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Il nome e la lingua

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From the series: Romanica Helvetica #142
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Capitolo secondo. L’Ottocento. Tra Lombardia e Svizzera

1. Stefano FransciniFransciniStefano e la lingua della Svizzera italiana
1.1. La riflessione sulla lingua: fonti e indagini

All’istituzione dello Stato cantonale, sotto il nome di Cantone Ticino era riunito un territorio che non aveva alcun legame politico interno da ristabilire, al contrario da secoli era frammentato da un antico e radicato spirito municipale.1 A differenza della vicina Lombardia, nella quale la cacciata degli invasori austriaci – che fungevano da guardie e giudici, che gestivano la cosa pubblica e la politica – aveva generato uno spirito comunitario, o perlomeno ne aveva creato i presupposti, nei baliaggi cisalpini gli svizzeri garantirono alle comunità autoctone ampi diritti di libertà. L’autonomia amministrativa e confessionale concessa dai cantoni confederati alla Lombardia svizzera fece sì che questa conservasse sostanzialmente inalterate le proprie antiche strutture. Di conseguenza le comunità di queste valli, organizzate sulla base di accordi comunali di tradizione medievale, si trovarono alle soglie del secolo XIX ancora slegate l’una dall’altra, senza alcuno spirito regionale o collettivo.

Con le opere di storia e di statistica pubblicate negli anni Venti e Trenta, FransciniFransciniStefano intendeva consolidare un sentimento cantonale unitario e smentire la presunta inferiorità etnica e amministrativa del Cantone Ticino, considerato profondamente e negativamente diverso rispetto al resto della Confederazione, in termini di arretratezza sociale, di immaturità politica e di povertà economica.2 La portata della sua riflessione non è però circoscritta entro i confini ticinesi. Con l’opera intitolata La Svizzera italiana (1837-1840) lo statista promuove infatti un’identità intercantonale, vincolata alla componente culturale e linguistica, che permette di mediare la distanza fisica, politica e sociale dei due territori implicati: il Cantone Ticino e il Grigioni italiano.3 Con un’intuizione ancora oggi attuale, FransciniFransciniStefano sostiene che nel nascente stato confederato questa aggregazione è necessaria, poiché solo come regione culturale una Svizzera italofona e italiana può legittimarsi a livello nazionale e difendere la propria autonomia e specificità.

La locuzione “Svizzera italiana” è impiegata più volte da FransciniFransciniStefano sin dalle pagine della Statistica della Svizzera (1827), un’opera di concezione liberale che rileva con metodo comparativo, quindi immediato e accessibile al lettore, la complessità topografica, etnica, culturale, politica e sociale della Svizzera.4 Ma è solo con l’opera maggiore, La Svizzera italiana, che la denominazione è connotata in maniera precipua.5 La prima attestazione del termine non spetta però a FransciniFransciniStefano, ma risale al secolo precedente e non è in lingua italiana. Come anticipato, a quanto mi risulta, l’autore che per primo ha impiegato questa espressione è l’avvocato ungherese Ladislaum EgyEgyLadislaum («republica Helvetico Italica») in un salvacondotto del 1779. Questa testimonianza era certamente ignota allo statista, che avrà invece letto i Beyträge zur nähern Kenntniß des Schweizerlandes del pastore riformato Hans Rudolf SchinzSchinzHans Rudolf (1745-1790), nei quali è impiegata la locuzione («Italienische Schweiz»). Nei Beyträge è inclusa una descrizione dei baliaggi italiani maturata durante un soggiorno biennale dell’autore a Locarno, fra il 1770 e il 1772, nella quale con rigore statistico sono indagate la situazione politica, culturale, economica e sociale del territorio. Anche in questo senso quella di SchinzSchinzHans Rudolf è un’opera che precede e fa da modello, con altre ricerche di questo taglio, alla Svizzera italiana di FransciniFransciniStefano.6 La denominazione usata da SchinzSchinzHans Rudolf è tuttavia diversa e non esaurisce il concetto proposto dal ticinese. Lo si verifica nel capitolo intitolato Grenzen der Italienischen Schweiz contenuto nel quarto quaderno, nel quale l’autore presenta l’inquadramento geografico della Svizzera italiana:

