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Gioia!

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– Che ne direste, caro Orco, se gli dessimo il vostro nome? Mi pare che nello sguardo.... e forse nel carattere.... assomigli un poco a voi. Potremmo chiamarlo «Giosuè Cavallo», per distinguerlo da «Giosuè Poeta».

Carducci tornò di buon umore. – Sta bene, – disse. – E adesso basta. Io devo trovarmi alle quattro col marchese Visconti Venosta a visitare il Castello Sforzesco.

E con un breve gesto di saluto se ne andò.

Il professore mi salutò anch'esso frettolosamente, e lo seguì.

E io?… E il cavallo?… Dove l'avrei portato? Che cosa ne avrei fatto? Ero ospite in casa della mia cara amica, signora Luzzatto, che abitava un piccolo appartamento in via Borgo Spesso. Mi vedevo, io, arrivare alla sua porta con quel cavallo!… Spiegai al cavalier Rossi la situazione, ed egli fu gentilissimo; si offrì di tenerlo al Tattersall finch'io non avessi trovato una scuderia conveniente. Avrei semplicemente pagato la pensione. Un'inezia! Dodici lire al giorno.

Dodici lire al giorno! Una specie di formicolìo mi percorse, fermandosi soprattutto nelle mie ginocchia.... Dodici lire al giorno!

Mio padre mi mandava un assegno di duecento lire al mese; e ogni qualvolta passavo un mese in villeggiatura o all'albergo, per tre mesi non avevo più nulla. Allora andavo a rinchiudermi in campagna in casa di mio fratello dottore; oppure, come ora, mi rifugiavo dalla signora Luzzatto e stavo un po' di tempo con lei.

Corsi subito in via Borgo Spesso. Arrivai pallida e stravolta.

– Che cos'hai? – esclamò con ansia la dolce signora.

– Ho un cavallo! – balbettai. – Un cavallo nero, grandissimo, balzano da tre.

– Riposati un poco, – disse la signora Emilia, con dolcezza ferma. – Mettiti subito a letto.

E vidi che andava verso l'armadietto delle medicine per cercare il termometro clinico.

La convinsi, con qualche difficoltà, che non deliravo. La pregai anzi di venire a vedere Giosuè Cavallo; ma ella, che aveva di tutte le bestie e in ispecial modo dei cavalli un'invincibile paura, non ne volle sapere.

– E che cosa ne farai? Dove lo terrai?

– Non so.... non so, – balbettai smarrita. – Non crede che.... l'onorevole Riccardo.... forse.... saprebbe dove metterlo?

– Mio marito?

– Sì. Potrebbe anche montarlo qualche volta, se volesse.

La signora Luzzatto alzò gli occhi al cielo.

– Meglio non parlargliene, – disse.

E non gliene parlai.

La mia vita fu allora tutta subordinata a Giosuè Cavallo. Volevo stare in città? No; dovevo andare in campagna perchè Giosuè Cavallo ci stava meglio e costava di meno. Volevo restarmene tranquilla? No; mi toccava andare di qua e di là, per monti e valli, al trotto e al galoppo, per passeggiare e disciplinare Giosuè Cavallo (che se stava due giorni in scuderia diventava una belva). Volevo fare un viaggio a Londra a vedere mia sorella? Impossibile lasciare Giosuè Cavallo; e ancora più impossibile condurlo con me. Mi affondavo sempre più in difficoltà finanziarie per far nutrire, albergare, governare Giosuè Cavallo.

Tutte le mie conoscenze mi consigliavano, chi una cosa chi l'altra.

– Bisogna renderlo. Bisogna venderlo. Bisogna dirlo a Carducci.

Renderlo? Venderlo? Mai!

Dirlo a Carducci? A che pro? Relativamente povero anche lui, – che cosa avrebbe potuto fare? E poi egli era così felice di avermi fatto questo regalo, che per niente al mondo avrei voluto dargli un simile dispiacere. Subito, il giorno seguente alla compera, egli aveva voluto vedermi cavalcare all'aperto. Andammo sui bastioni ed io gli passai davanti a galoppo molte volte. Egli era raggiante.

