simili instanze da parte dei laici: del resto, a chi concederebbonsi le bolle, se alle instanze del consiglio dei ministri si concedessero? Non esser loro l'imperatore medesimo? Non gli organi de' suoi ordini, non gli stromenti della sua volontà? Ora dopo tante innovazioni funeste alla religione fatte dall'imperatore, contro le quali egli si era sì spesso e sì inutilmente querelato, dopo tante vessazioni commesse contro tanti ecclesiastici dello stato pontificio, dopo l'esilio dei vescovi e della maggior parte dei cardinali, dopo la carcerazione di Pacca cardinale, dopo l'usurpazione del patrimonio di San Pietro, dopo di essere stato assalito lui medesimo da uomini armati nei penetrali stessi del suo pontificale palazzo, dopo di essere stato forzatamente in terra sotto strette guardie condotto per modo che i vescovi di parecchi luoghi non avevano potuto avvicinarsi a lui, o parlargli senza testimonj, dopo tanti attentati sacrileghi, tacendone anche, per amor della brevità, altri infiniti, contro i quali i concilj generali e le constituzioni apostoliche fulminavano l'anatema, che altro avere lui fatto, se non uniformarsi, com'era suo dovere, ai decreti di questi concilj, se non obbedire ai termini di queste constituzioni? Come adunque potrebbe oggidì riconoscere nell'autore di tante violenze il diritto di nominar i vescovi, come consentire ch'egli l'usasse? Il potrebbe forse senza farsi reo di prevaricazione, senza contraddire a se medesimo, senza dare, con iscandalo gravissimo, materia ai fedeli di credere, ch'egli sbattuto e vinto dalle disgrazie, a tanto di abiezione fosse venuto, che potesse tradire la sua coscienza, e fare quello, ch'essa con terribil voce l'ammoniva di dannare? Pesasse bene, e queste ragioni ponderasse, non secondo la sapienza umana, ma prostrato nel santuario il cardinale, e vedrebbe, quanto vere, quanto inconcusse, quanto incontrastabili fossero. Chiamare tuttavia Dio in testimonio di quanto egli in mezzo a sì crudeli tempeste desiderasse provvedere alle sedie vacanti della chiesa di Francia, di quella chiesa di Francia, suo primo amore, e suo supremo diletto: con quanto piacere abbraccerebbe egli un consiglio, che gli permettesse di soddisfare ad un tempo ed al suo pastorale uffizio, ed a' suoi doveri sacrosanti! ma come potere, come risolversi solo e senza soccorso in un affare di tanta importanza? Toltigli essere tutti i consiglieri suoi, toltagli la facoltà di comunicare con loro, nissuno restargli, da cui pigliar lume in sì spinosa discussione. Se vera affezione avesse l'imperatore alla cattolica chiesa, incominciasse dal riconciliarsi col suo capo: togliesse le innovazioni funeste, rendessegli la sua libertà, la sua sede, i suoi ufficiali; restituissegli il patrimonio, non suo ma di san Pietro; riponesse sulla cattedra dell'apostolo il suo capo supremo, il suo capo di cui ella era vedova e priva dopo la Savonese cattività; rimandassegli i quaranta cardinali dal suo grembo divelti pei crudi comandamenti suoi; richiamasse alle diocesi loro tanti esuli vescovi: pregare incessantemente e ferventemente fra tante sue tribolazioni quel Dio, che tiene in sua mano tutti i cuori, incessantemente e ferventemente pregarlo per l'autore di tanti mali: esaudisselo, piacessegli spirare al duro cuore di Napoleone più salutevoli consiglj; ma se per segreto giudizio di chi tutto sa e tutto puote, altrimenti accadesse, piangerebbe egli le presenti calamità, certo e sicuro che nissuno a lui imputare le potrebbe.