Sotto il nome di Svizzera italiana [ted. Italienische Schweiz] si intendono tutte le Comunità appartenenti alla Svizzera che si trovano sul versante meridionale della vetta delle Alpi e che a partire dal San Gottardo formano sulla carta geografica una lingua di terra che si incunea nel Ducato di Milano. Siccome tutte queste Comunità al di là della vetta delle Alpi, verso meridione e fino al Milanese, sono soggette agli Stati liberi della Confederazione svizzera, in quest’ultima vengono chiamate semplicemente ‘Baliaggi oltremontani’.7

Come documenta questo passo, la denominazione «Italienische Schweiz» impiegata nei Beyträge è circoscritta ai baliaggi italiani o transalpini, ovvero al territorio dell’attuale Cantone Ticino, e non include le valli italofone del Grigioni. Si tratta, in sostanza, di una denominazione pratica per indicare un territorio politicamente svizzero ma di geografia e cultura italiana: l’ordine degli elementi, ovvero la scelta di “ridurre” l’italianità dei baliaggi all’attributo, sarà forse da imputare alla prospettiva elvetica di SchinzSchinzHans Rudolf. Queste prime testimonianze non divergono dunque dalle più particolareggiate denominazioni geografiche presenti nei Beyträge («schweizerische Lombardey») o pochi anni dopo, nel 1800, nel Tagebuch einer Reise durch die östliche, südliche und italienische Schweiz dalla scrittrice danese Friederike BrunBrunFriederike («italienischer und piemontesischen Schweiz»).8

Un uso dell’espressione conforme a quello di EgyEgyLadislaum, di SchinzSchinzHans Rudolf e della BrunBrunFriederike, limitato cioè all’area del Cantone Ticino, si incontra anche nella Statistica della Svizzera e in altri scritti di FransciniFransciniStefano precedenti alla Svizzera italiana. Come detto, solo in quest’ultima il significato della denominazione è sviluppato nel senso politico-culturale oggi comune. Considerata la divergenza semantica, l’impiego del sintagma “Svizzera italiana” da parte di FransciniFransciniStefano potrebbe essere indipendente dall’esempio di SchinzSchinzHans Rudolf. Siamo tuttavia certi che il ticinese conoscesse dettagliatamente la bibliografia settecentesca relativa al territorio della Lombardia svizzera. Nella Svizzera italiana, infatti, FransciniFransciniStefano discute i contenuti di questi testi, soprattutto quando le descrizioni e le considerazioni proposte dagli autori sono a parer suo pretestuose e restituiscono un’immagine incongrua o caricaturale del territorio e delle comunità dei baliaggi. Nella Svizzera italiana, ad esempio, FransciniFransciniStefano contesta indirettamente alcuni brani inclusi nelle Lettere sopra i baliaggi italiani, parte di un più vasto e noto epistolario del bernese Karl Viktor von BonstettenBonstettenKarl Viktor von. Mosso da un «patriottismo illuminato», quest’ultimo era promotore di grosse riforme amministrative e in funzione di tale proposito sottopose a dure critiche il funzionamento del governo elvetico nelle prefetture italiane, che si trovavano per una questione “naturale”, di tipo etnico secondo il bernese, in uno stato di arretratezza rispetto ai confederati.9 Nel paragrafo bibliografico della Svizzera italiana FransciniFransciniStefano scrive, a proposito dei libri di BonstettenBonstettenKarl Viktor von, che «hanno molto sul nostro Cantone, ma non vanno scevri di errori».10 Così come non sono pacificamente ricevute le informazioni trasmesse nel Manuel du Voyageur en Suisse di Johann Gottfried EbelEbelJohann Gottfried, un medico e scrittore nato nella Slesia prussiana e vissuto tra la Francia, la Germania e Zurigo, dove uscì la guida consultata da FransciniFransciniStefano nell’edizione in lingua francese.11 Nella Svizzera italiana, in apertura al capitolo sui Costumi, si legge un paragrafo che bene sintetizza l’aspetto per certi versi anche polemico dell’opera:

