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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo VI

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Bentink, acquistata la possessione di Genova, d'allettamento in allettamento passando, faceva sorgere speranze di franco stato nei Genovesi. Forse credeva che i confederati avrebbero avuto più rispetto a questa condizione, se fosse e fatta sperare con parole e cominciata col fatto, che s'ei fosse stato sul severo, e non avesse parlato d'altro che di conquista. Ordinava pertanto un governo preparatorio: voleva ch'egli reggesse i dominj Genovesi secondo gli ordini della constituzione del novantasette, e insino a che si statuissero quelle modificazioni, che l'opinione, l'utilità, lo spirito della constituzione del 1576 richiedessero: che il governo si spartisse in due collegj, come nella forma antica; che durasse in ufficio sino al primo gennajo dell'ottocentoquindici, tempo in cui i collegj ed i consiglj fossero adunati a norma della constituzione. Questi erano i fatti del capitano d'Inghilterra: i motivi poi pubblicamente detti suonavano, che, stantechè i soldati d'Inghilterra retti da lui avevano scacciato dalle terre di Genova i Francesi, e che importava che alla quiete ed al governo dello stato si provvedesse, considerato ancora, che a lui pareva, che universale desiderio della nazione Genovese fosse il tornare a quell'antica forma, alla quale era stata sì lungo spazio obbligata della sua libertà, prosperità e independenza, e considerato finalmente, che a questo fine indirizzavano i pensieri e gli sforzi loro i principi collegati, che ognuno fosse rintegrato ne' suoi antichi dritti o privilegj, voleva, ed ordinava che quello, che i popoli Genovesi desideravano in conformità dei principj espressi dai collegati, si risolvesse in atto e si mandasse ad effetto. Alle quali cose dando esecuzione, chiamava al governo Girolamo Serra in qualità di presidente, e con lui Francesco Antonio Dagnino, Ipolito Durazzo, Carlo Pico, Paolo Girolamo Pallavicini, Agostino Fieschi, Giuseppe Negretto, Giovanni Quartara, Domenico Demarini, Luca Solari, Andrea Deferrari, Agostino Pareto, Grimaldo Oldoini.

Da tutto questo si vede, se i Genovesi non dovevano concepire speranza di conservare l'onorato nome, e l'essere antico della patria loro; o se qualcheduno dalle parole di Bentinck avesse dedotto questo corollario, che Genova avesse fra breve ad esser data in potestà del re di Sardegna, certamente sarebbe stato tenuto piuttosto scemo di mente che falso loico. Ma Castelreagh trovò non so che dritto di conquista, e l'utilità della lega, motivi appunto di senatusconsulti Napoleonici. Bene era spegnere Napoleone, e meglio sarebbe stato il non imitarlo.

Già tutta l'Italia era sottratta dall'imperio di Napoleone: solo restava la parte che si comprende tra il Mincio, il Po e le Alpi. Ma la somma delle cose per lei si aveva piuttosto a decidere sulle rive della Senna, che su quelle del Po. Già sinistri romori si spargevano per Napoleone: poscia le certe novelle arrivavano, essere i confederati, conducendo con esso loro tutto lo sforzo d'Europa, entrati trionfalmente in Parigi, compenso dato da chi regge il cielo a chi regge la terra delle conquistate Torino, Napoli, Vienna, Berlino e Mosca. Era oltre a ciò vociferazione in ogni luogo, che Napoleone errasse colle reliquie dell'esercito per le Sciampagnesi campagne. A ciascuna ora a cose immense aggiungeva la fama cose immense; nè ugual peso di umane moli si era agitata nel mondo, dappoichè Scipione vinse Annibale, Belisario Totila, Carlo Martello i Saraceni, Subieschi i Turchi. Poco stante si udiva, restituirsi i Borboni in Francia, Napoleone ridotto in Fontainebleau rinunziare all'imperio, dire l'ultimo vale a' suoi veterani soldati, accettare per estremo ricetto l'umile rupe d'Elba isola. Raccontare ai contemporanei sì fatti accidenti fora opera superflua, poichè la piena fama ne risuona ancora frescamente nelle orecchie loro: raccontargli degnamente ai posteri, fora opera superiore all'eloquenza, nè io mi vi accingerei, che conosco l'umile mio stile, ed il mio tarpato ingegno. Solo dirò, che per le armi più si fece che si sperasse, che colle parole più si promise, che si attenesse, che la prosperità fe' dimenticare le affermazioni della paura, e che le vecchie voglie sormontarono le necessità nuove. Pure si liberò l'Europa da una volontà sola, e da un dominio soldatesco; e chi guarderà indietro insino al principio di queste storie, e tutti gli accidenti da noi raccontati andrà nella memoria sua riandando, sentirà meraviglia, terrore, pietà, dolore, e contentezza insieme. Gli uomini straziati, le opinioni stravolte, le società sconvolte, la forza preponderante, la giustizia offesa, l'innocenza condannata, le adulazioni ai malvagi, le persecuzioni ai buoni, la licenza sotto nome di libertà, la barbarie sotto nome di umanità, la politica sotto nome di religione, e con queste virtù civili eminenti, ma rare, esempi lodevoli, ma scherniti, valore di guerra egregio, ma in favore del dispotismo, l'Europa infine divenuta scherno e vilipendio a se stessa. Se rinsavirà, non si sa, perchè ancor si sente la puzza degli andamenti Napoleonici: vive l'ambizione in chi comanda, vive in chi obbedisce, e se fia possibile l'unire la libertà al principato, è incerto. Da tutta questa lagrimevole tela, come dai ricordi antichi, almeno questo utile ammaestramento si avrà, che chi, come Buonaparte, da suddito si fa padrone della sua patria per farla serva, o il ferro ancide, o la forza atterra.

