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La plebe, parte IV

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Successe un istante di silenzio.

– Addio! addio! gridò poi il medichino. Ora va… Tutto è finito.

Padre Bonaventura s'avanzava colla sua faccia ipocritamente dolcereccia. La Leggera parve voler parlare, ma la voce non uscì dalle sue labbra allividite, due lagrime le colavano giù delle guancie; agitò le mani, poi si premette il cuore, un penoso singhiozzo eruppe dalla sua gola, ed abbassato il velo, uscì vacillando. Gian-Luigi l'accompagnò con un ineffabile sguardo di compassione.

– Figliuol mio: disse il gesuita al condannato: in questa notte che oramai è trascorsa, Dio ha egli parlato al vostro cuore?

Gian-Luigi guardò il frate con una occhiata fissa, da cui era sbandita ogni espressione della primitiva ironia.

– Sì: diss'egli seriamente: e di quella sua parola me ne odo ancora entro l'anima l'eco che risuona.

Fra' Bonaventura credette opportuno il momento di spacciare un'edizione delle sue solite esortazioni che teneva in pronto per queste circostanze: Gian-Luigi pareva ascoltarlo, ma in realtà non faceva al sermonante ned alle sue parole la menoma attenzione. Egli ravvolgeva nella sua bocca la mortifera pallottolina; era di gomma con entrovi una goccia di acido prussico; e intanto pensava:

– Appena morto io, se il mio spirito non muore, come mi sono indotto a credere, in quale condizione si troverà? Con quali attinenze ancora con questo mondo, colla materia, colla luce, collo spazio, col tempo?.. Sì, questo è uno spaventevole abisso. Questa è tale curiosità che pure sgomenta… Esito forse?.. Ho io forse paura?.. No… Perchè dunque mi trattengo innanzi a quell'attimo che deve tutto decidere, che deve lanciarmi nell'eternità?

Guardò la faccia grassa e rubiconda del gesuita, il quale, gli occhi a mezzo socchiusi, dipanava con una certa voluttà i periodi della sua eloquenza da predicatore.

– Appena costui interrompa la sua onda di parole per prender fiato, disse a se stesso sorridendo, morderò in questo chicco di morte.

Il sermonante non tardò a fare una piccola pausa necessaria ai suoi polmoni; e Gian-Luigi si tenne parola. S'udì un lieve rumore: quello della crosta di gomma rotta dai denti; e di botto la vita cessò come per incanto in quel corpo giovane, robusto, nella più ricca e piena espansione della sua vitalità. Non diede un grido, nè un gemito, nè nulla: cadde improvviso quant'era lungo; nè la menoma convulsione gli agitò le membra, gli contrasse i lineamenti. Padre Bonaventura, stupito, spaventato, si chinò sopra un cadavere.

– Ah! questa è l'opera del marchese: pensò egli, e da buon gesuita stimò opportuno consiglio tacere ed allontanarsi senz'altro.

La Zoe presso all'uscir della carcere vide appoggiato alla parete un uomo che pareva un'ombra; suo primo impulso fu passar ratta senza badargli; ma poi ravvisatasi gli si avvicinò. Stettero tuttedue l'uno innanzi all'altra, senza parlarsi, senza guardarsi, tremando. Fu la donna finalmente che ruppe il silenzio.

– Quello che tu hai fatto è infame; quello che mi hai obbligato a fare è infame. Questa infamia che per altri sarebbe cagione di odio e innalzerebbe fra loro una insuperabil barriera, noi invece accomuna. Ora ci siamo ritrovati e ci apparteniamo; tu hai da essere strumento per le mie passioni, come io fui per la tua. Ti servirò ancora, ma tu mi servirai… La mia passione ora è una vendetta… Mi aiuterai a compirla4.

Barnaba non rispose parola; ma promise con uno sguardo. La cortigiana partì. Lungo le strade che ella percorse trovò già frequenti i gruppi de' curiosi che s'affrettavano prima di giorno a recarsi sul luogo dove avevano da essere giustiziati i rei. Senza sapere di avere questo voto scellerato comune con Nerone, la cortigiana desiderò poter tenere in una testa sola tutte le teste di quella folla crudele per ischiaffeggiarla e sputarle sul viso. Giunse sino in Piazza Castello che quasi non sapeva quale strada avesse percorsa e perchè fosse colà venuta. In fondo si drizzava in una massa scura l'imponente Palazzo reale. Zoe tutta la sua ira, tutto il suo odio, tutta la ferocia del suo dolore concentrò in un punto e volse ad una persona sola. Tese la destra stretta a pugno verso il Palazzo reale e disse coi denti serrati:

– Principe! Principe! Tu me la pagherai!

