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Gioia!

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– Strano a dirsi, quasi tutte le «Amatrici» preferirebbero appartenere alla categoria delle «Amate....» ed hanno torto.

– Hanno torto? – esclama Dora. – Perchè?

– Mia cara, la felicità della donna più amata che amante, è apparente più che reale. Non è forse più felice l'artista che il suo modello? Non dovremmo noi preferire all'inerzia passiva dell'ispirare una passione, lo struggimento divino del risentirla?

– Mah!… – dice Dora stringendosi nelle spalle.

– Eppure, troviamo che le «Amatrici», le donne nate col fuoco sacro della passionalità nel cuore, guardano con invidia, invece che con pietà, le fredde e passive loro sorelle – le «Amate» – che come statuette d'amianto, s'ergono illese tra le fiamme dell'amore altrui, insensibili alle passioni ch'esse ispirano senza condividerle.... Perchè, bada bene, non appena le condividono, ecco che passano anche esse nell'altra categoria, quella delle «Amatrici....» e allora devono seguire un corso di lezioni del tutto diverso....

– Comincio a confondermi, – dice Dora, fissandomi con occhi alquanto vacui. – Lìmitati a spiegarmi il tuo «corso di Felicità per le Amatrici». – (E noto che Dora arrossisce).

– Questo, – sentenzio io, – si suddividerà in tre classi: la felicità cinica; la felicità magnanima; e la felicità assoluta. Alle allieve che prescelgono la «felicità cinica» si insegnano vari precetti, utili ad evitare gli amori sfortunati. Per esempio: La donna, nella relazione amorosa, sia sempre l'ultima a cominciare e la prima a finire; cioè, non s'innamori mai lei per la prima, nè si disinnamori lei per l'ultima. – (Vedo le labbra di Dora che si muovono ripetendo sottovoce questo saggio ammonimento). – Secondo precetto: «Non correre mai appresso a un uomo nè a un tram, perchè ce n'è sempre un altro che segue....». E così via.

– Cinico davvero, – dice Dora. – Passiamo all'altra classe.

– La felicità magnanima? In questa classe impareremo a trovare in noi stesse tutta quella gioia che, erroneamente e illogicamente, abbiamo l'abitudine di esigere che altri ci diano. Una volta convinte che ogni gioia deriva da ciò che noi sentiamo, e non da ciò che gli altri sentono per noi, si arriva a non preoccuparsi se, o no, il nostro amore è contraccambiato. È una forma, questa, di superiore e sagace egoismo. – Io sono brutta? Che importa! Purchè colui ch'io amo sia bello. – Io non gli piaccio? Che importa! Pur ch'egli piaccia a me! – Egli mi è lontano? Ma io lo tengo chiuso nei miei pensieri dove lo trovo quando voglio. – Si noti che queste teorie, esposte con tutta franchezza all'oggetto amato, hanno un altro vantaggio. L'uomo, lo sappiamo, è assai vano. Quindi non accadrà mai che, di fronte a un simile atteggiamento, l'idolo mascolino non finisca col commuoversi. Egli si dirà che questa donna che l'ama senza scene, senza pianti, senza rimproveri, senza esigenze, che gli parla sempre di lui, approvando tutto ciò ch'egli fa, ammirando tutto ciò ch'egli dice, in fondo lo interessa più di un'altra. Egli si abituerà a mirarsi in lei come in uno specchio – uno specchio alquanto adulatore – e così avverrà che un giorno l'«Amatrice magnanima» si troverà d'un tratto promossa nella categoria delle «Amate»!

– Oh, guarda un po', – mormora Dora, impressionata. – Hai forse ragione.

– Ed ora veniamo alla terza classe: la felicità assoluta. Qui si avrà l'insegnamento più prezioso di tutti; qui si insegnerà alla donna ad amare unicamente ciò che ha. Amica mia, quando noi avremo imparato a dirci che la cosa, o l'essere, che possediamo è l'unico che desideriamo, quando saremo convinte che ciò che ci appartiene, per il solo fatto che è nostro è l'unico degno del nostro amore – ecco che avremo trovato invero il segreto della felicità!

– Va bene, – ribattè Dora, dopo un attimo di silenzio, – ma se questa cosa, se questo essere, che oggi è nostro.... domani ci sfuggisse....