Come prima pervennero in Italia le novelle della presa di Parigi, e della rinunziazione di Napoleone, pensò il vicerè a pattuire per la sicurezza delle genti Francesi, nè si conveniva, che poichè i Borboni, ai quali erano le potenze amiche, si trovavano rintegrati in Francia, i Francesi combattessero contro di loro. Inoltre desiderava il vicerè, con facilitare le condizioni ai Borboni ed ai potentati, avvantaggiare le proprie, e fare in modo che gli alleati usassero contro a lui meno inimichevolmente la vittoria. A questo fine, uscito da Mantova, si abboccava con Bellegarde, l'uno e l'altro accompagnati da pochi soldati. Convennero che si sospendessero le offese per otto giorni, che intanto i soldati Francesi che militavano col vicerè, passate le Alpi, ritornassero nell'antiche sedi di Francia; che le fortezze di Osopo, Palmanova, Legnago, e la città di Venezia si consegnassero in mano degli Austriaci; che gl'Italiani continuassero ad occupare quella parte del regno, che ancora era in poter loro; che fosse fatto facoltà ai delegati del regno di andar a trovare i principi confederati per trattare di un mezzo di concordia, e che se i negoziati non riuscissero a felice fine, le offese tra gli alleati e gl'Italici non potessero ricominciare, se prima non fossero trascorsi quindici giorni, da che i primi si fossero scoperti delle intenzioni loro. La convenzione di Schiarino-Rizzino, che in questo luogo appunto si concluse addì sedici aprile, spegneva del tutto il regno Italico. Perchè, segregati i Francesi dagl'Italiani, nasceva una tale disproporzione di forze tra gl'Italiani ed i Tedeschi, che il capitolo, il quale dava quindici giorni di indugio alle ostilità, era piuttosto derisione che sicurezza.

Era giunto il momento dell'ultimo vale fra gli antichi compagni: i soldati di Francia salutavano commossi, abbracciavano piangenti i soldati d'Italia: a loro migliori sorti auguravano; ultimo grado di disgrazia chiamavano, che la disgrazia gli separasse; offerivano gli umili abituri loro in Francia; venissero; si ricorderebbero dell'avuta amicizia, delle comuni battaglie, della con le medesime armi acquistata gloria; fuorichè Italia non sarebbe, tutto parrebbe loro Italia, la medesima amicizia, la medesima fratellanza troverebbero; voler essi con le povere facoltà loro pagare all'Italia il debito di Francia. Così con militare benevolenza addolcivano i soldati di Francia le amarezze dei soldati d'Italia. Questi all'incontro ai loro partenti compagni andavano dicendo: gissero contenti, che se l'Alpi gli separerebbero, l'affezione e la ricordanza dei gloriosi fatti insieme commessi gli congiungerebbero; conforto loro sarebbe il pensare, che chi conservava la patria si ricorderebbe di chi la perdeva; la disgrazia rinforzare l'amicizia; avere per questo l'amore dei soldati Italiani verso i soldati Francesi ad essere immenso; vedrebbero quello che in quell'ultimo eccidio fosse per loro a farsi per satisfazione propria, e per onore dell'insegne Italiche; ma bene questo credessero, e nel più tenace fondo dell'animo loro serbassero, che, come gli avevano veduti forti nelle battaglie, così gli vedrebbero forti nelle disgrazie: queste speravano di mostrare al mondo, che se più patria non avevano, patria almeno di avere meritavano. Che Eugenio, e che Napoleone a noi, dicevano? Gloriosi, gli servimmo, benefici, gli amammo, infelici, fede loro serbammo: ma per l'Italia i nomi diemmo, per l'Italia combattemmo, per l'Italia dolore sentimmo: il dolerci per sì dolce madre fia per noi raccomandazione perpetua a chi con animo generoso a generosi pensieri intende.