Il BonstettenBonstettenKarl Viktor von, l’EbelEbelJohann Gottfried e più altri hanno fatto de’ nostri costumi un quadro ben fosco. A sentirli dire, noi siamo neghittosi e nemici del lavoro e dell’industria: noi inferiori a tutti gli altri popoli d’Elvezia in moralità e benessere: noi alloggiati peggio che in qualche luoghi della Svizzera tedesca, i maiali; noi non partecipi della sobrietà italiana né quanto al cibo né quanto alla bevanda: noi altrettanti miserabili.12

D’altro canto, non tutte le informazioni tràdite dalle descrizioni compilate nel Settecento sono contraddette da FransciniFransciniStefano, il quale, ad esempio, accoglie con favore alcune tesi proposte da SchinzSchinzHans Rudolf. Nella bibliografia della Svizzera italiana i Beyträge sono definiti un’opera «in quattro diversi fascicoli, pieni di notizie storiche, economiche e statistiche, e degnissimi di essere consultati».13 Oltre, forse, alla denominazione “Svizzera italiana”, FransciniFransciniStefano riceve positivamente le argute considerazioni linguistiche proposte dal pastore zurighese nel quarto quaderno dei Beyträge: probabilmente la più importante testimonianza linguistica esterna per quanto concerne la situazione della Lombardia svizzera nel secolo XVIII. In particolare, FransciniFransciniStefano impiega le informazioni contenute nel capitolo Cultur, Wissenschaft und Künste. Come suggerito da BianconiBianconiSandro, in questo passaggio SchinzSchinzHans Rudolf dimostra una sensibilità per le situazioni comunicative che sembra anticipare, pur senza un’impostazione teorica, le variabili della sociolinguistica moderna, ossia la diatopia, la diastratia e la diafasia:14

 

La loro conoscenza delle lingue non è molteplice. Fra di loro parlano un italiano corrotto e alterato, con espressioni regionali e dialettali del tutto incomprensibili per lo straniero; quando però sono in compagnia di forestieri, parlano in maniera molto più forbita, corretta ed elegante dei milanesi e dei piemontesi, e perfino i popolani sanno parlare in buon italiano, devono avvezzarcisi per farsi intendere meglio quando emigrano. Balivi e sindacatori comprendono questa lingua soltanto quand’è parlata correttamente; per comunicare con costoro nei frequenti rapporti con i tedeschi, gli indigeni devono applicarsi a parlare il tedesco e il buon italiano.15

FransciniFransciniStefano condivide senza riserve questa valutazione. Nella Svizzera italiana il paragrafo sul Linguaggio, collocato in apertura al capitolo dedicato allo Stato sociale, giunge alle stesse conclusioni e sembra, in larga misura, esemplato proprio sulla descrizione di SchinzSchinzHans Rudolf. Dapprima FransciniFransciniStefano asseconda e convalida la riflessione concernente la capacità del contadino ticinese di esprimersi in lingua con maggior eleganza e sicurezza dei campagnoli piemontesi e lombardi. In questo caso, l’informazione proposta da SchinzSchinzHans Rudolf e avallata nella Svizzera italiana, se considerata attendibile, ci informa di una diffusione secondaria dell’italiano che parrebbe superiore alle note stime proposte da DE MAURODe MauroTullio 1963 e CASTELLANICastellaniArrigo 1982:16