– Ah! – rispondo io, – appena ci sfugge, non è più nostro; quindi, automaticamente, cessiamo di amarlo. E cessando di amarlo cessiamo – o evitiamo – di soffrire. Del resto, ciò che è nostro bisogna saperlo tenere. E lo si tiene appunto colla felicità. Colla felicità nostra! Poichè non è che la donna felice che può rendere felici gli altri. Credimi; la Malinconica, la Rassegnata, la Sacrificata, nella vita quotidiana, è un tribolo a sè stessa e un tormento agli altri.

Dora ride e mi abbraccia.

Da quel giorno Dora ed io cogliamo la gioia a piene mani dovunque la troviamo; ed è sorprendente in quanti e quali angoli vicini e remoti la troviamo, per quanti sentieri romiti e battuti essa sboccia e fiorisce!

Volgi il capo, sconosciuta amica mia che leggi, e vedrai che tu pure già ne hai piena la casa, il giardino e il cuore....

VIII. “L'Apollinea Fiera” (RICORDI DI CARDUCCI)

Carducci mi disse:

– Vuoi parlare colla Regina?

– Sì, caro Orco, – diss'io, molto contenta.

– Allora, aspetta qui. Vado a dirglielo.

E Carducci si avviò per la salita ripida e verde sopra a Gressoney la Trinité, verso un gruppo di ufficiali, brillanti nel sole in cima all'altura.

In mezzo a loro un fluttuante velo cerulo, un bagliore di chiome dorate: era Margherita che passava in rivista le sue truppe alpine. Vestiva il pittoresco costume Gressonese: breve gonna scarlatta e corsetto di velluto nero; intorno al capo un gran velo celeste.

– Un momento! un momento! – Corsi dietro a Carducci che si fermò. – E alla Regina che cosa dovrò dire?

– Non tocca a te dire; sarà lei che ti parlerà. E tu, bada di rispondere assennata e di non farmi sfigurare.

Carducci riprese la via; ma fatti pochi passi si fermò di nuovo e si volse a me. – Spero che frattanto non andrai a vagabondare pei boschi secondo il tuo solito, – ammonì severo. – Hai capito? Stai lì, fin che ti chiamo.

– Starò qui, – diss'io. E rimasi ferma, col cuore un poco agitato; mentre vedevo allontanarsi la breve, poderosa figura col suo bastone ferrato e il gran cappello di feltro grigio alla Buffalo Bill.

Subitamente un pànico mi colse. Più lo vedevo avvicinarsi al risplendente gruppo in cima al colle e più cresceva la mia trepidazione. Pareva che la salita la facessi io; mi mancava il respiro e mi batteva rapidissimo il cuore. Laggiù a sinistra la foresta d'abeti oscura e silenziosa m'invitava alla fuga.

Allora ricordai la poesia inglese «Casabianca», che narra del mozzo sul bastimento incendiato a cui il padre dice: «Rimani qui finch'io torno».

 
«The boy stood on the burning deck
Whence all but he had fled....»
 

Invano i marinai dalla scialuppa gli gridano: «Vieni! Salvati!» Al fanciullo fu detto: «Rimani»; ed egli non si muove. – Il padre non torna perchè le fiamme l'hanno divorato. Ed egli non si muove e le fiamme divorano anche lui.

Avevo sempre di queste immaginazioni epico-romantiche nella mente; mi figuravo di essere l'eroina di grandiose ineffabili avventure anche nelle circostanze più semplici e negli avvenimenti più comuni della vita.

Questo certo non era un avvenimento comune. Parlare con una regina! Parlare con quella regina, che pareva uscita fuori – per un istante solo, in punta de' piedi! – da un meraviglioso racconto delle fate, nel fluttuante velo celeste, sullo sfondo abbagliante delle Alpi nevose e del cielo....

Vidi il gruppo dividersi per lasciare il passo al poeta. Poi si richiuse ondeggiando intorno alle due figure centrali.

Quasi subito il gruppo nuovamente si aperse; una figura si staccò dalle altre e scese verso di me. Non era Carducci. Era un ufficiale – un colonnello di artiglieria – risplendente e magnifico. E a me, cui sempre danzavano nella testa i versi, balzò subito in mente la canzone puerile e deliziosa di Giovanni Rizzi che avevo imparato non molto tempo prima, a scuola.