In questo mezzo tempo Napoleone per intimorire il papa, e farlo consentire a quanto egli desiderava, con dargli sospetto che se non consentisse, ei farebbe da se, aveva convocato un consiglio ecclesiastico a Parigi chiamandovi i cardinali Fesch e Maury, l'arcivescovo di Tours, i vescovi di Nantes, di Treveri, d'Evreux, di Vercelli, ed un Emery, prete superiore del seminario di San Sulpizio a Parigi. L'imperatore, per mezzo del ministro dei culti Bigot di Préameneu, personaggio di buona e posata natura, ma che ciò non ostante procedeva con molto calore in questa faccenda contro il papa, propose loro certi quesiti, acciocchè gli dichiarassero. Erano questi prelati, o tutti o la maggior parte, nemici dei seguaci di Porto Reale; ma la fortuna, e la Napoleonica ambizione gli avevano condotti a questo duro passo, o di opinare, circa la potestà della sedia apostolica, conforme alle dottrine di quella famosa scuola, o di dispiacer a Napoleone. Una sola risposta dovevano e potevano dare, ed era quest'essa: che si rimettesse il pontefice nella condizione in cui era quando concluse il concordato, ed allora se ricusasse le bolle, opinerebbero; ma non la diedero, perchè quelli non erano tempi da Ambrogi. Certamente se il papa debbe essere assicurato contro i principi in materia religiosa e spirituale, i principi debbono essere assicurati contro il papa in materia politica e temporale. A quest'ultimo fine mirava la necessità nel papa nel dar le bolle in un dato tempo, salvo i casi d'impedimenti canonici nei nominati; ma la prigionìa del pontefice rendeva impossibile ogni negoziato, e Napoleone voleva non solamente la independenza per se, ma ancora la servitù negli altri. Il governo della chiesa, portavano i quesiti, è egli arbitrario? Può il papa per cagioni temporali ricusare il suo intervento negli affari spirituali? Conviensi, che solamente prelati e teologi trascelti nei piccoli luoghi del territorio Romano giudichino degl'interessi della chiesa universale? Conviensi, che il concistoro, consiglio particolare del papa, sia composto di prelati di tutte le nazioni? Quando no, l'imperatore non ha in se raccolti tutti i diritti, che ai re di Francia, ai duchi del Brabante, e ad altri sovrani dei Paesi Bassi, ai re di Sardegna, ai duchi di Toscana, e simili s'appartenevano? Ancora, ha Napoleone imperatore, o i suoi ministri violato il concordato? Essi migliorata, o peggiorata la condizione del clero di Francia dopo il concordato? Se il sovrano di Francia non ha violato il concordato, può il papa di suo proprio arbitrio, ricusare l'instituzione agli arcivescovi e vescovi nominati, e perdere la religione in Francia, come l'ha perduta nell'Alemagna senza vescovi da dieci anni? Non avendo il governo di Francia violato il concordato, se dal canto suo il papa ricusa di eseguirlo, intenzione di sua maestà è, ch'esso si abbia e si tenga per abrogato: ma in tale caso, che conviensi fare pel bene della religione?

A questi quesiti, che risguardavano specialmente la Francia e l'Italia, se ne aggiunse un altro per l'Alemagna, desiderando l'imperator Napoleone sapere, quale cosa gl'incombesse di fare per la salute della religione in questa parte d'Europa, a lui, che era il cristiano il più potente di tutti, signore dell'Alemagna, erede di Carlomagno, vero imperatore d'Occidente, figliuolo primogenito della chiesa. Ancora ha bisogno la Toscana di nuove circoscrizioni di diocesi, e se il papa non vuol cooperare, che farà sua maestà?

Ancora, e finalmente éssi questa bolla di scomunica stampata e sparsa per tutta Europa: che farà Napoleone imperatore per impedire, che in tempi di turbazioni e di calamità, non diano i papi in questi eccessi di potenza tanto contrari alla carità cristiana, quanto all'independenza, ed all'onore del trono?