Partivano i Francesi, alla volta del Cenisio e del colle di Tenda incamminandosi: gli ultimi segni di Francia appoco appoco dall'Italia scomparivano; ma non iscomparivano nè le ricordanze di sì numerosi anni, nè il bene fatto, nè anco il male fatto, quello a Francia, questo a pochi Francesi attribuendosi: non iscomparivano nè i costumi immedesimati, nè le parentele contratte, nè gl'interessi mescolati: non iscomparivano nè la suppellettile dell'accresciuta scienza, nè gli ordini giudiziali migliorati, nè le strade fatte sicure ai viandanti, nè le aperte fra rupi inaccesse, nè gli eretti edifizj magnifici, nè i sontuosi tempj a fine condotti, nè l'attività data agli animi, nè la curiosità alle menti, nè il commercio fatto florido, nè l'agricoltura condotta in molte parti a forme assai migliori, nè il valor militare mostrato in tante battaglie. Dall'altro lato non iscomparivano nè le ambizioni svegliate, nè l'arroganza del giudicare, nè l'inquietudine degli uomini, nè l'ingordigia delle tasse, nè la sottigliezza del trarle, nè la favella contaminata, nè l'umore soldatesco: partiva Francia, ma le vestigia di lei rimanevano. Non venti anni, ma più secoli corsero dalla battaglia di Montenotte alla convenzione di Schiarino-Rizzino. La memoria ne vivrà, finchè saranno al mondo uomini.

 