 
«C'era una volta un cavalier cortese
Colto, leale e pieno di valor,
Combattuto egli avea pel suo paese
Ed era detto il Colonnello d'or!
Chè d'or gli sproni avea, d'oro il caschetto
E, sopra tutto, il cor.»
 

Il Colonnello d'or si fermò davanti a me, presentandosi in un fiero e cavalleresco saluto.

– Allason, – disse.

Io risposi inclinando il capo.

– Sua Maestà m'incarica di condurla presso di lei.

– Grazie, – mormorai tremante; e al suo fianco ascesi il verde e ripido pendìo.

. . . . . .

O Colonnello d'or!… Ti ho riveduto poco tempo fa per la prima volta dopo quel giorno; non eri più Colonnello; in grige chiome portavi la divisa di Tenente Generale.

Accanto a te le tue due figlie sorridevano.

Col fiero e cavalleresco saluto militare, ti ripresentasti a me: – Allason. – E subito mi riparlasti di quel lontano giorno radioso.... – Gressoney.... la Regina.... si ricorda?…

Sì, sì; ricordavo.

Ed ecco che ieri ti ho riveduto ancora. Ieri! Eri steso, fermo e immoto, sul tuo letto. E non salutavi più nessuno. Se anche la tua Regina, che tanto amavi, fosse entrata nella tua camera, tu non ti saresti alzato, non ti saresti mosso per renderle omaggio o per offrirle uno solo di tutti quei fiori che ti circondavano in fasci profumati.

Accanto a te le tue due figlie piangevano.

Ma! oh miracolo! tu, uscendo dal tempo, ne avevi trionfato. I grigi pesanti anni tra quel lontano giorno luminoso ed oggi erano svaniti, erano caduti da te come un logoro mantello da trincea, e tu uscivi fuori nella morte, bello e baldo nella superba divisa, colle medaglie sul petto e la sciabola vicina alla mano.... Guardandoti, mi balzarono ancora nella mente i vecchi versi da tanti anni scordati:

 
«C'era una volta un cavalier cortese
Colto, leale e pieno di valor....»
 
. . . . . .

«Nell'adamàntina luce del serto» la Regina mi aspettava. Accanto a lei ritto e immobile stava Carducci; mi pareva di scorgere nel suo sguardo rivolto a me una certa trepidanza e preoccupazione. Anche gli ufficiali in cerchio guardavano tacendo.

 

Il mio spavento crebbe. (Oh silenziosa selva di abeti!).

Ma la sovrana mi tendeva sorridendo la mano e davanti a quel sorriso la mia timidezza svanì. Mi parlò. Subito mi parve d'essere sola al mondo con lei. Virtù veramente regale, ella dava, parlando, l'impressione che tutto di me le fosse noto e che nulla all'infuori di me la interessasse.

.... Quel meriggio alla table-d'hôte del Miravalle (io sedevo tra Carducci e Piero Giacosa) si parlò molto della regale udienza. Cioè io parlai poco e Carducci non parlò affatto. (Già, egli era «d'indole orsina» e amava di tacere quando non aveva nulla d'importante a dire). Ma Piero Giacosa raccontava molte cose; e, passando dagli eventi del mattino ad apprezzamenti generali sull'augusta dama, osservò:

– Sì; Margherita è veramente regale. Ma è anche.... veramente donna.

– Perchè? Come mai? – chiesero le molte signore presenti.

Il professor Piero si volse a me.

– Quando per la prima volta le parlai di voi e delle vostre poesie, Sua Maestà m'interruppe subito colla domanda tutta femminile: «Ma.... è bella?»

In coro io colle altre signore chiedemmo:

– E che cosa rispondeste?

Confesso che attesi non senza trepidanza la risposta.

– Risposi, – e Giacosa si volse a me con un affabile sorriso: – «Bella? È.... peggio, Maestà».

– Peggio? Perchè? – chiesero le signore.

– Peggio? Che cosa vuol dire? – chiesi io, non poco mortificata.

Giacosa mi guardò di nuovo con quel sorriso.

– Non ve ne lagnate. Era una risposta lusinghiera, – disse.

E sorrisi anch'io assai riconfortata.

– Era una risposta scorretta, – tuonò Carducci d'improvviso. – Ella non aveva alcun diritto di fare simili apprezzamenti.