Generalmente parlando chi si rivolge in buon italiano a’ Ticinesi non del tutto idioti viene inteso facilmente; che anzi è stato osservato che il villico Ticinese si spiega italianamente con più franchezza e correzione, che non il villico Lombardo e Piemontese.17

Lo stesso brano è successivamente ripreso dall’autore nell’incompiuta Guida del viaggiatore nella Svizzera italiana del 1857, che a distanza di quasi un secolo dalla descrizione trasmessa nei Beyträge di SchinzSchinzHans Rudolf riporta una considerazione sui comportamenti linguistici dei ticinesi in parte ridimensionata. A questo proposito mi sembra più economico supporre una riconsiderazione critica delle informazioni trasmesse dalla fonte, prima entusiasticamente accolte, rispetto allo svolgimento da parte di FransciniFransciniStefano di un’indagine personale sulla situazione e al conseguente rilevamento di un’involuzione delle competenze linguistiche della popolazione:

Che rivolgendo la parola in italiano (o come si suol dire in toscano) chichessia, se non sia ben zottico e quasi idiota, intende mediocremente bene; ma nel rispondere usa per solito del vernacolo o dialetto locale, riesce quindi assai difficile pel forastiero l’intendere ecc. Instare perché la risposta sia data per quanto sia possibile in italico comune più o meno corretto.18

Pur senza un esplicito riferimento, il primo passo citato si serve dell’ipotesto settecentesco come fonte attendibile, accolta acriticamente nell’argomentazione. Nel paragrafo dedicato al Linguaggio FransciniFransciniStefano si rifà infatti a una misteriosa notazione anteriore: il fenomeno linguistico descritto – scrive l’autore – «è stato osservato» in precedenza. È stato osservato molto probabilmente da SchinzSchinzHans Rudolf, che ribadisce il concetto anche alla fine del secondo quaderno dei Beyträge. Infatti, nel paragrafo intestato Der Stadt Bellenz, concernente la città di Bellinzona, un analogo commento è esteso alla popolazione dei borghi: «La lingua degli abitanti è italiana quanto o anche meglio che a Milano, perché ci vengono parecchi tedeschi a impararla e molti forestieri passano di qui, e quindi le persone distinte e gli osti si sforzano di parlare correttamente».19

Non diversamente dall’esempio appena menzionato, nella Svizzera italiana di FransciniFransciniStefano è accolta anche la valutazione relativa alla sensibile influenza dell’emigrazione sulla situazione linguistica dei baliaggi italiani proposta da SchinzSchinzHans Rudolf nel ventesimo capitolo dei Beyträge. Secondo il ticinese, sulla scorta della descrizione settecentesca, i flussi dell’emigrazione stagionale o permanente hanno determinato nelle parlate delle valli alpine e prealpine della Svizzera italiana l’assimilazione di cadenze e di lessico provenienti dalle città dove gli abitanti della regione erano soliti trasferirsi per trovare impiego come cioccolatai, lapicidi, artigiani, architetti, stuccatori e altro:

L’emigrazione influisce nelle varietà dei nostri dialetti; e secondo che essa preferisce la Lombardia, il Piemonte, il Veneziano, Roma, la Toscana, se ne risente il parlare e nelle voci e nelle cadenze […] In alcune terre del locarnese, che mandano in copia operai e giornalieri a Livorno e in qualche altro luogo della Toscana, è frequente l’udir sulla bocca del contadino e dell’operaio il grato accento toscano.20

Le osservazioni relative alla mescolanza linguistica originata dalle dinamiche migratorie e dalla necessità pratica di apprendere una lingua sovraregionale per gli emigranti sono ineccepibili e comprovate dagli studi storico-linguistici più recenti.21