Sino al luogo in cui ella si trovava, pel queto aere della notte cui non rompeva ancora il menomo raggio dell'alba, venivano i lenti e gravi rintocchi della campana che suonava l'agonia degl'infelici che stavano per morire per mano del boia.

CAPITOLO XXXIII

Maurilio sta sul suo letto di morte. La ragione della vita è cessata per lui. Ogni forza di vitalità in quegli ultimi così crudeli tormenti s'è affatto consunta. Egli non ha dimenticato Virginia. Domandò un colloquio al marchese, e perorò la causa dell'amore di lei. Alla forza de' suoi argomenti, al calore della sua eloquenza aggiungeva efficacia e solennità la sua morte che tutti vedevano vicina. Parlò della parte dell'aristocrazia nella nuova fase della civiltà che s'annunziava: quella che era stata sostenuta un giorno era irrimediabilmente finita: una nuova parte doveva la nobiltà assumersi, o perire come inutile, peggio che inutile, come inciampo. Bisognava quindi chiamasse a sè nuovi elementi, si risanguasse coll'operosità del ceto medio, si avvicinasse mercè l'intrammezzo della borghesia al gran serbatoio popolare. Il marchese, già proclive a siffatte idee, subì l'influsso dei ragionamenti e delle esortazioni del moribondo; diede la promessa, che, appena opportune le circostanze, non avrebbe contrastato al matrimonio di Virginia di Castelletto con Francesco Benda. Maurilio sapeva che una promessa del marchese era una immanchevole verità nell'avvenire.

Si ricordò di Gognino, del povero fanciullo da lui trovato una sera, piangente ed affamato, nel fango della strada, cui la sorte gli aveva menato innanzi per aggruppare e sciogliere il più rilevante episodio del dramma della sua vita, e col quale aveva comune non che il destino, ma il sangue. Abbandonato a sè, coll'educazione ch'ei poteva ricevere dalla sua nonna, la sorella di Stracciaferro, non era egli da temersi per sicuro che quel bambino sarebbe riuscito quale era stato Stracciaferro medesimo?

Maurilio lo raccomandò al marchese, il quale disse avrebbe tolto quell'infelice dalle unghie della vecchia, infame venditrice di abitini e di rosarii, e fattolo allevare un onest'uomo.

Tutti coloro che avevano avuto attinenza con lui, che in qualche modo gli erano stati cari o che lui avevano avuto caro, Maurilio volle ancora vedere: anche il signor Defasi, cui volle far noto non esser egli altrimenti il figliuolo della nobil dama, quale si era creduto un istante, ma quello dell'assassino, morto sul patibolo, quasi a togliere con ciò, o scemare almeno il rammarico che il buon libraio aveva tuttavia di averlo sospettato reo d'un delitto.

Pregò Don Venanzio gli conducesse eziandio la povera Margherita. La vecchia contadina, quando uscita dalla carcere in cui il suo diletto Giannino aspettava l'ora della morte, era vissuta in una specie di stupidimento che pareva insensibilità, ed era invece eccesso di spasimo, fino al mattino vegnente, pochi minuti prima che cominciasse i suoi rintocchi la campana dell'agonia. Allora s'era riscossa ed aveva tormentate colle mani convulse le sue chiome canute, come persona che risensi ad un tratto e si ricordi subitamente di cosa che prema oltre misura. Erasi sferrata dal luogo ove si trovava, ed era corsa alla carcere, appostatasi alla parete proprio dirimpetto alla porta e rimasta lì cogli occhi fissi su quella soglia fatale, immobile che forza nessuna sarebbe stata capace di trarla viva di là. Voleva vederlo ancora una volta, gettargli ancora un saluto ed un bacio mentre passava, fare che in mezzo ai ceffi ostili e curiosi che lo avrebbero con crudele avidità contemplato, trovasse almeno uno sguardo amoroso, una faccia benigna, un labbro che lo benediceva.