Il vicerè, acconce le cose sue coll'Austria, già feceva pensiero di ritirarsi negli stati del re di Baviera, col quale era congiunto di parentado pel matrimonio della principessa Amalia. Ma ecco arrivar novelle, o vere o supposte, che Alessandro imperatore consentirebbe a conservargli il regno, sì veramente che i popoli il domandassero. Accettava Eugenio le liete speranze: fecersi brogli; incominciossi dall'esercito ridotto in Mantova. L'intento parte ebbe effetto, parte no; ma l'importanza consisteva in Milano capitale. Viveva in questo momento il regno diviso in tre sette: alcuni desideravano il ritorno dell'Austria con niuna o poca differenza dall'antica forma: gli altri pendevano per l'indipendenza, ma chi ad un modo, e chi ad un altro: conciossiachè chi l'amava con aver per re il principe Eugenio, e chi l'amava con avere per re un principe di un altro sangue, quand'anche fosse di casa Austriaca; quest'era la parte più potente. Aveva mandato il vicerè certamente con poca prudenza, il conte Mejean a Milano a trattare coi capi del governo, affinchè in favore di lui si dichiarassero. Molto anche vi si affaticava un Darnay, direttore delle poste, personaggio poco grato ai popoli. Ad accrescere disfavore alla cosa s'aggiunse, che a secondare le intenzioni del vicerè si erano intromessi, per opera di Mejean, e per inclinazione propria, i Transpadani, o Estensi, come gli chiamavano: Bolognesi, Ravennati, principalmente Modenesi e Reggiani, erano venuti in disgrazia dei Milanesi, perchè questi si erano persuasi che nelle faccende eglino si fossero arrogata molta maggior parte di quanto si convenisse. Melzi favoriva il disegno, il propose in senato. Vi sorse un gravissimo contrasto, principalmente intorno a quella parte in cui si trattava del principe Eugenio. Paradisi, ed altri Estensi, uomini d'inveterata fama, di gran sapere e di molta autorità, con efficacissime parole instavano in favor del principe. Nei cambiamenti politici, dicevano, più facilmente ottenersi il meno che il più; essere consueto l'imperio d'Eugenio, già dai principi d'Europa riconosciuto: solo volersi, che fosse independente da Francia, e questo appunto essere il fine della presente deliberazione; abbenchè intorno a questo non occorresse, allegavano, molto travagliarsi, perchè spento Napoleone, la franchezza del paese nasceva da se, e chi volesse credere, che Eugenio da Francia Borbonica ancora dipendesse, come da Francia Napoleonica, massimamente se tra la Lombardìa e la Francia s'interponesse il Piemonte tornato, come già si motivava, sotto il dominio dei principi di Savoja, meriterebbe di essere tenuto piuttosto scemo, che acuto. Adunque l'indipendenza, continuavano, essere non solo sicura, ma ancora necessaria con Eugenio: queste considerazioni la natura stessa dettare, le Parigine novelle confermare. Se un altro principe si addomandasse, che sicurtà si avrebbe d'impetrarlo? In deliberazioni di tanto momento, meglio dover fidarsi i collegati in chi è già per loro provato, da loro conosciuto, che in chi per loro fosse ignorato: nell'uscire da sconvolgimenti tanto stupendi, in tanta tenerezza di un fresco ordine in Europa, come sperare che in un regno d'Italia, pieno di umori diversi, importante per la sua situazione, un principe di natura ignota sia per essere accordato? Udire all'intorno, continuavano a discorrere gli oratori favorevoli al vicerè, susurrarsi il nome di un principe Austriaco: ma quivi appunto avvertissero bene, e bene considerassero gli avversarj, massime coloro che favellavano di libertà e di signorìa paesana, a qual partita si mettessero. Da un principe Austriaco adunque aspettavano il viver libero e franco, da un principe Austriaco congiunto di sangue coll'antico sovrano del regno, nodrito nelle massime del comandare assoluto, timoroso necessariamente di Vienna, sovrano di Milano solamente in apparenza? Di chi sono questi soldati, che ora ci minacciano? Austriaci. Quali soldati in Milano il condurrebbero? Austriaci. Quali soldati sulle frontiere nostre sovrasterebbero? Austriaci. Conoscono essi queste terre, le conoscono e le bramano. Se mancheran le cagioni, non mancheranno i pretesti, e ad ogni piè sospinto l'illuvie Tedesca inonderà il regno: cagioni e pretesti saranno, il non obbedire puntualmente e sommessamente a quanto da Vienna si sarà comandato. Ora quale independenza vi possa essere con un timore perpetuo non si vede. A chi ricorrerebbero questi partigiani d'Austria, a chi ajuto domanderebbero? Forse all'Inghilterra avara, che fa traffico di tutti? ai principi assoluti d'Europa, che più temono una constituzione che un esercito? alla Francia indebolita, e che non vuol camminare se non con Napoleone, e che con Napoleone più camminare non può? concorrerebbero al principe Austriaco tutti gli amici dell'antico reggimento d'Austria, concorrerebbero gli amatori dell'imperio illimitato, concorrerebbero i malcontenti, e se gl'interessi nuovi, se la libertà nascente, se le opinioni radicate da vent'anni in mezzo a tanto diluvio di elementi contrarj si potessero conservare salve, ogni uomo prudente potrà giudicare. Chi sarebbe naturalmente, e quasi per intima necessità nemico della libertà dei regno? Certo sì veramente l'Austria. A qual modo puossi la libertà difendere dagli assalti forestieri? Certo sì veramente coi soldati e colle armi. Ora, chi affermare potrebbe, che un principe Austriaco fosse per apprestar armi e soldati Italici per ostare alle cupidigie dell'Austria? parere, anzi esser certo, che il regno di un principe Austriaco sarebbe, non independenza, ma dipendenza, non libertà, ma servitù, non quiete, ma discordia e turbazione. Vienna, non Milano reggerebbe. Con Eugenio re ogni via appianarsi, con un principe forestiero non Austriaco ogni difficoltà crescersi, con un principe Austriaco molte difficoltà torsi, ma fondarsi la servitù. Valessero adunque, concludevano, le virtù di Eugenio, valesse il suo amore per l'Italia, valesse la contratta abitudine di lui, valessero i felici augurj testè venuti da Parigi: essere pazzìa in tante tenebre non seguitar quel lume solo, che la fortuna appresentava davanti. Se qualcheduno desiderasse di viaggiar senza filo in un laberinto, senza bussola in mare, senza lume in un abisso, sì il facesse; ma nè desiderarlo, nè volerlo fare gli Estensi, i quali credevano, che con danno sempre si fa spregio della fortuna.