Le miserie e la povertà della vita nella Lombardia svizzera favorirono la mobilità di queste comunità. Sin dal Medioevo, con i picchi di maggiore intensità tra il Cinquecento e Seicento, l’emigrazione di lavoratori qualificati si estese ai centri cittadini di tutta Europa. Questa dinamica originò degli intensi scambi epistolari con le famiglie lontane e rese necessaria la redazione di documenti personali di vario tipo (almeno economico, lavorativo e diaristico), che presupponevano un’alfabetizzazione di base. Inoltre, ai migranti nei centri cittadini italiani si presentava il problema pratico del capire e del farsi capire, per il quale era necessaria una soluzione linguistica condivisa. Al maggiore studioso della storia linguistica ticinese, il già citato Sandro BianconiBianconiSandro, si deve la ricostruzione del peculiare assetto linguistico dei migranti della Lombardia svizzera nell’Italia sei-settecentesca. Dallo studio delle lettere di questi individui, conservate in grande quantità negli archivi ticinesi, emergono i tratti di un italiano che lo stesso BianconiBianconiSandro chiama popolare o semiletterato. La lingua, cioè, di chi possedeva nonostante tutto un livello d’istruzione elementare ma non aveva competenza attiva del latino e affinava la propria capacità di esprimersi per iscritto accedendo a una lingua «di base “grammaticale” italiana con forti coloriture fonetiche e lessicali regionali».22 Ossia un italiano precocemente, seppur imperfettamente, allineato alla lingua comune di matrice letteraria. La necessità della popolazione migrante di potersi servire della lingua scritta, dunque di acquisire un’alfabetizzazione di base, è soddisfatta a partire dalla metà del secolo XVI dalle chiese cattolica e riformata. La diffusione delle scuole nel territorio della Lombardia elvetica è dovuta da un lato alla richiesta civile e laica d’istruzione, necessaria per far fronte ai bisogni pratici legati all’emigrazione e all’autogoverno delle comunità; dall’altro è funzionale ai progetti di cristianizzazione della chiesa romana nei baliaggi italiani e del protestantesimo riformato nei territori grigioni.23

Le osservazioni su questo aspetto della situazione linguistica nella Lombardia svizzera proposte da SchinzSchinzHans Rudolf e avallate in pieno Ottocento da FransciniFransciniStefano sono confermate da alcuni documenti redatti nei secoli precedenti. Ad esempio, l’arciprete di Locarno Francesco BallariniBallariniFrancesco, descrivendo gli insediamenti sulle sponde occidentali del Lago Maggiore, nel suo Compendio delle croniche della città di Como, pubblicato nel 1619, anticipa le considerazioni relative all’entrata nella lingua locale del lessico e della pronuncia caratteristica dei luoghi nei quali erano tradizionalmente impiegati gli emigranti della regione:

Il Lago Verbano […] dal vocabolo latino Verbum, che significa la Parola, over’ il Parlare: né senza ragione, per ch’essendo alla sua rippa (alla forma de gl’altri) edificati molti Borghi, Terre, & Villaggi, oltre l’evidente diversità del vivere, vestire & altri costumi, hanno similmente un’evidentissima varietà di parole, & pronuntie, che par’ a ponto, che formi ciascuna di quelle un nuovo, & particolare modo di parlare: né sia meraviglia, quandochè buona parte de gl’habitatori si conferiscono per negotij a diverse parti dell’Italia, & ritornando dopo qualche tempo alle case loro, ne riportano tante varietà di parlari, il che chiaramente si scorge nella terra di Ronco d’Ascona, dove per la gran prattica da quel Popolo tenuta nella Città di Fiorenza, parlano Toscanamente non solo quelli, ch’hanno colà conversato, ma etiando molte donne, & fanciulli, quali non uscirno mai da detta sua Patria.24

Un’ulteriore testimonianza indiretta della padronanza della lingua toscana nelle valli prealpine della Lombardia svizzera, che suggerisce inoltre una consapevolezza della variazione e delle competenze linguistiche diverse in funzione dell’età, ci è trasmessa da una lettera di Giovanni BassoBassoGiovanni, prevosto di Biasca, scritta il 30 dicembre del 1614 a Cesare PezzanoPezzanoCesare, canonico di S. Ambrogio in Milano:

È gionto prete Antonio BulloBulloAntonio a Claro la sera avanti la vigilia di Natale, quale è tanto consumato nella lingua tosca, che non è inteso, se non da’ grandi.25

Parallelamente all’influenza esercitata sulla lingua locale dalle dinamiche migratorie, nella disamina sul Linguaggio della Svizzera italiana è rilevata da FransciniFransciniStefano la presenza di elementi alloglotti nel lessico regionale, eredità dell’epoca balivale e degli intensi contatti propiziati dal valico del Gottardo. La permeabilità del tedesco sul dialetto e sul lessico giuridico dei baliaggi e del Cantone, auspice la prossimità geografica, risulta particolarmente rilevante nell’alto Ticino:

In Leventina è sensibile in più parole il quotidiano traffico cogli uomini della Svizzera Tedesca. La dipendenza di tre secoli dai signori Svizzeri ci lasciò qualche reliquia in alcune denominazioni politiche.26

Anche questa caratteristica è constatata con largo anticipo da SchinzSchinzHans Rudolf. Nel secondo fascicolo dei Beyträge, nel paragrafo dedicato agli abitanti della Leventina (Charakter der Livener), lo zurighese sostiene infatti che «la loro lingua è un pessimo italiano corrotto, misto di diverse parole tedesche storpiate, e che risulta del tutto incomprensibile al tedesco che abbia imparato l’italiano sulla grammatica»; sul topos del “cattivo italiano” parlato nella regione si tornerà nel secondo capitolo con agio maggiore.27 La considerazione sull’interferenza lessicale proposta nel brano citato è documentata nella Svizzera italiana mediante una tabella che illustra l’influsso della lingua tedesca sul dialetto regionale. Un dialetto di koinè, appunto, identificato genericamente come «ticinese», fatte salve alcune voci peculiari della Leventina:


Ticinese Tedesco svizzero Significato
Alp Alpe Pastura sulle più alte montagne
Fogn (lev.) Föhn Vento del sud-ovest (favonio)
Chuss Gugsete Pioggia mista con neve (tormenta)
Chilibi Kilbe Festa del patrono della parrocchia o chiesa (sagra)
Luina, slavina Lauine Vallanca, avallanca
Pizocan (lev.) Bizokel e Pazokel Gnocchi
Colma Gulm, Kulm, cuolm Cima, vetta (lat. culmen)
Sniz Schnitz Pome o pere sia verdi sia secche affettate
Scoccia Schotten Siero da cui si è cavata da ricotta
Zuffa Züffi Siero con entrovi ricotta molle
Trölar (lev.) Trohler Uomo dedito al litigio
Trocla Trückli Cassa da merciadro, vetraio, ecc.
Vebal (lev.) Weibel Usciere del Tribunale
Zigra Zieger Ricotta, mascarpa
Snidar Scheider Sarto
Scribar Schreiber Scrivano, segretario
Snéllar Schneller Facchino
Lostig Lustig Allegro, gioioso
Tunar Thuner