Quando le pesanti imposte s'aprirono, ed al dubbio lume d'un crepuscolo invernale appena incominciato, cominciarono ad uscirne gli sgherri di scorta, Margherita si aggrappò colle mani macilente alla parete della casa contro cui s'appoggiava, per non cadere, tanto fu il commovimento di tutto l'esser suo, vedendo due carri pesanti venir fuori dalla cupa vôlta del portone e scantonar nella strada. Oh con quale ardore fisse le sue pupille inaridite dal pianto sulle faccie di quegli sciagurati che, le braccia legate dietro le reni, stavano seduti in mezzo ai preti su quei carri sobbalzanti!.. Ma nel primo il suo Giannino non c'era. Sarà dunque nell'altro. Drizzò, per dirla con Dante, tutto il nerbo della sua facoltà visiva su quel secondo carro che ad una certa distanza del primo veniva fuori dall'oscurità del portone alla luce grigiastra del mattino; – e neppure in esso non iscorse la bella figura del suo diletto. Stette attonita da principio, e non seppe neppur rallegrarsi. Non le venne idea nessuna a spiegare questo fatto. Credette non aver visto bene; quantunque sentisse impossibile che suo figlio essendoci, gli occhi suoi non l'avessero di presente trovato. Volle correre dietro i carri che s'allontanavano lentamente nello scuriccio della strada, per vederli anche una volta; ma la folla raccolta per vedere quello spettacolo ne la impedì. Ebbe dalle ciarle di quella folla, le quali si fecero alte e vive di subito, la conferma, ch'ella non s'era sbagliata, che aveva veduto bene, che il suo Giannino colà non era.

 

– E perchè non c'è il medichino? diceva la gente. Oh che non aveva da essere giustiziato anch'egli cogli altri questa mattina?

In un attimo corsero pel popolo colà raccolto le più varie novelle, venute fuori, come sempre avviene, non si sapeva d'onde nè come: – che il capo della cocca lo si serbava per un altro giorno: – che gli era stata fatta grazia: – che gli era fuggito; corse anche la voce della verità: – che gli era morto: – ma questa nessuno volle crederla.

Margherita, agitata, presa da una viva speranza, si slanciò verso la carcere a domandare di Gian-Luigi, a pregare glie lo si lasciasse vedere; ma, com'è facile immaginarsi, fu bruscamente respinta. Ben le fu detto anche colà che il capo della cocca era morto, ma ella ciò non credette meglio di quel che lo credesse il popolo. Ella ben lo aveva detto, non esser possibile che egli salisse il patibolo, che egli così giovane e bello dovesse morire. La ragione del salvamento di lui, ella non se la spiegava, non la cercava neppure: fosse anche intravvenuto un miracolo visibile ad effettuare la sua speranza, ella non si sarebbe menomamente stupita. Il fatto verificava il suo istintivo indovinamento: ecco tutto. E siccome le più assurde dicerie correvano per la plebe sul conto della scomparsa del medichino, e sulla mancanza di lui alla orribil festa che la giustizia umana aveva preparata alla sua crudeltà, Margherita accettava tutte per vere quelle che conchiudevano alla salute di quel personaggio diventato di botto misterioso e leggendario.

Anche presso l'infimo volgo erasi sparso delle relazioni che il medichino aveva con nobili e potenti famiglie; qualche cosa era trapelato eziandio, e chi potrebbe dirne mai il come? circa la origine di lui, che si attribuiva ad un alto e potente casato; volevasi ad ogni costo che misteriosi ed illustri protettori lo avessero sottratto e per nasconder meglio la cosa si facesse spargere la notizia della morte di lui. Il popolo che, vedendolo menare al supplizio, avrebbe forse manifestato per quello strano individuo la più viva simpatia, ora vedendoselo mancare alla sua sanguinaria voluttà di feroci emozioni, tumultuò di guisa che fu necessario l'accorrere dei soldati a disperdere la riotta intorno alla carcere. Ma questa per lei felice illusione salvò la povera Margherita dal morir disperata.