Tacemmo tutti, mortificati e compunti. Io non sapevo cosa fare del mio sorriso. Fortuna volle che i camerieri entrassero nella sala portando maestosamente, nel nostro silenzio, dei polli arrosto, supini in un'insalata smeraldina.

Contemplando il piatto che il cameriere mi porgeva con benigno sussiego, sentenziai con voce alta e melliflua:

 
«Del pollo il vol, e del tacchino il passo.»
 

E presi un'ala di pollo.

Carducci si volse di scatto con fosco cipiglio.

– Eh? Cosa? Cos'hai detto?

Io ripetei la sagace sentenza.

– È una poesia, – spiegai, – e significa che bisogna prendere l'ala del pollo e la gamba del....

Carducci m'interruppe sdegnato: – Ma che poesia! – esclamò, crollando le spalle con ira ed impazienza.

Qualcuno rise (probabilmente ero io!) e il temporale si dileguò.

Non fu quella l'unica volta che Carducci si adirò con Piero Giacosa, a cui tuttavia era legato da viva amicizia. Giacosa era spiritoso e brillante e amava gli scherzi. A Carducci gli scherzi non piacevano. O allora dovevano essere degli scherzi assolutamente puerili e semplici. Le parole ambigue e le frasi a doppio senso gli erano odiose e lo incollerivano subito.

Già, egli sorrideva poco. E non rideva mai.

In quello stesso pomeriggio venne nel giardino del Miravalle il conducente Ciocca da Pianazzo; teneva per le redini un cavallo da sella per una delle tre signore Serra-Zanetti che abitavano l'albergo. Ma poichè il tempo si guastava, la signora non volle uscire e il buon Ciocca se ne tornava via col suo cavallo allorchè, uscendo dall'albergo con Carducci per andare a pranzo alla «Cascata», io lo vidi.

– Lascia stare quel cavallo, – mi disse subito Carducci scorgendolo da lontano; poichè io avevo l'abitudine di accarezzare il muso ad ogni cavallo che vedevo. Anche in città, egli s'irritava molto a vedermi andare con mano tesa verso tutti i cavalli di «brum»; e sempre, avvistando qualche malinconico ronzino fermo accanto al marciapiede colla testa bassa e un ginocchio ripiegato, Carducci esclamava da lontano: – Lascia stare quel cavallo.

Ma era impossibile lasciar stare il cavallo di Ciocca, fermo nel giardino a portata di mano, che aveva un naso marrone, lungo e aristocratico, un ciuffo tagliato a frangetta e una stella bianca in mezzo alla fronte.

Poichè si andava verso Pianazzo, Ciocca mi offerse di montare ed io con entusiasmo accettai.

Ma nè lui, nè Carducci sapevano farmi montare in sella; e stavo per l'appunto ignominiosamente tentando di arrampicarmici coll'aiuto di una sedia portata da un cameriere, allorchè apparve Giacosa, che accorse e con pronta destrezza mi issò in arcione.

– Che strana sella, – osservai, quand'ebbi il piede nella staffa e le redini incrociate all'inglese sulle dita. – Mi pare che vi sia un corno di troppo.

Giacosa rise. – Paese che vai.... corna che trovi, – disse. E si volse a Carducci con un sorriso.

Ma «l'Orco» aveva subito assunto la sua fisonomia dei momenti foschi. Con occhi lampeggianti e feroci squadrava il professore.

– Come sarebbe a dire? – domandò con voce fremente.

– Sarebbe a dire niente, – rispose l'affabile Piero.

Quella serenità parve incollerire ancor più Carducci. Lo vidi stringere le mascelle e chiudere i pugni.

– Misericordia!… – pensai, – bisogna intervenire! – E dall'alto del mio cavallo (ricordando il successo della mattinata) sentenziai: – «Del pollo il vol....»

Ma non essendovi alcun pollo la frase mancò totalmente il suo effetto e la collera di Carducci non si placò.

Giacosa ebbe il cortese pensiero di allontanarsi rapidamente, ed io cercai con furtivi calci di far impennare il cavallo di Ciocca onde creare una diversione.

Ma il cavallo non era di quelli che s'impennano. Era un cavallo pensieroso e circospetto che ogni momento si fermava a scacciare con un calcio languido qualche mosca che lo disturbava.