Questa esile raccolta lessicale testimonia, come altri lavori di FransciniFransciniStefano, l’acribia dello studioso. Alla verifica nello Schweizerische Idiotikon le corrispondenze in lingua svizzero-tedesca indicate nella tabella trovano rispondenza, con alcune minime oscillazioni nella resa grafica.29 Al contrario, la distribuzione geografica dei termini catalogati appare comprensibilmente meno nitida all’estensore. Secondo quanto documentato dai moderni sussidi lessicografici, le rispondenze lessicali che trovano un riscontro pan-ticinese sono esigue: alp (RID, 1: 79, s.v.); chilibi (LSI, 1: 781, s.v.); slavina (LSI, 3: 113, s.v. lavina; per il quale il tedesco media la radice latina >LABINA REW 4807); colma (RID, 2: 530, s.v.; come la precedente dal latino >CULMEN REW 2377); zuffa (RID, 2: 349, s.v.). E tra queste si annovera anche pizocan (LSI, 4: 38, s.v. pizzocan), indicato dallo statista come specifico della varietà leventinese. Fatta salva quest’ultima eccezione, le occorrenze indicate come peculiari della Leventina risultano tali: fogn (in forma composta aria fógna, RID, 1: 481, s.v. favonio); trölar (limitatamente a Dalpe per ‘stupido, ignorante’, LSI, 5: 631, s.v.); e vebal (RID, 2: 715, s.v. usciere). Oltre a queste, anche molte delle voci prive di specifica geografica sono invece esclusive della varietà lepontina o del lombardo alpino: chilibi (LSI, 1: 781, s.v.); scoccia, nelle forme scossín a Corzoneso e scussina a Olivone (RID, 2: 349, s.v. ricotta); Trocla (LSI, 5: 630, s.v. tröcli); Snidar (RID, 2: 412, s.v. sarto); Scribar e Landscribar, diffusi dalla Leventina sino a Bellinzona (RID, 2: 467, s.v. scrivano); snéllar, in uso in Leventina e Poschiavo (RID, 2: 266, s.v. facchino); lostig, nella variante lughíd attestata a Quinto e Airolo (RID, 1: 74, s.v. allegro); tunar, nelle forme tünaréll a Calpiogna e tünarett a Biasca, nonché più diffusamente in Leventina (RID, 1: 546, s.v. garzone). Le tre voci rimanenti sono testimoniate a livello regionale ma non cantonale, sono infatti documentate nella parte settentrionale del territorio, a nord del Monte Ceneri: chuss (LSI, 2: 161, s.v. cüss); sniz (LSI, 5: 83); zigra (RID, 2: 349, s.v. ricotta). A riprova dell’origine leventinese dei termini censiti, nel repertorio di Vocaboli di Leventina, raccolti e comunicati da FransciniFransciniStefano a CherubiniCherubiniFrancesco verso la metà degli anni Venti, si leggono tutte le voci incluse nella tabella, indicate in modo non sistematico e disomogeneo come derivate dal tedesco o dallo svizzero tedesco, secondo una distinzione che risulta apparentemente fallace; l’unica eccezione è la voce snéllar, non inclusa nel manoscritto. Al contrario, alcuni lessemi presenti nel vocabolarietto, benché utili alla dimostrazione del fenomeno, non sono compresi nella schedatura pubblicata in Svizzera italiana: ad esempio, non è incluso il termine garbar/gherbar per ‘conciapelli’ (dal ted. Gerber o svi. ted. Gärber).30

 

La sensibilità e l’interesse di FransciniFransciniStefano per il lessico dialettale si manifestano anche in capitoli irrelati dall’argomento più strettamente linguistico, nei quali sono proposti alcuni appunti lessicologici alla spicciolata, quasi sempre in nota a lato dell’argomentazione.31 Nel brano sul Clima, ad esempio, sono chiosate a piè di pagina due voci vernacolari derivate dal tedesco, le quali sono successivamente raccolte nella tavola trascritta sopra (con alcune incongruenze o variazioni di forma):

Tormenta presso gli Svizzeri tedeschi val Gugsen; e presso de’ Leventini, del tutto alla tedesca, Cuss. Quindi cussà o cussè, vale esserci tormenta.