Dalla parte contraria acerbissimamente contrastavano i senatori Guicciardi e Castiglioni, principalmente quest'ultimo, che con molto empito procedeva in queste cose, e mescolava doglianze gravissime degli Estensi: a loro si accostavano molti altri Milanesi di nome, di ricchezza e d'alto legnaggio. Non potere restar capaci, dicevano, come con Eugenio si potesse aver la independenza, come si potesse aver la libertà. Sarebbe Eugenio più ligio, e più dipendente dall'Austria, che un principe Austriaco stesso: perchè non avendo parentela, nè connessione con altro potentato d'Europa di primo grado, là sarebbe obbligato a cercare per l'interesse della conservazione propria gli appoggi, dove gli troverebbe: nè altro potrebbe esservene per lui che nell'Austria, perchè in lei sola potrebbe sperare, come vicina e potente, di lei sola temere. Credere forse gli avversarj, ch'ei nol farebbe per altezza d'animo? Ma oltrechè non mai i principi credono di derogare alla dignità loro, in qualunque modo soggettino i popoli, purchè gli soggettino, quali sono i segni del pensare onorato d'Eugenio? Forse lo aver dato la metà del regno in potestà di Bellegarde? Forse i secreti abboccamenti avuti con lui, di cui più si sa, che non si dice? Forse lo avere spogliato il reale palazzo di Milano? Forse i donativi promessi per queste stesse perniziose e fatali trame? Forse Mejean e Darnay qua mandati a subornar gli spiriti, Mejean e Darnay, non solo sostenitori acerbi e tenacissimi di tirannide, ma ancora denigratori assidui di quanto havvi nel regno di più alto, di più nobile, di più generoso? Forse la elevazione dell'animo di Eugenio pruova lo sprezzo fatto di quei soldati, di cui egli era capitano pagato e richiedente? Gl'Italiani fatti scherno di un giovane di prima barba, e che nome non ha, se non da chi ne ha uno odiosissimo! Dicano l'altezza d'Eugenio le prezzolate ed udite spie, dicanla gli esilj dei più generosi cittadini, dicala la tirannide sul parlare e sullo scrivere usata. Non è punto da dubitare adunque, che siccome egli non abborrirebbe per natura dal più dimesso partito, così ancora per necessità il piglierebbe, e più sarebbe certamente governato austriacamente il regno da Eugenio, che da un principe Austriaco. Certo sì, che i comandamenti arriverebbero da Vienna, non dal reale palazzo di Milano. Di ciò già manifesti segni essere le umili cortesìe usate a Bellegarde, le cedute fortezze, i messi mandati al campo dell'imperatore Francesco, i messi mandati alle Parigine trattazioni; dimostrarlo quelle medesime proposte, che allora andavano su per le panche senatorie. Che se poi di Austriaco principe si trattasse, ancorchè questo fosse l'estremo partito che solo la necessità dovrebbe indurre, non visse beata e da se medesima la Toscana sotto un principe Austriaco lungo tempo? Duri e renitenti certamente essere i principi Austriaci, sclamavano i sostenitori di questa sentenza, al giurare liberi patti, ma esserne anche fedeli osservatori, se giurati gli abbiano; i Napoleonidi non del pari, perchè corrivi al giurare, corrivi al violare, delle promissioni non si curano, se non per l'utilità. Udite, udite, vociferavano, che di Prina si parla per mandarlo delegato, che di Paradisi si parla per mandarlo delegato! Sì per certo, Prina, amatore tanto tenero di libertà, Paradisi, che a qualunque più pericoloso partito si getterebbe piuttosto che sentir odore Austriaco, e ben sanne il perchè! Questi sono i mezzi dell'independenza, questi i difensori della libertà. Del resto le nazioni, non le parti o le sette fanno le mutazioni degli stati, nelle importanti ed uniche occorrenze. Chi potrà affermare, che gl'Italiani vogliano Eugenio per re? Forse i soldati che lo odiano? Forse i cittadini che non l'amano? Il chiamarlo sarebbe stimato macchinazione di pochi, non volontà di tutti, nè tanto sono i principi collegati ignoranti degli umori che corrono, che queste evidenti cose non sappiano.