– Aspettate, Ciocca, – dissi, – questo cavallo vuol sedersi a guardare la vista. Preferisco scendere.

– No, no! – esclamò Ciocca, afferrando la redine e trascinando il letargico quadrupede per la via maestra. – Stia pur su. Non abbia paura!

Paura, io, che montavo come un fantino!…

Così, scortata da un lato da Carducci e dall'altro da Ciocca che mi teneva le redini, proseguimmo nel sole del tramonto; e in cuor mio pregai che nessuno c'incontrasse. Ma per fatalità tutti i villeggianti di Gressoney, di Saint-Jean e della Trinité parevano essersi dati convegno in quell'ora su quella strada. C'era il dottor Ry, c'era il professor Vivante, c'era il giovane Dezza, c'erano tutte le signore e le signorine della vallata. La mia vergogna era grande. – Se mi vede anche la Regina, muoio, – pensai.

Ma la Regina non uscì dalla luminosa Villa Peccoz e, come il cavallo volle, si arrivò all'Albergo della Cascata.

Umiliatissima mi lasciai scivolare dalla sella e misi piede a terra.

– Tu monti molto bene, – disse Carducci, che aveva scordato le sue ire. – Guardandoti, pensavo alle Valchirie.

Allora, per fargli piacere quasi ogni giorno Ciocca portò all'albergo uno dei suoi alti ed asimmetrici bucefali ed io salivo in sella e uscivo per sentieri e praterie, mentre Carducci camminava accanto senza parlarmi e senza guardarmi, mormorando tra sè e sè, gesticolando un poco, pensando o componendo.

 
«Bionde Valchirie, a voi diletta sferzar de' cavalli,
Sovra i nembi natando, l'erte criniere al cielo....»
 
. . . . . .

Sull'altipiano della Trinité una sera si fermò a guardare le cascatelle che tutt'intorno dall'alto delle rocce scaturivano scintillanti, incendiate dallo splendore del tramonto.

– Guarda l'oro sull'acqua, – mi disse.

Obbedii. – Non è acqua, – osservai (a Carducci dicevo tutte le fanciullaggini che mi venivano in mente). – Lassù in alto stanno sdraiate supine le fate, e lasciano pendere lungo le rocce i loro capelli sciolti.

– Sarà così, – disse Carducci contemplando le cascate increspate e rutilanti e facendosi schermo agli occhi colla mano. – Sarà precisamente così. Lo dirò anch'io.

E difatti lo disse più tardi in una lettera a me. Quella lettera è ristampata nelle sue Opere col titolo «Elegìa del Monte Spluga».

L'estate finì; e Carducci doveva ritornare a Bologna. Ma io volli rimanere a vagabondare pei monti, nel freddo e nelle bufere.

Lo vedo ancora alla partenza, seduto in carrozza – e Ciocca già a cassetta – guardarmi con quegli occhi vividi e sempre un poco corrucciati sotto l'ombra del grande feltro.

– Addio, – mi dice, alzando il cappello e scoprendo le grige chiome.

– Addio, caro Orco. – E soggiungo: – Vi ringrazio di essere stato così paziente e buono con me.

– Va, bene, – dice lui. E ripete – Addio. – Poi volge lo sguardo in giro sulla spianata dove tutto è gelido e scintillante, sugli abeti già incappucciati di bianco e sull'immensa cerchia di cime algide nel cielo freddo. Certo, io gli appaio solinga e sperduta in tutto quel grandioso biancheggiare, poichè d'improvviso, rivolto ai monti e al cielo, e stendendo la mano come se volesse additarmi a loro, grida:

– Ecco la piccola Annie che se ne va tutta sola, per il mondo pieno di neve!

Ciocca fa turbinare la frusta in un gran gesto che a Carducci piace, e i cavalli partono al galoppo verso la valle.

Io resto sola nel mondo pieno di neve. Ma mi sembra che Carducci mi abbia raccomandata alla cura dei giganti montani, e mi par di sentire che essi si chiudano amici e protettori intorno a me.

Quando sotto alle nevi le capanne spariscono, piegano i pini, si spezzano i fili telegrafici e sui «Pass» non si passa più, io, in una slitta aperta – ritta, rigida e gelata accanto a due guide e un pecoraio – scendo alla valle.