Intanto Napoleone costretto dalla necessità, perchè la vacanza delle sedi episcopali turbava la coscienza dei fedeli, essendo a ciò consigliato da coloro che appresso a lui trattavano delle faccende ecclesiastiche, si deliberava ad usare un rimedio, che poteva dargli, secondo che credeva, tempo ad aspettar tempo, e conclusione definitiva delle differenze nate colla santa sede. Aveva egli udito, che dopo la morte del vescovo la giurisdizione episcopale si trasferiva nel capitolo della chiesa cattedrale, e che a questo s'apparteneva il nominare vicarj generali, che governassero la diocesi durante la sede vacante. Oltre a ciò fu fatto sapere a Napoleone, che i capitoli investiti alla morte del vescovo della potestà episcopale, conferivano, secondo gli antichi usi di Francia, la potestà medesima all'ecclesiastico nominato dal sovrano alla sede vacante. Quest'ultimo pensiero gli fu suggerito dal consiglio ecclesiastico. Ma al tempo medesimo il consiglio aveva mitigato il concetto con dire, che lo spediente proposto non poteva essere che transitorio, che solo per l'ultima necessità, e per non lasciar perire l'episcopato in Francia dovevano i capitoli delegare la giurisdizione ai nominati, che, cessata la necessità, si rendeva necessario tornare ai metodi consueti; che sebbene i vescovi nominati e delegati avessero potestà di reggere le diocesi, non potevano esercire tutta la pienezza dell'autorità episcopale, perciocchè, se avevano la giurisdizione, non avevano l'ordine; i vescovi instituiti possono fare certe funzioni, che i vescovi delegati non possono; che pure era richiesto per la salute dei fedeli, e pel perfetto delle diocesi, che l'autorità episcopale tutta intiera in loro si raccogliesse; che del resto non pareva conveniente, che lungo tempo i vescovi esercessero le facoltà loro, e governassero le diocesi come semplici delegati dei capitoli; altro maggior decoro, altra maggiore independenza essere richiesta ad un vescovo perchè si possano aspettare dal suo ministerio i debiti frutti.

Certamente non piaceva neppur a Napoleone, che era d'indole assoluta, questa condizione, che i vescovi, come delegati esercessero, perchè voleva, che i capi fossero padroni, non servi. Ciò nondimeno il guadagnar tempo gli pareva cosa d'importanza. Deliberossi pertanto, insino a che da Savona migliori novelle gli pervenissero, a servirsi del temperamento proposto dal consiglio ecclesiastico. Erano in Francia e nell'Italia Francese diocesi vacanti da lungo tempo, in cui governavano i vicarj capitolari. A volere che i capitoli delegassero l'autorità vescovile ai nominati dall'imperatore, era d'uopo che i vicarj rinunziassero: conciossiachè non vi potessero essere due delegati. A questo fine indirizzava i pensieri il governo Napoleonico; dal che nacquero accidenti di non poca importanza. Aveva Napoleone nominato vescovo d'Asti in Piemonte il prelato Dejean, fratello d'un suo ministro. Richiesti del rinunziare, i vicarj del capitolo ricusarono. Avute le novelle, Napoleone sdegnosamente decretava: fosse il capitolo d'Asti ridotto a sedici, i beni spettanti ai canonicati soppressi cadessero in potestà dei fisco, i renitenti fossero arrestati e processati, come di crimenlese. Aggiungeva Bigot di Préameneu, che sua maestà si era risoluta ad unire al fisco i beni dei vescovati, dove sorgessero erbe di ribellione. Aveva Napoleone nominato Osmond vescovo di Nancy, uomo di nobile tratto e di pulitissima favella, all'arcivescovato di Firenze. Scrisse risolutamente il pontefice al vicario capitolare, comandando che non rinunziasse, che era Osmond illegittimo secondo i canoni. Seguitarono effetti conformi: non ebbe mai Osmond quieto vivere in Firenze.