Quando fu introdotta presso il letto dove moriva Maurilio, la vecchia contadina, senza voler parlar d'altro, si chinò all'orecchio del giacente, e con un sorriso mezzo da scemo, gli disse piano all'orecchio:

– So che vive… Zitto!.. Non si de' sapere… Non lo dirò a nessuno, sta certo; ma fra noi ce lo possiam dire… Andrà lontano, lontano, neh?.. Forse ci è già ito… Io non lo vedrò più sulla terra. (Si asciugò una lagrima). Capisco che dev'esser così… e pazienza!.. Tu lo vedrai ancora, non è vero?.. Digli che si ricordi di me… E poi quando verrai al villaggio alcuna volta… Guarirai, e ci verrai certo… mi recherai le sue novelle… Intanto dàgli ancora un bacio per parte mia.

Baciò il moribondo colle sue labbra secche ed avvizzite.

– Ecco, io non ho più nulla da dirti: soggiunse poi con aria ed accento vieppiù da dissensato; posso andarmene, e me ne vado al mio paese. Non ho più nulla da far qui, in mezzo a questo rumore che mi toglie la povera mia vecchia testa… Vado al villaggio… Ma ch'ei non si dimentichi la vecchia Margherita che lo ha allattato… La sua vera madre, l'unica sua madre sono stata io.

Tornata al villaggio, il marchese provvide ad ogni suo bisogno; ma ella non visse a lungo. Si trascinò due anni, senza quasi parlare altrui, dalla sua misera casipola alla chiesa, e morì ancora con quella illusione sul conto del suo Giannino; illusione cui lo stesso Don Venanzio non ebbe coraggio di distrurre, credendola una pietà della Provvidenza verso quell'infelice.

Maurilio era caduto in un assopimento che già pareva la morte: il medico aveva detto che da quello non si sarebbe ridesto più, ma insensibilmente passato nel sonno eterno. Intorno a lui stavano mesti e raccolti e lo contemplavano con amore gli amici suoi: Giovanni Selva, Antonio Vanardi, Romualdo, anche Mario Tiburzio, del quale il morente aveva chiesto eziandio: il marchese si teneva dritto, nella sua mossa nobilmente severa, da un lato del letto, e sulla sua bella fisionomia dignitosa di vecchio, era una mestizia forse uguale a quella dei giovani amici del morente. Maggiore d'ogni altro era il dolore che appariva sulla faccia di Don Venanzio, il quale sedeva dall'altra parte del letto e teneva fra le sue una delle mani abbandonate del moribondo. Gli occhi sempre così miti e sereni del vecchio sacerdote erano pieni di lagrime, ed oltre quelle lagrime avevano una desolazione, quale non vi era apparsa ancora mai, in tutte le traversie che pure aveva egli passate nella vita.

Quei due giovani egli aveva amati come figli; si era tanto tempo compiaciuto in essi, svolgendone la rara intelligenza; aveva deplorato i traviamenti del loro pensiero, ma sperato sempre che li avrebbe un giorno ricondotti sulla retta via segnata dalla Chiesa di cui egli era membro e stromento, dalla religione di cui era ministro. Ora ambedue, sul fiore dell'età, gli venivano tolti e crudelmente tanto! e lasciando in lui tanto terrore della sorte loro futura, che appena se giungeva a calmarlo l'immensa idea ch'egli aveva della clemenza di Dio.

Maurilio giaceva supino, gli occhi e le labbra chiusi. I suoi nerissimi capelli, dritti e scarmigliati sul guanciale candidissimo, gli facevano una corona che pareva di spine alla fronte vasta, dalle ossa protuberanti, che sembrava imbiancatasi, che avreste detto lucente d'una misteriosa fosforescenza. In quei supremi istanti i suoi lineamenti grossolani avevano presa un'espressione di nobiltà di cui li avreste creduti incapaci dapprima; la sua fisionomia trasformata aveva assunta una nuova, una strana, inesplicabile, inesprimibile bellezza che non era quella della misera forma umana, che anche uno scettico avrebbe detta superiore alla terrena.

La predizione del medico ebbe torto. Il morente ad un punto aprì gli occhi e girò intorno le pupille, conscio di sè e delle cose che lo circondavano: salutò con un'occhiata di gratitudine e di compiacenza coloro che lo attorniavano con mostre di dolce affetto e si dolevano del suo destino; fermò più a lungo e più commosso lo sguardo sulla bella testa canuta di Don Venanzio, che piangeva chetamente a lui vicino; volle stringere colla sua la mano del vecchio prete, ma non n'ebbe la forza; accennò lo sollevassero sopra i cuscini, e poichè fu soddisfatto al suo desiderio, parlò pianamente a colui che era stato il suo primo e vero e si può dire unico benefattore, che gli aveva fatto intellettualmente ed anche per affetto da padre.