A Pont-Saint-Martin il proprietario dell'«Albergo Posta» mi accoglie stupefatto, e corre a prepararmi un thè di tiglio fumante col kirsch. Sua moglie mi sveste degli abiti irrigiditi e gelidi, e appena sono a letto riappare con una boccia d'acqua calda in una mano e una grande fetta di lardo nell'altra.

– Questo per i piedi e questo per lo stomaco, – dichiara risoluta.

Inorridisco.

– Ma è impossibile ch'io mangi quella roba! – dico coi denti stretti, contemplando la fetta di grasso che le penzola bianco e lucido dalla mano.

– Ma che mangiare! – esclama lei, ridendo; e, maternamente, me lo applica sul petto. – Non vorrà mica morire di polmonite!

Il tiglio, il kirsch, la boccia e il lardo esplicano i loro benefici effetti e al mattino mi sveglio gaia e affamata.

Prendo il treno per Milano, dove fa molto più freddo che a duemila metri d'altitudine, e dove – non più difesa dai miei giganti amici – il Naviglio mi getta al collo il suo abbraccio di grigia umidità.

Mi ammalo; ho la febbre, la tosse. Invoco il tiglio e il lardo; invano! Il dottore mi prescrive altri rimedi.

Al mio capezzale siede una dolce amica mia e di mia madre: Emilia Luzzatto. Sono stata a scuola coll'unica sua figlia, Evelina – rapita dalla tisi nello sbocciare dell'adolescenza – ed ella mi adora.

– Signora Emilia.... vieni qui!… (l'abitudine mi fa rispettosa, la malattia mi permette la familiarità). Senti.... se devo morire....

M'accorgo con un piccolo tremito che ella nè protesta nè ride, come avrei sperato. Dice: – Ebbene? – e le lagrime le scendono dagli occhi.

– Se devo morire.... avverti....

– Chi?

Chi? Me lo domando anch'io. Papa è a Yokohama con la sposa nuova che ancora non ho potuto imparare a chiamare mamma. I miei fratelli? Arnaldo è a Tokio, Ferruccio a Nuova York; Anselmo a Buenos Ayres; Louise a Kew; Eva a Petermaritzburg. La più vicina è la mia mamma.... che dorme nel piccolo cimitero protestante di Milano.

Allora dico:

– Avverti Carducci.

Ed ella lo avverte.

Carducci arriva, più fosco e accigliato che mai. Mi guarda un pezzo, senza parlare, poi dice:

– Guarisci; e ti farò un regalo.

– Che regalo? – mormoro io.

– Vedremo, – risponde. E se ne va. Sparisce. Sparisce anche la signora Luzzatto.... Sparisce tutto.

Non perchè io muoia; ma perchè dormo. Dormo per quattordici ore e mi sveglio senza febbre.

– Che regalo? – dico appena apro gli occhi, a Carducci che è riapparso; e accanto a lui sta la signora Emilia tutta ridente.

Carducci ripete: – Vedremo. Adesso pensa a guarire.

Pensai a guarire. Carducci tornò via tranquillizzato e ritornò a trovarmi qualche mese più tardi.

Andai alla Stazione Centrale ad incontrarlo. Molta gente lo conosceva e lo salutava. Come ero solita, gli diedi due grandi baci, uno di qua uno di là sulle guancie, ed egli li subì col suo abituale cipiglio; io mi appesi al suo braccio e uscimmo dalla stazione a cercare una carrozzella.

 

Ma prima di salirvi Carducci a un tratto si volse a me con severità: – Mi farai il piacere, – disse, – di non baciarmi sempre nelle stazioni:

Io rimasi sorpresa e mortificata.

– Ma altrove non vi bacio!… Non vi bacio che quando partite e quando arrivate, – esclamai.

Carducci crollò il capo. – Appunto. Non è necessario, – disse seccamente.

– Ma sì che è necessario! Vi bacio quando arrivate per la gioia di vedervi, e alla partenza per il dolore di lasciarvi.

Carducci scosse di nuovo rabbiosamente il capo, e fece il suo gesto abituale d'impazienza battendosi un dito sul labbro per farmi tacere. Se non era che il vetturino ci guardava credo che avrei pianto.

Salimmo in carrozza per andare al suo albergo; io ero molto mortificata e non parlai.

– Sei guarita? – diss'egli dopo un poco.

– Sì, – mormorai.

– Ti ho promesso un regalo.