– È bello Giosuè Cavallo, – diceva.

– Io vado a Legnano, – soggiunse, – domattina, in carrozza col prefetto. Potrai venire anche tu; a cavallo.

Così feci. Nell'amazzone presa a prestito dal Tattersall, issata a sommo di Giosuè Cavallo negro-splendente al sole, trottai e galoppai ora davanti, ora dietro, ora a fianco della carrozza, a grande soddisfazione di Carducci e divertimento del prefetto.

La strada era lunga – trenta chilometri! – ed era dura al trotto rigido del morello; dopo un'ora circa io sentivo già ogni singola vertebra della mia spina dorsale, e avevo il torcicollo e un crampo indescrivibile nel braccio sinistro. Giosuè Cavallo non andava mai al passo. Neppure per un istante cessò dal suo trotto rigido e sobbalzante se non per mettersi a quel caracollante trottigno, quasi un passo di danza, così bello a vedersi e così estenuante per chi è forzato ad eseguirlo.

Ma dalla carrozza Carducci mi guardava con un sorriso pacato e soddisfatto; e chiudendo i denti sul labbro repressi le mie sofferenze.

Nulla ricordo del breve soggiorno a Legnano; certo all'indomani mattina stavo abbastanza bene per escogitare delle sciocchezze; così, allorchè Carducci e il prefetto furono scesi nel vestibolo, mi feci portare dal cameriere della legna in fascina, e rompendola a pezzetti ne riempii la valigia di Carducci. Accadde poi che, a metà strada del ritorno, volendo egli mostrare al prefetto certi suoi appunti, aprì la valigia, e il «ricordo di Legnano» che io gli avevo preparato gli si presentò agli occhi.

– Ma come? Ma questa non è la mia valigia! Che cos'è tutta questa legna? – esclamò Carducci incollerito.

Allora al galoppo precedetti sempre di gran tratto la carrozza, e voltandomi scorgevo Carducci feroce che, aiutato dal prefetto, buttava via i pezzetti di legno sparsi tutt'all'intorno.

– Se tu mi fai ancora di codeste stoltezze, – gridò Carducci appena fui a portata della sua voce, – bada bene che ti porto via il cavallo. – Ma la sua ira non mi impressionò troppo. Visto che per lo più quelli che lo avvicinavano – intimiditi dal suo cipiglio o dalla sua grandezza – mantenevano intorno a lui un'atmosfera di gravità e soggezione assai noiosa, credo che, in fondo, le mie monellerie lo riposassero da tanta grigia solennità. Quanto alla minacciata punizione di portarmi via Giosuè Cavallo, certo nulla lo avrebbe più stupito, o addolorato, che se io gli avessi detto: – Sì, sì! Portatemelo via; esso rappresenta per me sotto ogni rapporto una bestia nera!

Me ne guardai bene. Ed egli ripartì per Bologna convinto di avermi fatto il più meraviglioso dei doni; soddisfatto di sè, di me e di Giosuè Cavallo; felice di aver speso così bene – lui, che non era nè ricco nè prodigo – una così importante somma.

Dopo tre mesi Giosuè Cavallo mi aveva completamente rovinata. Per lui mi arrabattavo in una continua ricerca di denaro; per lui mi guastai coi miei parenti più cari a cui chiedevo costantemente denari in prestito; per lui annunciai sulle quarte pagine dei giornali che davo lezioni d'inglese, tedesco, francese, italiano, di pianoforte, chitarra e canto. Il suo baldo passo caracollante mi conduceva, smarrita, dai neri abissi della disperazione alle verdi vette del monte di Pietà.

E per lui io nutrivo quel sentimento complesso fatto di passione e d'ira, di angoscia, d'amore e d'esecrazione che si prova per chi ci costa molto dolore, molte umiliazioni e molti denari.

Egli prosperava, superbo, prepotente, lucente, facendo i passi sempre più alti, sempre più sdegnoso di toccare la terra. Ed io lo guardavo, spaurita e rapita, e sognavo di balzargli in arcione un giorno e via! a carriera, traverso monti, valli e frontiere, fino a giungere ad una certa rupe gigantesca che sovrasta la Via Mala – da Carducci amata e cantata – ed ivi precipitarmi con lui nella voragine....