– Non pianga, Don Venanzio; io sto per giungere là dove un po' meglio si vede la gloria di Dio. Non tema della salute dell'anima mia, non tema del mio avvenire oltre tomba. Ai moribondi avviene qualche volta che si conceda avere un sentore del mondo degli spiriti a cui stanno per approdare. Dio mi fu largo di tanta ventura. Nel mio assopimento ed anche ora mi stanno dinanzi le auree forme d'una sublime visione. Non gli occhi del corpo la contemplano, ma quelli dello spirito già apertisi, benchè tuttavia nel carcere della carne. Ella si spaventò per me, che abbandonai le forme della fede da Lei apprese alla mia infanzia. La si rassicuri: non è la forma, è la sostanza della fede che salva. Io credo al buono, al bello ed a Dio. Credo ed amo! Ecco i profeti e la legge… Veggo nell'infinità dello spazio l'infinità dei mondi, e in questi, traverso a questi, l'infinità delle vite degli spiriti, da incarnazione ad incarnazione, da grado a grado; immenso elevarsi di anime verso l'inarrivabile. Nel cammino chi s'arresta, chi travia, chi cade: – ma niuno è perduto. Il male non ha l'autorità dell'assoluto; è una contingenza; è l'ombra; privazione, non corpo; negazione, non sussistenza; è il divenire del bene. La grande fraternità degli spiriti che si sviluppano nella materia, cominciando dalle prime manifestazioni della vita sino all'intelligenza che si accresce e si accresce vestendo sempre meno di materia: questa grande fraternità scrive la sua storia e la imprime per mezzo dell'eterea luce nell'infinità dello spazio che i raggi percorsero, percorrono e percorreranno sempre, sempre, senza principio, senza interruzione, senza fine. Questa luce, latrice delle immagini d'ogni avvenimento cosmico, cammina, cammina nelle profondità dello spazio: correte alla distanza che occorre e troverete rappresentate le fasi geologiche dell'esistenza primitiva della nostra terra. In queste pagine immortali mi lasciò un momento scorgere la clemenza di Dio. Tosto che sarà spirito disumanato, le potrò leggere con occhio sicuro. Tutto il passato è così sempre presente, e tutto coesiste nell'attimo. La luce delle lontane stelle che giunge a noi dopo due mila anni di viaggio è per noi il presente, e per loro è il tempo forse già sepolto nell'oblio.

I presenti credevano ch'ei vaneggiasse; Don Venanzio lo pregò a non istancarsi cotanto nella fatica di parlare che era molta e sempre maggiore per lui, al quale il fiato ad ogni minuto diventava più oppresso e più debole. Ma il moribondo scosse lievemente la testa, facendo un mesto sorriso.

– Lasciatemi dire: rispose: pochi minuti soltanto mi rimangono, ed ho desiderio di comunicarvi ancora tante cose!

Si rivolse ai giovani amici suoi, Selva, Romualdo, Vanardi e Tiburzio.

– Seguitate ad amare la patria. L'amore tanto è più nobile, quanto più si stacca dall'individuo ed allarga la cerchia della sua azione. Chi si sente di amare la patria, come altri ama la sua amante, è una delle anime più generose del mondo. Cristo amò così l'umanità e fu l'essere il più sublime e il più divino che abbia visto la terra. La patria avrà bisogno di voi; possiate dare esempio agl'Italiani di sacrificio, non solo della vita, ma dell'interesse, delle passioni, dei pregiudizi personali: di questi sacrificii hanno bisogno le nazioni per risorgere e farsi grandi: e di questi sacrificii temo gl'Italiani non troppo capaci. Virtù ci vuole, ed amore!.. Amatevi tutti. Amate que' poveri vostri fratelli costituiti nella perenne minor età dell'ignoranza, che formano la plebe. Amateli ed educateli – e date alle loro famiglie il pane e la sicurezza della vita…

Il respiro a questo punto gli mancò affatto. Fe' cenno che soffocava, e Giovanni Selva fu lesto a sollevarlo nelle sue braccia.