 

Ma a quest'amarezza serbava il cielo Napoleone imperatore, che il prigioniero di Savona gli turbasse i suoi pensieri nella capitale stessa del suo impero. Aveva egli nominato arcivescovo di Parigi il cardinale Maury, surrogandolo al Fesch, che nominato ancor esso alla medesima sede non aveva voluto accettare. Maury, parendogli un bel seggio il Parigino, l'accettò. Seppelo il santo padre per avviso mandato dal cardinal Dipietro, che confinato a Semur faceva una mirabile polizia a suo modo. Scrisse un breve ai vicarj capitolari di Parigi della colpevole audacia del cardinale, e del debito loro gravemente ammonendogli. Essere, rammentava, il cardinale Maury un intruso, essere irremissibile la sua temerità; calcare lui i sacri canoni, calcare le decretali dei papi, calcare tutte le leggi dell'ecclesiastica disciplina: avessero i vicari per nulli tutti gli atti che il cardinale facesse: niuna qualità, niuna giurisdizione l'intruso avere, tutte a lui essere negate, tutte tolte: essere legato Maury alla chiesa di Montefiascone; niuno poternelo sciorre, che la santa sede: le sue risoluzioni gli comunicassero, e dell'esecuzione l'ammonissero. Intanto Maury, che non era uomo da sgomentarsi così alla prima, nè solito a cambiarsi in viso pei rabbuffi, scriveva al papa informandolo della sua nomina, ed accettazione dell'arcivescovil sede di Parigi. Rispose il pontefice, maravigliarsi dell'audacia sua, ma maggior dolore ancora sentirne, che maraviglia: inaspettato e deplorabile accidente, sclamava, ch'egli tanto da se stesso disforme fosse divenuto, che ora quella causa della chiesa abbandonasse, che sì degnamente aveva patrocinata nei calamitosi tempi della rivoluzione. Adunque, continuava, la podestà civile questo punto vincerà, che ella al governo delle chiese chi più le pare e piace, instituisca? Adunque sarà cassa la libertà ecclesiastica, le elezioni invalide, il scisma presente? Tali essere gli effetti, tali i risultamenti dell'esempio detestabile che egli dava. Pertanto comandava al cardinale, pregavalo, scongiuravalo, incontanente cessasse dal governo della Parigina chiesa, si ritirasse dagl'imperiali doni: quando no, procederebbe rigorosamente contro di lui.

Non erano le opinioni conformi nel capitolo di Parigi; chi amava meglio l'imperio che la chiesa, e chi la chiesa meglio che l'imperio. Più erano i primi che i secondi; quelli avevano accettato Maury, questi gli contrastavano. Degli ultimi Paolo Dastros, canonico e vicario generale, preso occasione del mandare al vescovo di Savona certe dispense, aveva supplicato al papa, affinchè il consigliasse di quello che si avesse a fare nelle congiunture presenti. Il santo padre rispondendo, tornava in sul chiamare Maury intruso, disubbidiente, uomo di audacia intollerabile: ordinava, ed in virtù della santa obbedienza comandava a Dastros, incontanente mostrasse al cardinale la sua lettera, e gl'imponesse da parte sua, che dalla temeraria impresa si ritirasse.

Seppesi Rovigo, che sapeva tutto, queste cose; le disse all'imperatore. Sdegnossene Napoleone: prima cosa, fatto arrestare a furia Dastros, il cacciò nelle segrete al solito: poi fece rimproveri e minacce tali a Portalis, consigliere di stato, perchè le lettere del papa a Dastros erano venute sotto sua coperta, che il povero giovane se ne tornò tutto smarrito e lacrimoso a casa. Ma le Savonesi cose pressavano. Scrutaronsi diligentemente dalla polizia Napoleonica i fogli ai servitori del papa; a Paolo Campa, a Giovanni Soglia, a Carlo Porta, al prelato Doria, al prelato Maggiolo, ad Andrea Morelli, a Moiraghi, a Targhini, cuochi, e valletti. Trovarono lettere del papa per le Astigiane, Fiorentine, e Parigine controversie; trovarono lettere di Dipietro al papa, trovarono suppliche per dispense, modi di condursi ai Romani, descrizioni ed attestazioni di miracoli. Le ferrate porte di Fenestrelle sorbirono Morelli, Soglia, Moiraghi, ed un Ceccarini chirurgo, ed un Bertoni valetto: anche un Petroncini domestico del Doria, fu cacciato nelle segrete. Porta se la passò con una buona ammonizione, e che, se vi tornasse, mal per lui: speravano che scoprirebbe qualche cosa degli affari del papa. Doria fu mandato a starsene co' suoi a Napoli, e badasse a non guardar indietro. Nè Dipietro potè fuggire lo sdegno imperiale: preso a Semur, cambiò l'esilio in carcere.