 
«Dammi dunque, apollinea, fiera, l'alato dorso
Ecco, tutte le redini io ti libero al corso....
O indòmito destrier,
Voliam, sin che la folgore di Giove tra la rotta
Nube ci arda e purifichi, o che il torrente inghiotta
Cavallo e cavalier.»
 

Perchè non lo feci! Sarebbe stato un gesto degno di lui e di chi me l'aveva dato. Forse non ero degna io di una fine così gloriosa. Disertai. Come quegli amanti che dicono: «Moriamo insieme», e poi al supremo passo l'uno vilmente si ritrae, così io lanciai solo nella morte Giosuè Cavallo invece di balzare grandiosamente nel buio con lui.

Volli che morisse? Non lo so; nè voglio oggi ricordare la folle catastrofe che lo spezzò, e che portò me pure vicino alla morte. In ciò ch'io feci ebbi coraggio e viltà.

Ma la viltà maggiore fu che non osai dirlo a Carducci.

Sapevo che gli avrei dato un vero e grande dolore. Egli mi scriveva ora – più sovente del solito – per domandarmi notizie di Giosuè Cavallo.

«Mi piace pensare che è tua quell'apollinea fiera. Mi piace pensare che ho potuto farti un dono così bello. In cima alla mia mente sta l'imagine tua e sua, lanciati al galoppo, ondeggianti la nera criniera e le tue lunghe chiome al vento.... Così, o Loreley pellegrina, sei volata fuor della veduta mia».

Io aborro ed esecro la menzogna. Tutto mi sembra comprensibile e perdonabile all'infuori dell'inganno. Ebbene, io allora – credo di poter dire che questa fu l'unica volta! – ho mentito e ingannato. Alle sue domande rispondevo brevemente, evasivamente, ma non avevo il coraggio di dirgli la verità.

Un giorno mi annunciò prossima una sua visita.

Tremai. Scrissi che dovevo recarmi subito a Napoli. Mi pareva assai lontano.

Ma Carducci ne fu contento.

«Via, dunque, bionda di cavalli agitatrice, a riva più cortese!».

Anch'egli sarebbe venuto tra breve per un sol giorno laggiù, onde salutare una regale Amica, e vedermi passare, sull'azzurro sfondo del Mediterraneo, lanciata a volo «sulla fiera gentil».

Allora, giunta a Napoli confidai la mia angoscia a un poeta – Arturo Colautti – che era venuto a trovarmi. Lo pregai di andare incontro a Carducci e dirgli subito la verità.

Non volle; non osò.

Un ufficiale ch'era con lui mi disse:

– Perchè dargli quel dispiacere? Troveremo un cavallo che per un'ora personifichi il tenebroso corsiero da lui regalato.

 

Allora fu per tutta Napoli un febbrile cercare di cavalli neri. (Se ne ricorderà forse ancora quell'ufficiale – Maggiotto, allora capitano dei bersaglieri; oggi solennemente installato nel Ministero della Guerra. E il marchese Lillo Catalano.... e il conte Bruno Torri....). Davanti al balcone della casa in strada Caracciolo dove io avevo preso alloggio, fu uno sfilare di foschi corridori: di morelli grandi e grossi, di morelli lunghi e magri; di morelli ombrosi e morelli generosi, di morelli con balza e senza balza.... Ma nessuno – ah! nessuno – che assomigliasse a quello donatomi dal poeta.

La scelta cadde finalmente su di uno portatomi da Maggiotto.

Il cavallo si chiamava «Ras Alula»; era nero, era grande, era balzano da tre. Ma qui la somiglianza cessava. Ras Alula era un mite, era un remissivo, un rinunciatario, un vinto della vita. Per quanto io lo molestassi con morso, scudiscio e tacco per animarlo, per farlo inalberare come soleva il mio nobile corsiero, Ras Alula scoteva la testa placidamente, partiva a un piccolo trotto, e se a furia di strappi e strapponi, di frusta e sperone riuscivo a farlo galoppare, si dimenava nel molle movimento d'una sedia a dondolo, con pendula coda e testa ciondolante.