– Quanto a me: soggiunse con voce che appena si poteva udire: non obliatemi affatto… ed amatemi un pochino, anche morto… Io ho perdonato tutti e tutto… Domando che tutto e tutti mi perdonino… Ho sofferto molto, ed ho amato tanto!.. E non ebbi un'ora di gioia… L'avrò nell'avvenire… (Fece un ineffabile sorriso). Oh! se l'avrò!.. Vorrei parlare ancora… e non posso più… Sento un'onda di poesia divina che m'invade… Se la potessi esprimere!.. Voi bacierete la mia fronte, quando sarò cadavere… Essa albergò un'intelligenza… Date quest'addio ad una miserabil forma che si distrurrà per sempre… Addio! addio! addio!

Levò verso il cielo le sue pupille larghe, in cui correvano tratto tratto guizzi di luce simili a quelli d'una lampada che sta per ispegnersi, ed una inesprimibile aura di beatitudine gl'illuminò la faccia: egli vedeva innanzi a sè lo spirito protettore della sua vita.

– Sei tu, madre mia: esclamò con immenso affetto: tu che pur da morta, non abbandonasti il figliuol tuo nel mondo!.. Tu che ora mi chiami ed inviti!.. Vengo, vengo, vengo!.. Ecco la luce!.. Ecco l'etere!.. Ecco l'infinito!

Gettò un grido e ricadde di tutto il suo peso sulle braccia di Selva. Con quell'ultimo grido l'anima era fuggita da quell'infelice corpo tormentato.

Il domani una piccola, mesta schiera accompagnava al cimitero le spoglie di colui che fu nella vita terrena chiamato Maurilio. Quando la fossa in cui venne calata la cassa mortuaria fu ricolma di terra, Don Venanzio pronunziò sovr'essa le ultime preghiere, e gli amici del morto, credenti e non credenti nelle forme cattoliche, udirono con religioso rispetto, a capo scoperto, le solenni parole che colla voce tremolante del vecchio sacerdote acquistavano efficacia maggiore; poi, quando con una ultima benedizione, con un ultimo addio si staccarono da quella tomba, Mario Tiburzio, disse ai giovani traendoli in disparte:

– Ora conviene recarci colà, ad altri, ma men tristi addii. È giunta l'ora: venite.

Lasciarono tornar solo in città Don Venanzio, nella carrozza che il marchese di Baldissero aveva fatta allestire per lui; ed essi, passando traverso i campi, si recarono sulla strada che, passata la Dora sul ponte Mosca, si dirige verso la pianura di Lombardia. Si posero alla distanza di un centinaio di metri dall'ultima casa che si trovava al di là del ponte; e stettero aspettando, silenziosi, mesti e raccolti, dominati dalla solennità della scena di morte a cui avevano allora allora assistito, da quella eziandio del convegno a cui erano venuti. Dopo un poco, sulla strada deserta si udì il rumore di ruote correnti, e si vide venir da Torino una carrozza in posta al trotto serrato di due cavalli. Appena vide i giovani sulla strada, chi era dentro il legno, diè ordine al postiglione di fermare: ed aperto l'usciòlo, ne discese un uomo di alta statura, di nobile portamento, di faccia serena ed intelligente, di aspetto da militare insieme e da cavaliere; era Massimo d'Azeglio, verso cui i giovani s'affrettarono circondandolo con mostre d'affettuosa riverenza.

 

– Ho voluto darvi qui l'addio: disse il valente scrittore e patriota; per evitare ogni sospetto ed ogni sorveglianza della Polizia. Ci tenevo a stringervi le mani, bravi giovani, ed a lasciarvi per addio e per memoria di me alcuni consigli… no, dirò meglio, alcune preghiere. Credete a me: l'epoca delle congiure è passata: bisogna oggidì cospirare al bene della patria ed al progresso dell'umanità alla chiara luce del sole. Non si tratta d'uccidere il tiranno, ma di educare il popolo, ed anco i principi, e di elevare le masse. Per questo ci vuole la coraggiosa propaganda della pubblicità.

« – Carlo Alberto fa da senno, io ne sono persuaso; egli è con noi, è obbligato ad essere con noi; non attraversiamogli il cammino, e mettiamoci noi con esso lui.

Mario Tiburzio interruppe.

– Ella ha ragione, sor Massimo. Questi giorni ci ho pensato di molto a codeste cose, e mi sono convinto che per ora miglior mezzo per giovare all'Italia è farsi soldato di Carlo Alberto. Ho rinunciato al mio repubblicanismo (mandò un sospiro) e domani stesso vestirò l'assisa di soldato nell'esercito piemontese.