Tutta la nobiltà Milanese Eugenio impugna, ed un vivere libero pretende: tutto il popolo mosso, che a queste mura grida intorno e minaccia, solo perchè ha udito susurrare della confermazione di Eugenio, della continuazione, se non del dominio, almeno delle consuetudini di Francia. Generose armi stanno in mano de' principi collegati, generose cagioni gli muovono, a generose cose intendono, nè questo momento ad alcun'altra età si rassomiglia. Proponete loro, non quello che pochi vogliono, ma quello che vogliono tutti, proponete loro una risoluzione grande, non la domanda di un principotto, docile allievo di un tiranno, proponete loro un vivere largo e generoso, non una vita piena di spie e di carceri, e sarete esauditi. Questo vogliono gl'Italiani, questo vogliono i principi alleati, questo vogliono i cieli che non han sommosso il mondo, perchè continui a regnare in Milano Napoleone Buonaparte sotto nome di Eugenio Beauharnais. No, sclamavano vieppiù infiammandosi, non vogliamo Eugenio, no, non vogliamo Prina, nè Mejean vogliamo, nè Darnay: bensì vogliamo un principe, che collegato di sangue con qualche ceppo potente d'Europa, non abbia bisogno di adulare e di concedere per sussistere: vogliamo un principe, che giuri libertà per conservarla, non per ispegnerla; vogliamo un principe, che conosca, e sappia, e senta quanto nobile sia questo Italico regno, quanto generosi questi Italici abitatori, quanto alte sorti a lui ed a loro siano dai cieli favorevoli preparate: assai e pur troppo di Francia avemmo, assai e pur troppo di Napoleonici capricci pruovammo: ora in tanta aspettazione di cose, in tanta sollevazione di mondo, altrove si volgano gl'Italiani consigli, che l'avere sofferto dee dar luogo al godere; non a nuovo sofferire.

Decretava il senato, che si mandassero tre legati ai confederati, supplicandogli, ordinassero che cessassero le offese: domandassero i legati, che il regno d'Italia fosse ammesso a godere l'independenza promessa, e guarentita dai trattati, testificassero quanto il senato ammirasse le virtù del principe vicerè, e quanta gratitudine pel suo buon governo avesse.

Seppesi la deliberazione. Fece la parte contraria, che abborriva dal nome di Eugenio, un concerto. Entraronvi i capi principali dell'armi, le case più eminenti di Milano, principalmente Alberto Litta, che accarezzato da Buonaparte, non aveva mai voluto accettar cariche, preferendo un vivere privato onorevole ad un vivere pubblico abietto. S'aggiunsero i negozianti più ricchi, e fra gli scienziati e letterati i meno paurosi. Il nome dell'independenza era in bocca a tutti, l'amore nel cuore; nè mai in alcun moto che abbian fatto le nazioni in alcun tempo nelle più importanti faccende loro, tanto ardore e tanta unanimità mostrarono, quanta gl'Italiani in questa. Domandavano che si convocassero i collegi elettorali. Era il venti aprile quando, essendo il senato raccolto nella sua solita sede, una gran massa di gente, gridando, a lui traeva: era il cielo nuvoloso e scuro, pioveva leggermente, una apparenza sinistra spaventava gli spiriti tranquilli. I commossi non si ristavano. Eranvi ogni generazione d'uomini, plebe, popolo, nobili, operai, benestanti, facoltosi. Notavansi principalmente fra l'accolta moltitudine Federigo Confalonieri, i due fratelli Cicogna, Jacopo Ciani, Federigo Fagnani, Benigno Bossi, i conti Silva, Serbelloni, Durini e Castiglioni. Le donne stesse, e delle prime, partecipavano in questo moto gridando ancor esse patria e independenza, non Eugenio, non vicerè, non Francesi; una donna De-Capitani, una marchesa Opizzoni, ed altre non poche. Era tutta questa gente volta a bene, ed il male, non che avesse fatto, non l'avrebbe neppure pensato. Ma come suole, incominciavano ad arrivare e da Milano e dal contado uomini ribaldi, che volevano tutt'altra cosa piuttostochè l'independenza. Queste parole scritte andavano attorno: «Hanno la Spagna e l'Alemagna gittato via dal collo il giogo dei Francesi; halle l'Italia ad imitare.» Gonfalonieri a tutti avanti gridava: «Noi vogliamo i collegi elettorali, noi non vogliamo Eugenio». Fuggirono i senatori partigiani del principe, il senato si disciolse. Entrò il popolo a furia nelle sue stanze, il conte Gonfalonieri il primo, e tutto con estrema rabbia vi ruppero e lacerarono. Gridossi da alcuni uomini di mal affare mescolati col popolo, Melzi, Melzi, e già si mettevano in via per andarlo a manomettere. Un amico di lui gridò, Prina: era Prina più odiato di Melzi, ed ecco, che corsero a Prina, e flagellatolo prima crudelmente, l'uccisero con insultar anco al suo sanguinoso cadavere lungo tempo. Cercarono di Mejean e di Darnay; non gli trovarono. La folla frenetica, messa le mani nel sangue, le voleva mettere nelle sostanze. Già le case si notavano, già le porte si rompevano, già le suppellettili si recavano; la opulenta Milano andava a ruba. A questo passo i possidenti ed i negozianti, ordinata la guardia nazionale frenarono i facinorosi, e preservarono la città.