– Ma allora ero ammalata.

– Io non prometto per promettere, – disse Carducci iroso. – Ti ho promesso un regalo e lo avrai.

– Che regalo? – feci flebilmente.

– Ho pensato che ti darei un cavallo.

Un cavallo! Io subito ebbi l'impulso di gettargli le braccia al collo, ma memore dei suoi divieti me ne astenni. Gli afferrai la mano.

– Quando?

– Subito, – disse lui.

Subito!… Mi sentii mancare.

– E dove si compera un cavallo?

– Non lo so, – disse Carducci. – Domanderemo al cameriere del Savini. Tanto, bisogna far colazione.

Fermò la carrozza all'Albergo Àncora dove sempre alloggiava e vi lasciò le valigie; indi proseguimmo fino alla Galleria.

Al Savini il cameriere, il maître d'Hôtel e il direttore ci dissero che i cavalli si comperavano al Tattersall. Anzi, mandarono subito ad avvisare il proprietario, cavalier Rossi, che ci saremmo andati.

A tavola mi colse un dubbio.

– Ma siete abbastanza ricco, caro Orco, per comprar cavalli. Avete denari che bastino?

– Sì. Ne ho molti, – disse Carducci. – Ho venduto ieri un libro a Zanichelli.

– Che libro?

– Non importa. Tanto tu non lo leggi. È una nuova edizione d'antiche cose; e lo Zanichelli me lo ha pagato moltissimo. – Carducci pose la mano sulla tasca della giacca. – Me lo ha pagato tremila lire.

– Tremila lire! – Io rimasi sbalordita davanti ad una simile cifra. – Tremila lire!…

Passata la prima meraviglia, osservai: – Dunque, in fondo.... conviene anche molto, di essere poeti.

Carducci sorrise. – Sì, sì. Conviene. E adesso taci un po'.

Ma io non potevo tacere, e dopo un istante ricominciai.

– Forse non vi dispiacerebbe se parlassimo un poco.... del colore e della forma....

– «Del Colore e della Forma?» – fece Carducci aggrottando le ciglia. – Non conosco. Di chi è? Sarà qualche pedanteria.

– Di chi è?… che cosa?

– Questo libro che tu dici.

– Ma no! ma no! Del colore e della forma del cavallo!

– Già, – brontolò Carducci, crollando le spalle, – mi pareva impossibile.... Basta. Adesso lasciami mangiare in pace.

Sulla forma convenne con me: il cavallo doveva essere grande. Grande e grosso, dicevo io; grande e magro, diceva lui. Ma sugli altri particolari non fummo d'accordo. Io lo volevo bianco colla coda mozza. Carducci lo voleva nero colla coda lunga.

– Ma, caro Orco....

– Basta; – fece Carducci, – ti ho detto di lasciarmi mangiare in pace.

Ma Carducci non doveva mangiare in pace. Un professore di filosofia, che faceva colazione a un'altra tavola, lo scorse e venne a parlargli. Dopo che ebbero discusso varie cose io riparlai del cavallo; e il professore si offrì di venire con noi al Tattersall.

A me parve provvidenziale. Un professore! Ci aiuterebbe nella scelta. Tanto più che se ne intendeva, avendo un fratello capitano di cavalleria.

Al Tattersall il direttore ci accolse con agitata e premurosa affabilità. Era circondato da molti uomini – maestri d'equitazione, palafrenieri, garzoni di stalla, che in cerchio ci contemplavano.

Allora davanti a noi passarono i cavalli: passarono cavalli grigi e morelli, cavalli bai, cavalli sauri, cavalli pomellati; passarono al passo, al trotto, al galoppo destro, al galoppo sinistro, in appoggio e caracollo.

Carducci ed io li fissavamo incerti. Ad ogni nuovo cavallo che appariva io dicevo: – Voglio questo!

Specialmente mi colpì un magnifico baio con due belle calze bianche sulle gambe posteriori.

Ma il professore di filosofia con cipiglio da conoscitore sentenziò:

– «Balzano da due vale quanto un bue».

E questo mi raffreddò.

Indi ne apparve uno tutto bianco, colla coda lunga e la criniera increspata come se gli avessero fatto l'ondulation Marcel.