Dispersi i minori, Rovigo e Napoleone pensavano a quello che fosse a farsi del pontefice; perchè, se gli altri avevano fatto fallo a Napoleone, il papa, pensavano, l'aveva fatto maggiore, e maggiore anche da lui veniva il pericolo. Non sapevano darsi pace, come tra quelle folte tenebre che avevano con tanta cura addensate intorno al pontefice, avesse trovato uno spiraglio a vedere, ed a far veder lume: il prefetto di Montenotte sentì qualche sprazzo della collera suprema. Incominciava a fulminare con grandissimo sdegno contro il papa Bigot di Préameneu: sapere l'imperatore, che il papa aveva scritto al capitolo di Firenze, acciocchè non conferisse la potestà all'arcivescovo nominato; recarsi l'imperatore quest'atto a grave offesa. Adunque vuole il papa tutto sovvertire e mandar sossopra? Adunque non vuol nemmeno che le diocesi siano transitoriamente amministrate dai prelati, che l'imperatore giudica degni della sua confidenza, ed ai quali secondo l'uso i capitoli conferiscono le potestà al tempo delle sedi vacanti? Adunque danna il papa uno stato transitorio, che è in facoltà sua di far cessare, dando le bolle, incontanente? Crede egli, che Sua Maestà sia subordinata ad un capitolo, per forma che il vicario ch'esso capitolo ha eletto, non abbia bisogno di essere riconosciuto dall'imperatore, e che, se riconosciuto non è, o cessasse d'essere, ei conservi il diritto di far funzioni, che sono ad un tempo stesso e temporali e spirituali? Un vescovo canonicamente instituito non può nominare un vicario generale senza l'intervento di un decreto imperiale: come può il capitolo avere maggior diritto che il vescovo? I sudditi dell'imperatore, che il capitolo compongono, non renderebbersi forse colpevoli, se un vicario altro che quello che il loro sovrano loro indicasse, o nominassero o mantenere volessero? Questo vicario capitolare non dovrebbe egli forse per la pace della chiesa cessare di per se medesimo l'ufficio, o se questo motivo, più sacro certamente dell'autorità arbitraria del pontefice, a ciò fare nol risolvesse, la volontà del sovrano non gli torrebbe forse ogni potenza dell'atto, o se ribelle si costituisse, non dovrebbe egli portar la pena della sua ribellione? Avere veduto il papa i sovvertimenti prodotti dalle instruzioni ch'ei non aveva diritto di dare sulla formola del giuramento d'un suddito al suo sovrano; nè poter non preveder quelli, che potrebbero nascere dalla sua lettera al capitolo di Firenze. Nissuna violenza, nissun oltraggio del papa l'imperatore lascerebbe impunito: essere tuttavia parato l'imperatore a venirne a giusti termini d'accordo, solo che il papa, scrivendogli, il facesse certo della sua volontà. Ma se al contrario da una parte perseverasse nel voler lasciar le chiese senza capi instituiti, dall'altra nell'impedir i capitoli, e nel mettergli in caso di ribellione contro il sovrano loro, non vedrebbe più Sua Maestà in questi atti le funzioni del governo pontificale, che tutte sono di pace e di carità, non vedrebbe più sotto un titolo rispettabilissimo, che un nemico protervo; obbligo suo sarebbe di torgli ogni mezzo di nuocere coll'interdirgli ogni comunicazione col clero del suo impero, e con isolarlo, qual ente pericoloso: non potere il prelato Doria aspettarsi altro destino, che quello di Pacca cardinale. Le quali ultime parole dette, non so per qual rispetto, non di Pio, ma di Doria, chiaramente significavano, che di Doria si dicevano, perchè Pio come dette di se le riputasse.