 

Il vicerè che tuttavia sedeva in Mantova, uditi i moti di Milano, indispettitosi, diè la fortezza in mano degli Austriaci: atto veramente biasimevole, del quale perpetuamente la posterità accuserà Eugenio; imperciocchè gli uomini giusti e grandi non operano per dispetto, nè Mantova era d'Eugenio, ma degl'Italiani: miserabili calate dei Napoleonidi. Napoleone tutto stipulava per se, nulla pe' suoi a Fontainebleau, Eugenio non solo nulla stipulava pe' suoi, ma ancora tutto quel maggior male fece loro, partendo, che potè. Partiva da Mantova per la Baviera, le Italiche ricchezze seco portando. Per poco stette, che le memorie di Hofer nol facessero uccidere in Tirolo, nuovo dolore mandatogli dal fato, che chiamava a distruzione i Napoleonidi.

I collegi elettorali, adunatisi, crearono una reggenza. Decretarono che le potenze alleate si richiedessero dell'independenza del regno, di una constituzione libera, e di un principe Austriaco, ma independente: alzavano le loro speranze le parole pubblicate dai confederati del volere l'independenza delle nazioni. S'appresentarono Fè di Brescia, Gonfalonieri, Ciani, Litta, Ballabio, Somaglia di Milano, Sommi di Crema, Beccaria di Pavia, legati, a Francesco imperatore a Parigi. Esposte le domande, rispose, anche lui essere Italiano: i suoi soldati avere conquistato la Lombardia: udirebbero a Milano quanto loro avesse a comandare. Entrarono gli Austriaci in Milano il dì ventotto aprile: Bellegarde ne prendeva possessione in nome dell'Austria il dì ventitrè di maggio. Così finì il regno Italico.

Continuava Genova in potestà d'Inghilterra; vivevano i Genovesi confidenti della conservazione dell'antica repubblica. Gli confortavano la rintegrazione promessa dagli alleati di ciascun nel suo, e le dimostrazioni Bentiniane. Ma ecco il congresso di Vienna decretare, dover Genova cedere in potestà del re di Sardegna.

A questa novella il governo temporaneo nel seguente modo favellava ai popoli Genovesi: «Informati, che il congresso di Vienna ha disposto della nostra patria, riunendola agli stati di Sua Maestà il re di Sardegna, risoluti da una parte a non lederne i dritti impreteribili, dall'altra a non usar mezzi inutili e funesti, noi deponiamo un'autorità, che la confidenza della nazione, e l'acquiescenza delle principali potenze avevano comprovata.

«Ciò, che può fare per i diritti e la restaurazione de' suoi popoli un governo non d'altro fornito che di giustizia e ragione, tutto, e la nostra coscienza lo attesta, e le corti più remote lo sanno, tutto fu tentato da noi senza riserva, e senza esitazione. Nulla più dunque ci avanza, se non di raccomandare alle potestà municipali, amministrative e giudiziali l'interino esercizio dell'ufficio loro, al successivo governo la cura dai soldati che avevamo cominciato a formare, e degl'impiegati che hanno lealmente servito, a tutti i popoli del Genovesato la tranquillità, della quale non è alcun bene più necessario alla nazione. Dalla pubblica alla privata vita ritraendoci, portiamo con esso noi un dolce sentimento di gratitudine verso l'illustre generale, che conobbe i confini della vittoria, ed un'intiera fiducia nella provvidenza divina, che non abbandonerà mai i Genovesi.»

Queste furono le ultime protestazioni, le ultime querele, e le ultime voci dell'innocente Genova. Il giorno susseguente, che fu addì venzette dicembre, un Giovanni Dalrymple, comandante dei soldati del re Giorgio, ne assunse il governo: la diede poscia in mano ai legati del re Vittorio Emanuele.