Valanga, nel tedesco Svizzero Laauwine: ne’ dialetto Ticinesi dove luvina, dove slavina. Oltra Ceneri chiamasi Slavina qualunque scoscendimento o frana.32

Non risulta però sistematica l’inclusione nella lista sopracitata dei vocaboli chiosati al margine dell’opera. Ad esempio, discutendo l’abbigliamento delle donne nell’alto Ticino, FransciniFransciniStefano indica che «le Leventinesi han quasi abbandonato l’uso di acconciarsi il capo con que’ rilevati ordigni alla tedesca, a foggia di piccola corona, che nomano pur tedescamente capli o chiepli (ted. Schäppeli)», accertando un vocabolo di origine transalpina non censito nella tabella.33 Non diversamente, nel capitolo sulle Acque è vagliata, assieme ad altri termini dialettali, la voce bronn per ‘sorgente’ (dal ted. Brunn). La stessa non è però successivamente inclusa nello schema trascritto sopra:

I Ticinesi danno spesso il nome di fiume a tutte le acque perenni alquanto grosse, le quali chiamano pure rii, rià, cioè rivo, o rio: chiamano roggia l’acqua incanalata per mulina ed altri opifici: e bui e fontana le sorgenti, alcuni anche bronn dal Brunn de’ Tedeschi. Froda è cascata d’acqua.34

Da ultimo, FransciniFransciniStefano menziona due termini vernacolari provenienti dal tedesco, assenti nel paragrafo sul Linguaggio, all’interno del capitolo relativo alla Costituzione degli abitanti della Svizzera italiana:

Tra noi il cretino o idiota chiamasi nar, forse dal tedesco narr, stolto, stolido, demente. Del vocabolo orci donde si legge nell’AmorettiAmorettiCarlo e nell’EbelEbelJohann Gottfried, a noi non venne fatto di rinvenire la minima traccia.35

Già nei Vocaboli di Leventina l’autore si interrogava sull’origine tedesca del termine nar: il fatto è parlante a proposito della staticità della ricerca lessicografica fransciniana nel decennio precedente la pubblicazione del volume Svizzera italiana. La voce dialettale orci, sconosciuta a FransciniFransciniStefano e taciuta nel paragrafo dedicato agli Idioti nella Statistica della Svizzera, è effettivamente chiosata da AmorettiAmorettiCarlo nella sua cronaca del Viaggio da Milano ai tre laghi Maggiore, di Lugano e di Como e ne’ monti che li circondano, consultata dallo statista nell’edizione del 1824: «Presso Bellinzona, il cui piano chiamavasi anticamente i Campi Canini, si cominciano a vedere gli uomini col gozzo, e sovente stupidi, malattia ordinaria delle valli basse, calde e paludose. Qui chiamansi Orci, voce che talun vuole esser una provenienza di Hirci (Caproni)».36 Tuttavia, assente nella prima redazione del 1794, il passo potrebbe essere esemplato sull’omologa considerazione di EbelEbelJohann Gottfried, inclusa nel primo volume del Manuel du voyageur en Suisse, che legge: «Les habitans des vallées situées audessus de Bellinzone sont sujets aux goîtres; ces excroissances sont connues dans le pays sous le nom d’orci».37 Infine, ed è il fatto che più ci interessa, la voce entra nella seconda edizione del Vocabolario milanese-italiano di CherubiniCherubiniFrancesco, forse mediata dall’opera di AmorettiAmorettiCarlo posseduta dal dialettologo nell’edizione del 1817, come testimonia la bibliografia del Vocabolario patronimico italiano, o forse sulla scorta dell’appunto presente nella Svizzera italiana.38 Come si dirà meglio più avanti, nell’editio maior del suo Vocabolario milanese-italiano CherubiniCherubiniFrancesco estende i limiti della ricerca oltre i confini urbani di Milano. Nel terzo volume del dizionario trova allora spazio la voce órc, seguita dalla chiosa: «Cretino. Gozzuto. Così chiamasi nei monti di Bellinzona chi ha da natura quei difetti che lo fanno il riscontro del Crétin o del Goîtreux delle Alpi savojarde».39 L’uso del termine nel Ticino è confermato dai repertori moderni, che circoscrivono al bellinzonese l’impiego di òrch, con occlusiva finale e quindi variante di ‘orco’: hapax semantico per «gozzuto, cretino».40