Massimo d'Azeglio gli strinse la mano.

– Ve ne lodo… Spero che ci troveremo un giorno nei campi lombardi a combattere, fianco a fianco.

– Vi ci troveremo tutti: esclamarono in coro gli altri con entusiasmo.

– Dio vi ascolti! Io ripiglio la mia giornata di messo della nuova rivoluzione. Possa trovar io per tutta Italia anime come le vostre.

Dopo i più cordiali salutari ed augurii, d'Azeglio risalì nella carrozza e continuò il viaggio verso Milano; i giovani stettero fermi guardando dietro quel legno che s'allontanava, finchè non lo videro più.

Quando giunse il 1848 Mario Tiburzio non fu il solo che prendesse parte alla guerra: si arruolarono eziandio Giovanni Selva, Romualdo e Francesco Benda. Povera sora Teresa! Anche questo dolore le doveva toccare: veder partire per la guerra il suo figlio dilettissimo, che solo erale rimasto in casa. Il padre di Francesco soffrì molto ancor egli, ma nell'attività del suo lavoro industriale a cui si diede con più alacrità di prima, nella robustezza maggiore della sua tempra aveva gli elementi da resistere meglio al dolore. La infelice Teresa, durante l'assenza del figliuolo, andava a calmare l'ansietà dei suoi timori ed a confortarsi colla preghiera, presso sua figlia, nel convento di Santa Chiara, dove ad ogni costo Maria aveva voluto vestire il velo, e consumare la sua giovinezza in una rassegnazione piena di speranza nella vita futura.

Ma giorni di gioia erano pur tuttavia serbati ancora alla famiglia dei Benda. Francesco, divenuto in breve capitano di cavalleria, decorato di due medaglie al valor militare, otteneva finalmente nel 1850 la mano di Virginia di Castelletto. La marchesa di Baldissero, che forse non avrebbe consentito mai a queste nozze, era morta: il marchesino Ettore viveva separato da suo padre, il quale, conosciutolo indegno del suo affetto, come del grado in cui il destino l'aveva fatto nascere, l'aveva scancellato dal suo cuore: il marchese padre si ricordava della promessa fatta a Maurilio moribondo.

Povero marchese! Ancor egli aveva dovuto pagare altro e crudelissimo tributo al dolore. Il secondogenito de' suoi figli, sul quale aveva concentrato la maggior parte del suo affetto paterno, morì a Goito di palla nemica; ed egli andando a prenderne il corpo per venirlo a seppellire negli avelli di famiglia, condusse seco il terzo ed ultimo dei suoi figli, perchè prendesse tostamente il luogo del morto nelle file dell'esercito al servizio del suo Re. Il primogenito intanto si occupava con zelo eroico di cavalli, di cani, di cortigiane e di giuoco.

Il conte e la contessa di Staffarda sparirono dall'orizzonte cittadino. Sparì la Zoe: nella tempesta rivoluzionaria fuggì il principotto suo mantenitore; Andrea morì in carcere; la vecchia Debora fu trovata nel sotterraneo di Macobaro, morta di fame; Barnaba fu nominato nel nuovo ordinamento della Polizia assessore di pubblica sicurezza in una città verso la frontiera orientale; Tofi fuggì innanzi alla luce della libertà, e corse a rimpiattarsi nel suo paesucolo, mangiando la sua giubilazione, sempre cupo, burbero, nemico dei liberali, segretamente ostile ai ricchi, devoto al Re.

Don Venanzio morì qual visse: da santo, e lo pianse tutta la popolazione del villaggio. Ora la sua modesta tomba è già coperta dalle erbe ed obliata.

Obliato del tutto non è ancora Maurilio. Alcuni di quelli che lo conobbero vivono tuttavia, e Giovanni Selva legge di quando in quando qualche pagina di quello scartafaccio in cui egli aveva effusa parte dell'anima sua: e il più spesso dopo quella lettura conchiude:

– Le sono pazzie di paradossi che domani forse diventeranno realtà.

FINE
4. Vedrassi in un altro romanzo in cui ricompariranno parecchi dei personaggi di questo, qual fosse questa vendetta, e come coll'aiuto di Barnaba la Zoe l'ottenesse.