Io ero disperata.

– Non si sgomenti, – disse Maggiotto, lisciandosi la barba nera e fissando lo sguardo, più focoso assai che non quello del suo cavallo, sul mite e gigantesco Ras Alula. – Ci penso io.

E ci pensò. Appena annunciato l'arrivo di Carducci alla Villa, io che aspettavo, già troneggiante sul titanico e quiescente Ras nel cortile di via Caracciolo, vidi arrivare di corsa Maggiotto col suo attendente. Maggiotto afferrò la redine, mentre il soldato passava dietro la groppa del cavallo.

Sentii un improvviso fremito percorrere la bestia, che nitrì, e tirò un violento calcio.

– Ma che cosa gli fate? – gridai.

– Niente, niente, – rise Maggiotto; – un po' di zenzero sotto la coda! – E abbandonò la redine mentre il soldato balzava indietro.

L'effetto dello zenzero fu magico. Ras Alula si impennò, fremente, annaspando l'aria, rizzandosi quasi volesse rovesciarsi all'indietro. Cedetti le redini e con una scudisciata sulla testa lo richiamai; allora, tuffando il capo, partì forsennato, battendo scintille dai ciottoli del cortile, scivolando sul selciato, lanciandosi a carriera per la passeggiata di Chiaia.

Così, a volo, passai davanti a Carducci, che tra un gruppo d'altre persone, era fermo all'angolo della Villa ad aspettarmi; ebbi solo per un attimo la visione della sua faccia alzata a guardarmi – e odiai Ras Alula, e Maggiotto, e la vita.... e più di tutto odiai me stessa, che recitavo questa vile, questa ignobile menzogna. Con frusta e sprone aizzai la bestia già frenetica che come una folgore infilò la strada lungo la marina.

Ed ecco a un tratto, ancora lontano davanti a noi, un brillìo d'argento e di rosso vivido – era la carrozza reale, era Margherita preceduta dai suoi staffieri, che faceva con regale dignità la sua consueta passeggiata a mare.

Allora con quanta forza avevo tirai le redini: bisognava rallentare la corsa, per non raggiungerla, sopratutto – imperdonabile violazione d'etichetta! – per non oltrepassarla.

Ras Alula non obbedì, non sentì; aveva il morso tra i denti e andava come il vento, pazzo, cieco, frenetico. Invano con strappi alternati tirai e cedetti le redini, invano strappai a destra e poi a sinistra, segandogli la bocca.... la bestia in furore continuò la sua corsa! Fu miracolo se, con uno sforzo che quasi mi slogò i polsi, riuscii a farlo deviare quanto era necessario per non andarci a fracassare contro l'equipaggio reale.

In un fulmine passammo dinanzi alla Regina: ella deve aver visto, come un lampo nero e villano, comparire e sparire le mie esili spalle e la coda sbandierante dell'insano Ras Alula....

Allora più che mai sentii di aborrire tutto e tutti e avrei voluto lanciarmi dalla sella a capofitto nel mare.

Quando fummo all'altezza della chiesa di San Ferdinando, Ras Alula subitamente si calmò: sulla via traversa fece due o tre scivoloni, salì sul marciapiede come se volesse entrare nella chiesa.... e si fermò ansimante, coperto di schiuma.

. . . . . .

Allorchè trovai finalmente il coraggio di scrivere a Carducci che Giosuè Cavallo non era più mio.... che non era più di nessuno.... egli non rispose. Nè so che cosa abbia pensato.

I casi della vita mi trassero lontano. Quando, dopo molti anni, rividi Carducci nè io osai rammentarglielo nè lui me ne parlò.

. . . . . .

Oggi nella Villa di Napoli, al posto dove in quel giorno vidi alzato verso di me il suo viso fiero, c'è un rigido busto di marmo che porta il suo nome.

E che non gli assomiglia.