– Questo! – esclamammo in coro tutti e tre; ma il cavalier Rossi si affrettò a spiegarci che il puledro – un arabo puro sangue – apparteneva alla cavallerizza di un Circo Equestre Americano; e lo fece ricondurre via.

Ma ecco comparire un altro stallone, un morello altissimo, quasi gigantesco: breve coda irrequieta, orecchie mobili, nervose; occhi lampeggianti in cui balena nell'angolo il bianco iniettato di caffè.

Entrò con passo danzante, alzando i piedi come se la terra gli facesse schifo. Era tutto nero, eccetto due calzerotti bianchi alle gambe posteriori e uno alla gamba anteriore.

– È magnifico! – esclamai.

Il professore al mio fianco citò: – «Balzano da tre, cavallo da re!».

– È questo, è questo ch'io voglio, – dissi con fervore a Carducci; e anche lui guardava assai ammirato la formidabile bestia.

– Pare il cavallo dell'Apocalisse, – disse il professore.

Il cavalier Rossi vedendo il mio entusiasmo mi chiese se volevo provarlo.

Mi prestarono una amazzone, e hop! eccomi in sella, così in alto che mi sembrava d'essere in cima a una torre.

Feci dapprima a passo il giro del maneggio: veramente non era a passo, ma sempre a quel trottigno saltellante e caracollante; mi pareva che facessimo, il cavallo ed io, come nella Mignon, la «danza delle uova». Poi partimmo al trotto, un trotto molto alto, un po' duro, che a scosse e sbalzi mi fece cadere il cappello e spuntare la treccia; indi dal piccolo galoppo ci lanciammo al galoppo allungato; e lì veramente sentii il cavallo perfetto sotto di me. Pareva alato!

Facemmo alt; e mentre io, ancora in sella, mi riappuntavo le treccie, Carducci si avvicinò ad accarezzare il collo lucente del morello.

Anche il Professore si avvicinò, ma guardingo.

– Vedono che mantello? – diceva il direttore, – vedono questa rete magnifica di vene?…

Difatti sul collo e sulla spalla del morello fremente si disegnava tutto un intrico di delicate venature pulsanti. Il professore le esaminò con diffidenza.

– Che non sia un principio d'arteriosclerosi! – mormorò.

Scesi di sella, e dietro richiesta del direttore, provai vari altri cavalli. Ma tutti mi parvero meno interessanti della grande bestia nera. Allora mentre quattro o cinque dei cavalli venivano condotti a passo in giro alla pista, Carducci in mezzo al silenzio domandò:

– Quale di quei cavalli non costa più di tremila lire?

Per un momento tutti tacquero. Poi il direttore si passò due o tre volte la mano sui baffi prima di rispondere. Fu per me un momento di grande ansia. Finalmente con gesto regale stese la mano.

– Quello lì.

Era il cavallo dell'Apocalisse – era il balzano da tre!

– Glielo lascerò per duemila settecento lire, – disse il magnanimo cavaliere.

Carducci mise subito la mano al portafogli; ma il direttore con un gesto lo fermò e lo invitò ad entrare nel suo ufficio. Insieme si allontanarono.

Io mi volsi tutta agitata a uno stalliere che stava vicino. – Come si chiama? – domandai.

– Francesco Impallomèni, – rispose quello.

– .... Ah sì?

Per non offenderlo attesi qualche minuto prima di spiegarmi meglio. – E.... il cavallo che nome ha?

– Il morello? Si chiama Rebecca.

– Rebecca! Che orrore! Perchè Rebecca?

Lo stalliere cacciò in fuori il mento e abbassò gli angoli della bocca fino a parere una rana.

– Mah!… Lo sa Lei?

– Rebecca? – ripetei desolata, volgendomi al professore.

– Sarà forse Babieca, – disse l'erudito. – Babieca è il nome del celebre cavallo del «Cid el Campeador».

– Non mi piace affatto quel nome, – diss'io; e siccome Carducci ricompariva (a fianco del cavaliere, tutto sorrisi) io dissi subito che volevo cambiar nome al mio cavallo.

– -E che nome vuoi dargli?

– Voglio chiamarlo: «O Sauro Destrier della Canzone».

– È troppo lungo – disse Carducci. – E poi non è sauro.

Il professore suggerì molti nomi classici: Pegaso.... Chirone.... Bellerofonte.... e vidi che Carducci si stancava e s'impazientiva.

Allora tagliai corto.