Così l'Italia, dopo una sanguinosa e varia catastrofe di vent'anni, dalla quale dieci terremoti, e non so quanti volcani sarebbero stati per lei migliori, si ricomponeva a un di presso nello stato antico. Tornava Vittorio Emanuele in Piemonte, Francesco in Milano, Ferdinando in Toscana, Pio in Roma: passò Parma dai Borboni agli Austriaci; conservò Giovacchino il real seggio di Napoli, ma non per durare; le Italiane repubbliche spente: l'acume del secolo trovò, che la legittimità è nel numero singolare, nel plurale no. Solo fu conservato l'umile San Marino, forse per un tratto d'imitazione di più degli andari Napoleonici: la sua esiguità e povertà non eccitavano le cupidità di nissuno. Cedè Venezia a Francesco, Genova a Vittorio. Nè furono i governi di Francesco, di Vittorio, di Ferdinando e di Pio sdegnosi: solo non misurarono la grandezza delle mutazioni fatte nelle menti e nel cuore degli uomini, da sì grandi e sì lunghi accidenti, imperciocchè se esse mutazioni erano, come alcuni pretendono, malattie, richiedevano convenienti rimedj. Giudicheranno i posteri, se i mali che seguirono, debbano agl'infermi od a chi gli doveva sanare, attribuirsi. Felici Giuseppe e Leopoldo, principi santissimi, che vollero consolar l'umanità colle riforme, non ispaventarla coi soldati! Nè ai principi Italiani noi qui parlando, intendiamo accennare instituzioni all'Inglese, alla Francese od alla Spagnuola, le quali a modo niuno si convengono all'Italia; ma bensì riforme che facessero sorgere, a maggior quiete e felicità dei popoli di questa penisola, siccome già abbiam notato nel precedente libro, instituzioni peculiari accomodate alla natura degl'Italiani, cosa del pari facile a concepirsi, che sicura ad eseguirsi. Oltre a ciò la nobiltà esiste in Europa, ed è indestruttibile. E' bisogna pertanto farne stima in un ordinamento sociale tendente allo stato libero, come di un elemento necessario, e darle, come a corpo constituito, quella parte di potestà politica che le si conviene, perchè sia contenta, e non tenti usurpazioni nelle altre potestà della macchina sociale. Ciò eseguito, fia necessario da un altro lato inibirle l'ingresso, e qualunque ingerenza nella potestà popolare, instituita, quanto all'Italia, a modo antico, ma bene e prudentemente inteso, non a modo moderno, che non può esser buono. La divisione tra la nobiltà ed il popolo è nella natura stessa delle cose, e debb'essere ancora nella legge politica. Questa è condizione indispensabile sì per la libertà, e sì per la quiete dello stato, e ad esse niuna cosa è più perniziosa che una nobiltà in aria, ed una potestà popolare composta di conti e di marchesi. Questi principj sono veri, e possibili ad esser ridotti all'atto, o che si viva in monarchìa, o che si viva in repubblica. La chimera dell'equalità politica ha fatto in Europa più male alla libertà che tutti i suoi nemici insieme. L'equalità debb'essere nella legge civile, non nella politica. I principj astratti ed assoluti, in proposito d'ordinamento sociale, son fatti solamente per indicare i fondamenti delle cose, non per esser posti in atto senza modificazione; perchè le passioni, che sono la parte attiva dell'uomo, generano movimenti disordinati, che bisogna frenare. Sono essi principj in economia politica ciò, che sono i geometrici nella meccanica, le passioni, in quella, ciò che l'attrito delle macchine, ed altri accidenti prodotti dalla natura della materia, in questa; e così come si tien conto dell'attrito nell'ordinar le macchine, si dee tener conto delle passioni nell'ordinar la società. L'effetto che si desidera, è la libertà, cioè l'esatta e puntuale esecuzione della legge civile uguale per tutti, ed un'uguale protezione della potestà sociale per ciascuno, sì quanto alle persone, come quanto alle sostanze. Purchè si ottenga questo fine, non si dee guardare alla qualità dei mezzi, e mezzi di diversa natura, secondo la diversità delle nazioni, vi possono condurre. Chi risolvesse bene questo problema, «sino a qual segno ed a qual parte dell'equalità politica si debba rinunziare per meglio assicurare la libertà, e l'equalità civile», farebbe un gran servizio all'umanità. Ma di ciò più ampiamente altri più capaci di noi.